sabato 31 dicembre 2011

Buona fine

(Un post di buoni sentimenti, ringraziamenti e cose così.)

E insomma, non siamo certo di quelli che si rallegrano per la fine dell'anno, ché il 2011 barabbista è stato davvero mirabolante: abbiamo fondato una casa editrice inesistente e una collana che non pubblica niente, abbiamo fatto uscire un libro di carta e cinque libri elettrici (due sulla Liberazione, uno sulle Cicatrici, uno di simone rossi e infine il Marinelli), siamo stati la lettura estiva preferita da Matteo B. Bianchi, siamo finiti sul Corriere (due volte, anzi tre), sul Sole 24 Ore e sulla Voce di Carpi, che per noi è tipo il Time, siamo arrivati terzi come miglior blog letterario alla Blogfest, poi Bookrepublic ci ha chiesto di dire delle cose al Salone del Libro di Torino ed eravamo i più punk sulla piazza, con le gambe un po' tremanti abbiamo cantato Fischia il vento con il Coro delle Mondine di Novi di Modena, ci han chiamati a leggere a Parigi e in un sacco di altri posti, abbiamo conosciuto una sfilza incalcolabile di anime belle e abbiamo riabbracciato e sbaciucchiato quelle che conoscevamo già e, insomma, è stato fico.

Il 2012, adesso vediamo. Speriamo di far bene. Intanto buon anno nuovo. E grazie a tutti per quello passato.

mercoledì 28 dicembre 2011

Però dà un tono all'ambiente

Non ho ancora stilato, come mio solito, una classifica dei dischi migliori del 2011, ma sicuramente so qual è il peggiore, lo sto ascoltando proprio adesso; l'ho trovato oggi pomeriggio in un negozietto di roba usata a Parigi (sì, sono a Parigi, potete insultarmi, se ne avete voglia, posso capire) e che sia un disco pessimo non pare una mia opinione esclusiva, visto che è targato 2011 e che si trovava in un negozietto di roba usata a Parigi. Ecco, il disco più brutto dell'anno ancora in corso e agli sgoccioli è questo.

martedì 27 dicembre 2011

Nel nome del padre (7)

Ester: Papà, quando vedo un lupo te lo dico che gli tiri un raudo, va bene?
Papà: Ok.

