BARABBA (con voce tremante): Il regno dei morti?... Il regno dei morti?... Com'è! Tu che ci sei stato! Dimmi com'è!Buona Pasqua.
IL RESUSCITATO (lo guarda interrogativo come se non avesse ben capito cosa intenda): Com'è?
BARABBA: Sì! Che cos'è! Quel posto dove sei stato!
IL RESUSCITATO (indugia a rispondere, si capisce che non gli piace la veemenza dell'altro): Io non sono stato in nessun posto. Sono solo stato morto. E la morte è il nulla.
BARABBA: Il nulla?
IL RESUSCITATO: E che cosa dovrebbe essere?
BARABBA lo fissa.
IL RESUSCITATO: Pensi che dovrei raccontarti qualcosa sul regno dei morti? Non posso. Il regno dei morti è il nulla. C'è... ma è il nulla.
(Pär Lagerkvist, Barabba - Dramma in due atti. Ed. Iperborea pagg. 46-47. Il Resuscitato è Lazzaro.)
domenica 20 aprile 2014
Il nulla
venerdì 18 aprile 2014
Magari, Aureliano
di Fabrizio Gabrielli
Del mio rapporto con Cien años de soledad ricordo con sfavillante nitore ogni istante, da quando l’ho afferrato dal comodino di una ragazzetta e ne ho sfogliato la prima pagina a quando l’ho riposto sullo scaffale di una libreria che era già un’altra, in un’altra casa, e così via, un nichelino di memoria per ogni altra volta che l’ho preso, rigirato tra le mani, cercato questo passaggio del maiale che piove dal cielo, quell‘altro della lotteria.
Meno nitido, ma non per questo meno ficcante, è piuttosto il ricordo di dove, in che momento e soprattutto perché sono venuto a conoscenza di questa storiella, che vi racconto:
Nel 1950 il Gruppo di Barranquilla, questo congiunto di intellettuali nel quale milita, capintesta, Gabo, si riuniva al Café Colombia, al centro della cittadina caribègna, in calle San Blas all’incrocio tra 20 de Julio e Progreso. Il Café Colombia era il bar del Teatro Colombia, che aveva un borderò d’avangarde, teatrale e musicale. Il proprietario del Café Colombia - dove venivano serviti selz, uno dei migliori cebiche della città, caffè e alcolici - si chiamava Jorge el Chompi Henríquez. Era ecuadorègno e di mestiere giocava al pallone.
Gli anni a cavallo tra il ‘49 e il ‘53, in Colombia, li ricordano col nome di El Dorado, perché quello son stati: una Golden Age, calcisticamente parlando. La crisi del fútbol argentino aveva fatto sì che molte stelle dell’epoca, un po’ da tutte le parti del Rio de La Plata, qualcuno pure dall’Ungheria, si trasferissero a giocare col Santa Fe, con l’America de Cali, con i Millonarios di Bogotà. E pure con i clubes di Barranquilla: lo Sporting e lo Junior. (È di quell’epoca l’istantanea di Alfredo Di Stefano con la maglia blu dei Millonarios. E ad occhio mister Peregrino Fernández dev’essere passato per l’America de Cali proprio nello stesso periodo, ad occhio).
In un’intervista su El Tiempo, Gabriel García Márquez ha raccontato «Ci portavamo dietro i calciatori a bere rum bianco e a insegnargli la letteratura nell’estadero Las Almendras, di fronte allo stadio Romelio Martínez. Specialmente quelli dello Sporting, che non c’avevano quasi nessun intellettuale. Mi ricordo un calciatore di quella squadra: l’ecuadoregno Chompi Henríquez».
Poi uno dice il Nobel, il calcio, ma che c’entrano, ma com’è possibile.
C’è un pezzo abbastanza famoso, che si chiama El Juramento, che negli anni m’ha reso assai simpatico Gabo (oltre a un certo suo engagement politico, oltre la foto dell’occhio pisto per il cazzottone che gl’aveva ammollato Vargas Llosa): in quel pezzo racconta della prima volta in cui, già grandicello, è andato allo stadio, e dice mi sono trovato a mettere da parte il senso del ridicolo. Fa un’operazione, ne el juramento, Gabriel García Márquez, bellissima, parla di calciatori come fossero scrittori, e interpreta le loro azioni come potenzialità scrittoriali, predisposizioni a un genere letterario meglio che a un altro.
