di Sara Parravicini (seconda parte)
Mi piace pelare le patate, starei a sbucciarne dei chili. Pelare le patate è una di quelle cose che mi danno serenità. Mi rilasso.
È un gioco leggero tra le mani e la testa, un’attenzione costante, silenziosa e piana, accompagnata da movimenti misurati e tondi. Nel fruscìo della buccia che si stacca dal frutto, nel contatto con la sua frescura acquosa, nel suono metallico del pelapatate, io mi ritrovo.
L’odore di terra tra le mani, il nero sotto le unghie, le dita attente a non tagliarsi con la lama, l’occhio vigile ma non teso. Nel pelare le patate io, incredibilmente, mi sento una, il mio io si ricompone, la testa e il corpo di nuovo insieme, come forse sono stati un tempo, non ricordo più.
Pelare le patate congela il tempo e mi dà l’illusione di liberarmi, anche se solo momentaneamente, dal suo ripetersi ciclico, dall’eterno ritorno di un passato di rovi.
Perché quello che mi frega, ancora oggi, è il passato.
Grammaticalmente parlando, dovrei dire il “passato remoto”, ovvero quel tempo verbale che a Milano non esiste, che a Napoli indica un fatto accaduto ieri mattina, a Bari stamattina e due ore fa a Palermo: è il tempo delle cose concluse, delle porte che si chiudono. Il mio passato è passato ma non rimane tale, non vuole sentirne parlare di allontanarsi definitivamente, di diventare davvero remoto.
Non è nemmeno identificabile col “passato prossimo” perché il termine “prossimo” porta in sé la vicinanza, la condivisione, il desiderio di stare insieme e questi non sono i sentimenti che mi legano al mio ieri. E in ogni caso, pur nella vicinanza, il passato prossimo è passato, è chiuso, è di là, è finito.
Il mio passato invece è qui, nel presente.
Non sempre.
Ma quando ci arriva, il mio passato avvelena e devasta ogni cosa e si salvi chi può.
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No, non mi chiamo veramente Selvaggia. È solo che Selvaggia mi sembrava meno peggio del mio vero nome, per questo mi faccio chiamare così.
Come mi chiamo veramente? Non lo dite a nessuno? Grazia Maria mi chiamo. No, dico:
Grazia
Maria.
E non sono nata nel ’32! Che poi a me, se c’è un nome che mi fa cacare, ecco, quello è Maria. E che non mi vengano a dire che quella Maria era piena di grazia e che il suo nome era benedetto! È un nome portatore della più grande sfiga del mondo: un figlio che non volevi, da qualcuno che non hai nemmeno visto in faccia. E poi Grazia: Grazia-Graziella-e-Grazie-al-…. Eh. Tutte le medie così mi sono fatta. Beh, io dico no al masochismo. Per questo mi faccio chiamare Selvaggia.
Selvaggia è nome di foresta, di Natura che vince sempre, anche sulla morte.
Selvaggia è nome che può tutto.
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Vi è mai capitato che, in certe occasioni, quando alcune situazioni difficili sembrano riproporsi nella vostra vita, qualcuno vi rassicurasse con un “tranquilla: il passato è passato e non può ritornare”? Ecco, a me è capitato spesso e, quando me la dicevano, questa frase, la trovavo davvero affascinante: “il passato non può tornare” suona bene, sembra una frase teatrale, la battuta finale di un ultimo atto. Oppure potrebbe essere il titolo di un vecchio film: Torna a casa Lassie; A volte ritornano; Tornando a casa e Il passato non può tornare.
Per me questa frase è molto a effetto. Però non è vera. No. E vi spiego il perché con una metafora. Se io mi scofano a mezzanotte un bel piatto di bagna cauda in compagnia, potete star certi che la prima cosa che penserò bevendo il caffè la mattina seguente sarà: “Mi torna ancora su la bagna cauda di ieri”.
Ergo: il passato ritorna, soprattutto se è pieno d’aglio.
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(qui c'è la prima parte)
wow sta cosa del passato che passato non è se nn nel fatto che nn puoi piu cambiarlo è esattamente il mio fardello piu pesante.... sara l'hai scritto benissimo, grazie
RispondiEliminagrazie, vincenzina! quello del passato che ritorna è uno dei temi del racconto. spero che anche il seguito ti piaccia :)
RispondiEliminacmq la patata non è un frutto :D
RispondiEliminaoh, Daje, i tuoi commenti di affezionato mi mancavano :P
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