sabato 24 dicembre 2011

La Befana quotidiana: storiellina di natale

Al sabato, se non sono su Marte o giù di lì, il pranzo lo faccio dai miei nonni materni. Sempre.
Domenica invece vado dalla nonna paterna. Sempre.
Chiamatelo se volete cerchiobottismo familistico italiano, ma è l'equilibrio genealogico più stabile di tutta la mia vita (equilibrio che precipita tutto sui miei lardelli), superato solo dai miei genitori giovinastri, motociclisti e rockettari.
Comunque, i nonni abitano in un palazzo alto quattro piani vicino alla stazione, e oggi, come ogni sabato, sono entrato nell'androne, ho pigiato il pulsante e l'ascensore ha cominciato la discesa.
Arrivato a piano terra, si apre e dentro compare la Befana. Giuro. Era bassina bassina, tondissima, vestita pesante come una montanara. Aveva i capelli color paglia e fieno legati con la coda, una discreta quantità di rughe, il proverbiale naso e due occhi chiarissimi. E ha subito trillato: "Auguri!"
Mentre la lasciavo uscire dalle porte stavo per dirle, Sei in anticipo di quasi 2 settimane, ma intanto la modalità pavloviana festiva e cortese che mi risiede nell'emisfero destro aveva già risposto con: "Anche a lei!".
Occupato l'ascensore e pigiato per risalire, mi son chiesto se era sola questa signora per le feste e se non le sarebbe piaciuto avere compagnia e dove avesse lasciato amici e parenti. Mi son chiesto poi chi sarebbero i parenti e gli amici della Befana (a parte Babbo N. che in queste ore dev'essere proprio indaffaratissimo), e quale vita aspetta i nostri piccoli e grandi miti quando escono dall'occhio di bue del loro "momento".
Arrivato sul piano mi son messo a scrivere lì, subito fuori dall'ascensore, appoggiato al muro, l'incontro e queste piccole riflessioni. Mia nonna è venuta fuori e mi fa: "Ma cosa fai lì?! Aspetta che ti accendo la luce, almeno." perché nel tempo che scrivevo si era spenta. Poi rientra in casa e quasi subito, o comunque a me lì che scrivevo in verticale sul muro è sembrato quasi subito, riesce sul pianerottolo e mi fa: "E tuo fratello?"
Porca... Mio fratello, son venuto qui senza passarlo a prendere, sarà a casa dei miei che mi aspetta. Metti il punto, pigia il pulsante, scendi giù, esci e metti in moto.
Intanto scrutavo se riuscivo a rivedere la Befana, cercavo altezza uomo perché non credo si attenti a volare di giorno, potrebbe insospettire troppa gente.
Nel tragitto per recuperare mio fratello continuo a chiedermi se i nostri miti fanno vite ordinarie finché non devono miracolarci e arrivo pure a pensare che forse, pur di avere ogni anno quel giorno fantastico ed incredibile tutto per loro, non barattino il resto dell'anno per uno stile di vita frugale, appartato, solitario e silenzioso. Invece degli angosciosi problemi dell'Uomo Ragno e dei vari supereroi sull'identità segreta, sul giudizio dei propri cari e la paranoia imperante che il mondo scopra cosa c'è dietro la maschera, i miti tagliano la testa al toro e vivono in solitudine, per non dover mentire, per non doversi giustificare per assenze immeritate per i loro prossimi ma gloriose e celebrative per tutti noi. Forse.
E poi cosa succede tra di loro, miti del nostro mondo? Si conoscono? Si salutano? Si odiano? Si stimano? In che rapporti sono?
Caricato il fratellino di 10 anni di meno e di una spanna più alto, torniamo lì dal palazzo ed entriamo nell'androne. Sarà per via che gli piace sgambare dopo esser rimasto fermo a studiare in casa o per via che non gli piace molto aspettare in generale, mio fratello molto raramente prende l'ascensore, butta lì un "ci vediamo su" e sfrutta le leve delle sue gambe salendo le scale a tre e tre. Guardo la lucina, l'ascensore è occupato, sento di fianco le pompe idrauliche che miagolano lo sforzo di muovere quella cabina per i quattro piani. Salgo anch'io. Non a tre a tre perché ormai ho un'età e una cartellina di cuoio chiaro slavata che fa molto professor. Facciamo a due a due e poi uno (gli scalini sono dispari).
Giunto al terzo piano, mentre sto per attaccare la nuova serie, l'ascensore di fianco alla rampa si apre, sporgo indietro la testa e ricompare la Befana, con una sportina e l'immancabile gobbetta. Vista di profilo la linea della pancia e quella della schiena ti mostrano che il suo collo e la sua testa non potevano che incastrarsi in quel punto magico.
"Auguri!" esclamo io, tutto preso dalla scalata, dall'apparizione e dalla frenata.
"Auguri anche a lei signore - un po' titubante mentre armeggia per aprire la porta - mi può dire dove sta andando?"
"Al piano di sopra, dai miei nonni, l'Anna e Vittorio."
"Ah... Scusi sa se glielo chiedo ma ci son stati i ladri in fondo al viale e ..."
Nella sospensione della frase mi guardo da fuori: Giaccone loden verde un po' frusto, sciarpa verdone scuro chilometrica ed arrotolata sotto la bocca baffuta, borsalino grigio da cui fuoriescono ciuffi di capelli neri, scarponi un po' infangati. Di sera non sarei molto rassicurante, credo.
Se fossimo nell'Ottocento canticchierei vecchi vaudevilles mentre affilo la lama e griderei slogan libertari e bombaroli alle vetrine.
Marius Jacob che incontra la Befana. Ecco qua.
Avrei tanto voluto darle un bacio sulla piccola fronte rugosa.
Sposto la sciarpa e mi tolgo il cappello, sorrido "Si figuri e ancora auguri!", saluto e risalgo le scale.
I miti, come gli auguri, si rinnovano in noi, per noi e attraverso di noi.
E quindi auguri amici.
Che i vostri miti vi siano vicini.
Barabba tra i primi.