E quindi niente: ieri Gabo se n’è andato, il mondo è un posto un po’ meno bello, come si dice in questi casi, e io gli volevo bene davvero, tutti in Colombia gliene volevano, anche i calciatori, da quelli che aveva convertito alle lettere a quelli a cavallo tra uno ieri recente, tipo Valderrama, e l’oggi, come Radamel Falcao. Che poi i cafeteros si sono qualificati ai Mondiali del Brasile - dove partono pure da mezzi favoriti - giocando, nelle partite casalinghe, con un pallone variopinto e dal nome evocativo: Macondo.
La ragazzetta che lo teneva sul comodino, Cien años de soledad, e che me l’ha fatto leggere tipo quindici, sedici anni fa, io che amavo solo il rap e col tempo mi sarei fatto ammaliare da tante altre cose, tipo certi engagements politici, il realismo magico, il pallone, gli scrittori che parlano del pallone, quella ragazzetta stessa, poi, è diventata mia moglie, la madre di mia figlia; che se non fosse stata una figlia, ma un figlio, chissà, magari l’avremmo chiamata Aureliano, chi lo sa.
Del mio rapporto con Cien años de soledad ricordo con sfavillante nitore ogni istante, da quando l’ho afferrato dal comodino di una ragazzetta e ne ho sfogliato la prima pagina a quando l’ho riposto sullo scaffale di una libreria che era già un’altra, in un’altra casa, e così via, un nichelino di memoria per ogni altra volta che l’ho preso, rigirato tra le mani, cercato questo passaggio del maiale che piove dal cielo, quell‘altro della lotteria.
Meno nitido, ma non per questo meno ficcante, è piuttosto il ricordo di dove, in che momento e soprattutto perché sono venuto a conoscenza di questa storiella, che vi racconto:
Nel 1950 il Gruppo di Barranquilla, questo congiunto di intellettuali nel quale milita, capintesta, Gabo, si riuniva al Café Colombia, al centro della cittadina caribègna, in calle San Blas all’incrocio tra 20 de Julio e Progreso. Il Café Colombia era il bar del Teatro Colombia, che aveva un borderò d’avangarde, teatrale e musicale. Il proprietario del Café Colombia - dove venivano serviti selz, uno dei migliori cebiche della città, caffè e alcolici - si chiamava Jorge el Chompi Henríquez. Era ecuadorègno e di mestiere giocava al pallone.
Gli anni a cavallo tra il ‘49 e il ‘53, in Colombia, li ricordano col nome di El Dorado, perché quello son stati: una Golden Age, calcisticamente parlando. La crisi del fútbol argentino aveva fatto sì che molte stelle dell’epoca, un po’ da tutte le parti del Rio de La Plata, qualcuno pure dall’Ungheria, si trasferissero a giocare col Santa Fe, con l’America de Cali, con i Millonarios di Bogotà. E pure con i clubes di Barranquilla: lo Sporting e lo Junior. (È di quell’epoca l’istantanea di Alfredo Di Stefano con la maglia blu dei Millonarios. E ad occhio mister Peregrino Fernández dev’essere passato per l’America de Cali proprio nello stesso periodo, ad occhio).
In un’intervista su El Tiempo, Gabriel García Márquez ha raccontato «Ci portavamo dietro i calciatori a bere rum bianco e a insegnargli la letteratura nell’estadero Las Almendras, di fronte allo stadio Romelio Martínez. Specialmente quelli dello Sporting, che non c’avevano quasi nessun intellettuale. Mi ricordo un calciatore di quella squadra: l’ecuadoregno Chompi Henríquez».
Poi uno dice il Nobel, il calcio, ma che c’entrano, ma com’è possibile.
C’è un pezzo abbastanza famoso, che si chiama El Juramento, che negli anni m’ha reso assai simpatico Gabo (oltre a un certo suo engagement politico, oltre la foto dell’occhio pisto per il cazzottone che gl’aveva ammollato Vargas Llosa): in quel pezzo racconta della prima volta in cui, già grandicello, è andato allo stadio, e dice mi sono trovato a mettere da parte il senso del ridicolo. Fa un’operazione, ne el juramento, Gabriel García Márquez, bellissima, parla di calciatori come fossero scrittori, e interpreta le loro azioni come potenzialità scrittoriali, predisposizioni a un genere letterario meglio che a un altro.