venerdì 23 dicembre 2011

Tante Belle Cose e compiti per le vacanze

Come dice una mail che abbiamo ricevuto la settimana scorsa, Tante Belle Cose (o T.B.C.) torna a gennaio:
Abbiamo fatto la riunione di Tante belle cose, a fine novembre, ne siamo stati contenti e abbiamo deciso di continuare. [...] Chi non può venire alla prossima riunione, che sarà sabato 21 gennaio, sempre a Carpi e sempre allo spazio meme, preghiamo anche lui di mandare i pezzi che vorrebbe fossero letti alla prossima riunione a questa mail [che poi è sempre il vecchio indirizzo della redazione dell'accalappiacani. Ndr]; a chi verrà, invece, chiederemmo di non mandarli ma di portarli con sé.
E ci sono anche dei compiti per le vacanze natalizie:
Abbiamo deciso che, prima di reincontrarci, proveremo a leggere La donna della domenica di Fruttero & Lucentini per poi parlarne insieme; alla fine della riunione di gennaio, ci sarà, aperta a tutti, la presentazione del libro Gli occhiali sul naso. Vita romanzesca dello scrittore Isaak Babel' e dei suoi anni tempestosi, di Giovanni Maccari, Sellerio editore (“A proposito di silenzio, sono un gran maestro in questo genere letterario”).
Insomma, ci sembra una bella cosa. Ci vediamo il 21 gennaio.

giovedì 22 dicembre 2011

Hanno ucciso Barbapapà o Io per me vorrei essere una rana (10)

di Sara Parravicini (decima - e ultima - parte)

Io volevo solo dire che io lo so cosa sono i partigiani perché mia nonna Vera mi racconta sempre le storie della guerra, perché adesso sono grande e le storie dei piccoli, con quelle femmine che strillano dalle torri aiuto! aiuto! e poi arriva il principe e le salva, mi hanno un po’ stufato.
Io adesso sono grande e le storie della guerra posso ascoltarle.
E lo dico sempre a mia nonna: nonna, me la racconti una storia? Dai, raccontami una storia da grandi (che vuol dire una di quelle storie vere, che un po’ fanno paura e un po’ schifo, anche perché, di solito, sono piene di morti e di ammazzamenti, ma sono vere).
E lei, di solito, me la racconta.

“Sì, certo che te la racconto, stellina, anche se un po’ mi viene la paura ancora adesso quando racconto le storie della guerra, perché ero una bambina come te quando la guerra è iniziata e io l’ho capito subito che non era una bella roba, la guerra.
Quando Mussolini ha annunciato alla radio che entravamo in guerra era il 10 giugno 1940 e io me lo ricordo ancora: ero in cortile a giocare alla corda e mio padre, che era monarchico e non gli piaceva Mussolini, mio padre mi chiama ed è arrabbiato e spaventato e io dico sì sì arrivo, ma continuo a saltare la corda, allora mio padre scende e mi fa salire in casa, quattro piani di scale, a pedate nel culo. Eh eh eh! Ché si era innervosito, ché lui lo sapeva che la guerra era una cosa brutta, ché aveva uno fratello che era morto nella guerra del ’15-’18. È stata l’unica volta che mi ha toccato. Ho capito subito che la guerra era una cosa brutta. Ma comunque...
Te l’ho raccontata quella di quando c’era la ritirata e i nostri soldati saltavano tutti sui camion, ma siccome non ci stavano tutti, da dentro i loro compagni gli tagliavano le dita con la baionetta per farli scendere se no il camion non riusciva a partire?”.

“Sì, nonna, quella la so già.”

“E quella del fratello piccolo che salva il fratello grande caricandoselo in spalla?”

“Sì anche quella. Una nuova, nonna.”

“Quella del soldato che aveva male al piede?”

“No, quella no! Dai nonna racconta!”

“Eh… Questa me l’ha raccontata mio cugino Galdo, lui ha fatto la guerra in Russia e dice che è stata una cosa terribile, che i nostri soldati non erano pronti… Mussolini li ha mandati là con le uniformi invernali, ma i nostri soldati avevano giusto un maglione di lana e delle scarpe che erano come di cartone, e in Russia faceva freddo per davvero, anche quaranta gradi sotto lo zero! Tu ce li avresti mandati dei ragazzi in Russia vestiti solo con la camicia e un maglione di lana? No! Ma quello lì non capiva mica niente! I russi ci avevano dei cappelloni di pelo, era come averci un gatto sulla testa, e degli stivali, di pelle, pesanti… Ai nostri, ci gelavano le mani che dicono che neanche quelli che erano abituati al clima delle nostre montagne potevano sopportare un freddo simile!
Insomma, per farla breve, c’era questo soldato che era un po’ che si lamentava che diceva che aveva male a un piede. A un certo punto gridano la ritirata, che vuol dire che hanno perso la battaglia e che devono tornare indietro, altrimenti i russi arrivavano e li ammazzavano tutti. E allora via! Tutti indietro di corsa! Di corsa per modo di dire, perché c’erano poi dei metri di neve e non è che si potesse proprio correre…
Insomma, questo soldato non ce la fa più e dice ai suoi compagni Lasciatemi qui, io non riesco più a camminare. Voi andate, così, se arrivano, i russi ammazzano solo me. Ma i suoi compagni non gli danno retta e fruc! Uno lo tira su per un braccio e fruc! Uno lo tira su dall’altro e così come volando il soldato riesce a rimanere col gruppo. Quando alla sera si fermano che preparano un po’ di zuppa calda, il soldato si slaccia la scarpa, la allarga piano piano, ahia che male ahiahiahiahiahi! Toglie la calza e nella calza ci sente un duro, ma un duro! E allora ci guarda dentro e dentro c’era rimasto un dito! Che lui non si era accorto ma gli si era congelato e gli si era staccato e adesso era lì dentro! E dicevano che era proprio duro come un turacciolo. Allora il soldato prende in mano il suo dito, lo guarda ben bene, lo avvolge in un fazzoletto e dice ai suoi compagni Questo me lo metto in tasca che lo porto alla mia mamma che mi dice sempre che sono uno smemorato e che perdo sempre tutto! Ah, ah, ah!”

***

La mia vita è un anelare a un equilibrio di cui alla fine non mi importa un granché.
Cerco di mettere insieme i pezzi, ma è inutile: un vaso rabberciato fa cacare, lo sappiamo tutti, è infantile stare a raccontarsela, anche se faccio tanto l’ecologista e provo a riparare tutto, anche se mi impegno a trovare dei sinonomi per definirne l’effetto, una manciata di cocci tenuti insieme dall’attak fa cacare e basta, mi spiace. Io ci provo a tenere tutti i pezzi insieme, e forse è umano, ma forse più vitale sarebbe cercare di guardarli dall’alto tutti 'sti pezzi, tutti 'sti isolotti, 'sti momenti felici e infelici e poi, dopo che li hai visti, dirsi pure: “minchia, che bordello la mia vita!” Poi però basta così, accontentarsi della visione di questo insieme sgangherato, rassegnarsi alla mancanza di un senso logico e trovarne uno proprio, parziale e imperfetto quanto vuoi, ma il più possibile sincero.

Tenere insieme i miei pezzi non è facile. Devo prendere per mano la mia me bambina e la mia me adolescente e giovane donna e, con le loro paure, le loro ferite, le loro umiliazioni, continuare a camminare.

No, Maria, non piangere, è solo un sogno, non c’è la piovra sotto il letto, è morta, non viene più, vieni qua tra le mie braccia, torna a dormire… ssst…

Hanno bisogno di attenzioni e cure, ma come piante grasse sono ricoperte di spine e come gatti neri soffiano, se ti avvicini troppo.

Selvaggia, no, non fare così, sei bella, ti giuro, aggrappati a me, io ti vedo, sei vera, non sei di vetro, no, non farti scivolare nel nero… Ma sono ragazze difficili e i loro ricordi sono come lividi che fanno voltare la gente, che fanno spalancare occhi e bocche, che attraggono e respingono.

E poi hanno addosso questa bava di lumaca, che per tanto tempo mi ha disgustata, ma che ora… beh, ora non più, anzi. Che se inclini un po’ la testa, se la guardi un po’ in obliquo, quella bava ti racconta di strade sempre in salita, di vittorie quotidiane, della conquista dell’orgoglio di essere donna, sempre, nonostante le umiliazioni.