E quindi niente: ieri Gabo se n’è andato, il mondo è un posto un po’ meno bello, come si dice in questi casi, e io gli volevo bene davvero, tutti in Colombia gliene volevano, anche i calciatori, da quelli che aveva convertito alle lettere a quelli a cavallo tra uno ieri recente, tipo Valderrama, e l’oggi, come Radamel Falcao. Che poi i cafeteros si sono qualificati ai Mondiali del Brasile - dove partono pure da mezzi favoriti - giocando, nelle partite casalinghe, con un pallone variopinto e dal nome evocativo: Macondo.
La ragazzetta che lo teneva sul comodino, Cien años de soledad, e che me l’ha fatto leggere tipo quindici, sedici anni fa, io che amavo solo il rap e col tempo mi sarei fatto ammaliare da tante altre cose, tipo certi engagements politici, il realismo magico, il pallone, gli scrittori che parlano del pallone, quella ragazzetta stessa, poi, è diventata mia moglie, la madre di mia figlia; che se non fosse stata una figlia, ma un figlio, chissà, magari l’avremmo chiamata Aureliano, chi lo sa.
mercoledì 9 aprile 2014
Ultimate
Ci sono dei momenti, quando hai 11 anni, sei magrolino, un po' più basso degli altri, e vieni sempre scelto per ultimo quando si fanno le squadre per giocare a pallone lungo la via, ci sono dei momenti che ti segnano, che ti insegnano, e che concorrono a formare il metro dei valori che ti porterai dietro negli anni a venire.
Uno di quei momenti è indimenticabile. Il giorno dopo, durante la ricreazione, non si parlava d'altro, e così per una settimana intera. D'altra parte siamo qui a parlarne anche adesso, di quella sera in cui davanti alle nostre bocche spalancate Hulk Hogan perse il titolo in favore del Guerriero più figo che avessimo mai visto in televisione (anche più figo di Kenshiro, perché il Guerriero era vero, gli luccicavano i muscoli, gli brillavano gli occhi).
Non so spiegare cosa fu, vederlo in diretta (o, insomma, in leggera differita ma sempre al centro dello zeitgeist), però l'aggettivo "formativo", che non mi piace molto come parola, mi sembra abbastanza adatto, questa volta.
Ultimate Warrior è morto ieri, mentre camminava per la strada. Non so chi fosse nella vita vera e sinceramente non mi frega granché, perché nella mia vita vera è stato fondamentale il suo io fittizio. E mentre il '900 pian piano finisce, e la mia gioventù si affievolisce nella memoria, quella scala di valori che mi sono costruito un po' da solo un po' con l'aiuto di qualcuno quand'ero bambino è ancora lì che mi fa mettere un passo davanti all'altro. Un "grazie" postato qui pubblicamente mi sembrava il minimo.
Poi quando morirà Hulk Hogan saremo daccapo.
__________
Se volete vederlo, l'incontro lo trovate sull'internet, in tre parti: la Prima, la Seconda e (soprattutto) la Terza (nel finale, che mi viene ancora la pelle d'oca).
Uno di quei momenti è indimenticabile. Il giorno dopo, durante la ricreazione, non si parlava d'altro, e così per una settimana intera. D'altra parte siamo qui a parlarne anche adesso, di quella sera in cui davanti alle nostre bocche spalancate Hulk Hogan perse il titolo in favore del Guerriero più figo che avessimo mai visto in televisione (anche più figo di Kenshiro, perché il Guerriero era vero, gli luccicavano i muscoli, gli brillavano gli occhi).
Non so spiegare cosa fu, vederlo in diretta (o, insomma, in leggera differita ma sempre al centro dello zeitgeist), però l'aggettivo "formativo", che non mi piace molto come parola, mi sembra abbastanza adatto, questa volta.
Ultimate Warrior è morto ieri, mentre camminava per la strada. Non so chi fosse nella vita vera e sinceramente non mi frega granché, perché nella mia vita vera è stato fondamentale il suo io fittizio. E mentre il '900 pian piano finisce, e la mia gioventù si affievolisce nella memoria, quella scala di valori che mi sono costruito un po' da solo un po' con l'aiuto di qualcuno quand'ero bambino è ancora lì che mi fa mettere un passo davanti all'altro. Un "grazie" postato qui pubblicamente mi sembrava il minimo.
Poi quando morirà Hulk Hogan saremo daccapo.
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Se volete vederlo, l'incontro lo trovate sull'internet, in tre parti: la Prima, la Seconda e (soprattutto) la Terza (nel finale, che mi viene ancora la pelle d'oca).
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