In fondo, in quella bava, si riflette pur sempre la luce del sole.

*

“I serpenti cambiano periodicamente la loro pelle. Lo scopo della muta è la crescita delle dimensioni del serpente, dunque è indispensabile per il miglioramento del movimento.”
Confesso: questo l’ho copiato uguale uguale dal Libro delle Ricerche, ma la maestra non se ne è accorta.
Questa cosa vuol dire che il serpente ogni anno cambia guardaroba. Fa la muta, appunto: si sfila la pelle vecchia come un calzino e tira fuori quella nuova.
A me piace questa cosa che ho copiato, cioè che se vuole crescere, se vuole muoversi meglio, il serpente DEVE cambiare pelle; anche se quella che ha magari gli piace tanto, anche se ormai gli stava comoda comoda: la deve cambiare.
Io una volta l’ho vista, la muta dei serpenti. Si toglievano la pelle sopra gli alberi. Non so perché non rimanessero per terra, a spogliarsi: forse si vergognavano o forse boh, non l’ho trovato in nessun libro il perché.
Per me era un modo per sentirsi un po’ meno schifi, per dimenticare per un pochettino la fatica di strisciare per terra, per ricordarsi di quando erano un po’ di cielo, di quando avevano le ali.

***

Certo che è pieno di tagli: è un tagliere, direte voi.
Sì, però non è che nascere tagliere sia facile da accettare, secondo me. Tutta la vita a sopportare peso di lame e odore di aglio e di pesce e di cipolla. Odori che ti rimangono dentro anche se stai in ammollo in acqua e aceto.
C’è modo e modo di essere tagliere. Il tagliere di Casa Nocina secondo me è un tagliere che si è riappacificato con il suo essere tagliere. Quando sbuccio le patate, ci parliamo in silenzio, io e il tagliere.
E lui mi dice che non è stufo di triti di aglio, no.
Mi dice che quei tagli, quella spaccatura, quel nero di fuoco, sono ciò che fa di lui un signor tagliere.
Senza quei tagli, senza quella crepa, senza quel nero di fiamme, non sarebbe quello che è: un oggetto resistente.

In tutti i sensi.

***

La mia ricerca è quasi finita.
Io qui potrei parlare ancora del serpente, dell’Uroboro, per far chiudere il cerchio.
E invece io lo frego, l’Uroboro, e di lui non vi dico più niente.
Cioè, non è che ho iniziato a parlare del serpente che si mangia la coda e con quello devo finire, no.
Perché non è che l’Uroboro vuol dire tempo che torna uguale. Vuol dire il tempo che gira. Vuol dire vita, poi morte, poi ancora vita.
Ma è inutile che ve lo spieghi, questa è una di quelle cose semplici che i grandi non riescono a capire.

Però per chiudere il cerchio vi racconto un’ultima storia, sempre di un serpente, ma più simpatico. Vi racconto la storia del serpente Dinkidanko.

Dinkidanko era un serpente giallo con due corna luuunghe così. Ed era grosso, Dinkidanko, e fortissimo. E si mangiava tutto quello che trovava nel villaggio: vitelli grassi, galline spennate, capretti con gli zoccoli, bambini con le ciabatte… Tutto si mangiava, Dinkidanko.
Un giorno però la gente del villaggio si stufa di Dinkidanko e vanno tutti dal Re a protestare:
“Sua Maestà, faccia qualcosa, Dinkidanko mi ha mangiato otto pecore!”
“Sua Maestà, mi aiuti, Dinkidanko mi ha mangiato la vacca!”
“Sua Maestà, ci salvi, Dinkidanko spaventa i vecchi!” (che non si dice vecchi, ma anziani, ma se la favola dice così, non è colpa mia).
Il Re ci pensa un po’ su e decide che bisogna andare dal vecchio Saggio a chiedere consiglio. Una mattina presto il Re si sveglia e tutto solo raggiunge l’albero maestro, il baobab. Lì sotto incontra il Saggio e gli spiega dei capretti mangiati e dei bambini terrorizzati e della gente che grida che ha paura di Dinkidanko.
Pensa che ci ripensa, il Saggio trova una soluzione e, dopo due giorni, torna dal Re e gli dice:
“Il villaggio ha bisogno di coraggio. Ci servono dei giovani coraggiosi che trovino Dinkidanko e ci liberino dalla paura”.
Allora il Re manda in giro per il villaggio il griot, il cantastorie, a cantare che c’è bisogno di giovani coraggiosi.
Il giorno dopo si presentano in tre. Il Re li manda dal Mago della grotta sul fiume e, dopo un lungo cammino, i tre giovani arrivano a destinazione. Il Mago dà loro acqua da bere e una tazza di miglio da mangiare per ritrovare le forze poi i tre si addormentano intorno al fuoco.
Il giorno dopo, il Mago fa loro tre doni: al primo un bastone, al secondo un tappeto e al terzo una pietra rossa e tonda. Però il Mago non dice a cosa servono, dice solo di aspettare.
I tre bevono ancora l’acqua, mangiano il miglio e si addormentano di nuovo intorno al fuoco. Nella notte però si svegliano tutti e tre nello stesso momento: avevano fatto tutti lo stesso sogno! Nel sogno, scoprono che il bastone indicherà loro la tana di Dinkidanko e che con il tappeto, che è un tappeto volante, ci arriveranno in un battibaleno. Il sogno però non dice a cosa serve la pietra.
I tre giovani sono tutti contenti, si alzano, ballano e cantano una canzone di coraggio, si siedono sul tappeto e volano via guidati dal bastone.
In uno sbatter di ciglia arrivano davanti alla tana del serpente giallo. E da lì esce, esce Dinkidanko, ed è enorme, con queste corna lunghe e grosse, e ha gli occhi rossi e muggisce come un toro. A quel punto il terzo giovane fa per lanciargli la pietra rossa per ucciderlo, ma la pietra si illumina tutta e Dinkidanko urla e cade per terra e poi dice:
“Non mi ammazzate! Non sono cattivo! È che ci ho una spina nella pancia da tanti anni e questo dolore mi fa matto. Non mi uccidete, per favore.”
I tre capiscono che quella era la pietra della verità e allora con tutte le loro forze tirano tirano finchè la spina non esce dalla pancia del serpente.
Dinkidanko allora è felice e balla e salta e promette che proteggerà per sempre il loro villaggio.
Quando i tre giovani tornano con Dinkidanko, la gente però urla, che in quel villaggio si vede che ci avevano tutti l’ophidiofobia e si capisce, ché Dinkidanko gli aveva mangiato pure i bambini con le ciabatte.
Allora i giovani raccontano tutta la storia, e la gente si avvicina piano piano a Dinkidanko, e quando vedono che non è cattivo, ma che si lascia anche accarezzare allora fanno una grande festa e tutti bevono e mangiano come dei maiali e cantano e ballano e sono felici.
Poi la storia finisce con la parte dove il Re dà ai giovani le sue figlie in sposa, ma a me questa parte delle favole mi annoia e quindi non ve la racconto neanche, che tanto è sempre uguale.

Ecco, la mia ricerca è finita. Adesso sapete perché mi piacciono gli anfibi e i rettili e perché non è giusto trattarli da schifi. E se ci avevate l’ophidiofobia, anche se siete grandi e non capite le cose semplici, spero che adesso vi sia passata.

Ah: se incontrate la mia maestra, non diteglielo che ho copiato.

__________
NOTA: la favola del serpente Dinkidanko appartiene alla tradizione senegalese ed è stata da me liberamente reinterpretata.

(La decima parte è anche la fine di Hanno ucciso Barbapapà o Io per me vorrei essere una rana. Qui ci sono le altre parti, dalla prima alla nona. Poi, appena abbiamo un po' di tempo, ci facciamo un ebook.)

mercoledì 21 dicembre 2011

Biografie essenziali (127)

Kim Jong-il, detto Centro del Partito, detto Persona superiore, detto Caro Leader, detto Rispettato Leader, detto Leader Intelligente, detto Leader Geniale, detto Unico Leader, detto Perfetta incarnazione dell’apparenza che dovrebbe avere un leader, detto Comandante in capo, detto Grande Leader, detto Padre del popolo, detto Sole del Futuro del Comunismo, detto Stella splendente della Montagna Baitou, detto Raggio di sole che ci guida, detto Leader della Forze armate rivoluzionarie, detto Garante dell’unione delle terre dei padri, detto Simbolo dell’unione delle terre dei padri, detto Speme della nazione, detto Padre amato, detto Leader del Partito, del paese e dell’esercito, detto Leader, detto Generale, detto Grande Leader del nostro Partito e della Nazione, detto Grande generale, detto Generale amato e rispettato, detto Comandante sempre vittorioso e dalla volontà di ferro, detto Sole del socialismo, detto Sole della nazione, detto Il grande sole della vita, detto Grande sole della nazione, detto Padre della nazione, detto Leader del mondo del 21esimo secolo, detto Leader senza pari, detto Sole splendente del 21esimo secolo, detto Grande sole del 21esimo secolo, detto Leader del 21esimo secolo, detto Politico meraviglioso, detto Grande uomo disceso dal Paradiso, detto Supremo Leader della nazione, detto Sole splendente di Juche, nominato Leader del Partito e del popolo, Grande ufficiale, Generale invincibile e sempre trionfante, Padre rispettato e amato, Stella che ci guida nel 21esimo secolo, Grande uomo protagonista di gesta, Grande difensore, Il salvatore, Mente della rivoluzione, Più alta incarnazione dell’amore cameratesco della rivoluzione e Sua eccellenza *, era uno a cui piaceva guardare le piccole cose **.

martedì 20 dicembre 2011

Shakespeare & Us.

Quando esco dal metrò la piazza si apre con la Cattedrale sullo sfondo e mi sento a disagio. Faccio fatica a cogliere l'essenza delle città perché faccio fatica a guardarle per intero, nelle loro parti più colossali, più sorprendenti, riesco sempre a perdermi un pezzo.
Mi sento a disagio perché mi si piazza in mente l'immagine di una folla mastodontica che corre verso di me e sta per chiedermi qualcosa, tenta di parlare tutta insieme e io non capisco niente. È un pensiero talmente vivido e bislacco che mi sembra vero e mi immagino, credendo che stesse succedendo davvero, ci avrei giurato, di fare il gioco - io e quella folla - di un due tre stella al contrario: io sono al muro e conto, loro si immobilizzano non appena inizio a dire un e corrono quando mi volto.

Abbasso lo sguardo, guardo il selciato, cerco dei piedi amici e prontamente li trovo da un lato, accanto a un muretto.
Piove e me ne accorgo senza guardare in su. Il selciato inizia a tingersi di scuro, vedo i piedi amici, li raggiungo. Respiro.

Bella, eh?
Eh.

Ci spostiamo verso destra, con la coda dell'occhio continuo a guardare la piazza e la sua folla che appena si accorge di me, di nuovo, tenta di corrermi incontro. Allora mi ripeto un due tre stella e cammino.
Cominciamo bene, penso.
Gli altri scelgono una birra a una Brassérie all'angolo, io invece scelgo una libreria, la scelgo a caso, infatti è una libreria inglese a Parigi e entrare in una libreria inglese a Parigi come prima cosa fa ridere, lo so. Entro veloce perché piove, lo faccio solo perché ho bisogno di un rifugio, ho lo zaino sulle spalle e lo spazio è stretto. Le colonne in mezzo rubano tantissimo spazio, gli scaffali sono alti e il mio occhio si perde ad arrivare fino in cima - sono miope - e i titoli in inglese non riesco a capirli tutti. Faccio attenzione a non spostare libri e riviste, quindi mi muovo piano. Non cerco niente, non voglio niente, non mi serve niente: mi metto a guardare il vetro, mi metto a guardare fuori dall'interno e la Cattedrale è ancora lì, non si muove e non si nasconde, allora mi giro io, vado in fondo, mi perdo nei vicoli. È una libreria coi vicoli, la polvere e il legno, la folla mi aspetta fuori, so che è lì fuori ma decido di ignorarla.
Salgo una scala a chiocciola, al piano di sopra ci sono un pianoforte e due letti, c'è un ragazzo che suona, non so che faccia ha. C'è questa cosa che dei pianisti spesso non vedi la faccia, te le puoi immaginare e basta, di solito immagino che abbiano un ciuffo sulla fronte perché la gravità, lo stare piegati sui tasti, nella mia mente fa sempre sì che i pianisti abbiano un ciuffo che scende sulla fronte. Lui invece no, a un certo punto si gira, mi becca a fissarlo, sorride e ricomincia a suonare. Ha una felpa grigio chiaro e gli occhiali neri.
L'altra cosa che noto sempre dei pianisti è la loro arroganza dei gesti, i salti e le evoluzioni e le mani che sembrano sempre più agili di quello che sono, le dita che sembrano sempre molto più lunghe e capaci e la mia attrazione per le mani capaci mi inebetisce sempre.
Rimango ad ascoltare, arrivano persone che sorridono, stupite, o annuiscono e dopo un po' mi allontano, con la musica in sottofondo. C'è una sedia di fronte a una macchina da scrivere, nella sala accanto, protetta da tendine, sembra una cabina telefonica ma molto più colorata. Attorno a me, attaccati alle pareti, accanto alla luce rossa che illumina la macchina da scrivere, ci sono dei pezzi di carta con su scritte le cose più disparate, in un sacco di lingue diverse. Mi siedo e rimango ferma per qualche minuto, poi scrivo:

Se sali la scala c'è un pianoforte verticale dove ci sei tu che suoni e io che ti ascolto, rapita, come quella volta.
Che ore sono?
Le sei meno dieci.
Che giorno è oggi?
Il diciotto giugno duemiladieci.
Duemiladieci?
No, scusa, duemilaundici. Il diciotto giugno duemilaunidici.
Ti amo.

__________

I vicoli della libreria di questo pezzo sono questi.

Come l'anno scorso

Vado a prendere la tredicesima e il pacco dono di Natale della ditta. Poi vado a casa e prendo il parmigiano e lo metto in frigo, come l’anno scorso. Prendo il panettone e mia moglie mi dice “Lo posso portare in negozio?”, come l’anno scorso. Poi prendo la bottiglia di prosecco e la metto di fianco a quella dell’anno scorso, identica e ancora sigillata. Poi prendo la boccetta di aceto balsamico e la metto di fianco a quella dell’anno scorso e a quella dell’anno prima, identiche e ancora sigillate. Poi mia moglie svuota la cesta dalla paglia e la mette di sotto dicendo che “qui ci mettiamo i (riempite voi lo spazio)”, come l’anno scorso.

lunedì 19 dicembre 2011

Neverendig tour: tutto sommato

Con il reading milanese delle Schegge di Liberazione abbiamo chiuso il neverending tuor per quest'anno, che è andato così:

  • 17/03 ITALIOTI: da Zero a 150 in due ore al Mattatoio Culture Club - Carpi (MO)
  • 19/03 Schegge di Liberazione alla Biblioteca Comunale di Fabriano (AN)
  • 27/03 Presentazione del n.52 di Prospektiva al Malazeni - Bologna
  • 14/05 Schegge di Liberazione alla Società Operaia di Mutuo Soccorso d’ambo i sessi Edmondo De Amicis – Torino
  • 15/05 “Barabba Edizioni è una casa editrice tanto carina, senza soffitto e senza cucina” allo stand di Bookrepublic, Salone del Libro di Torino
  • 28/05 Schegge di Liberazione alla Festa dell’ANPI a Migliarina di Carpi (MO)
  • 02/06 ITALIOTI: da Zero a 150 in due ore (allo II) al Mattatoio Culture Club - Carpi (MO)
  • 09/06 Schegge di Liberazzione a La Salumeria del Rock – Arceto di Scandiano (RE)
  • 10/06 Chiusura della campagna referendaria del Comitato per il Sì in Piazza Garibaldi a Carpi (MO)
  • 11/06 Schegge di Liberazione al Recircolo – Forlì
  • 12/06 Cicli Indecisi a Forlì
  • 18/06 Éclats de Libération alla Semaine Italienne - Parigi, FR
  • 24/06 Narrazioni musicate della casa lettrice Malicuvata allo Zammù - Bologna
  • 29/06 Schegge di Liberazione all'ex Campo di Concentramento di Fossoli - Carpi (MO)
  • 31/07 Schegge di Liberazione con il Coro delle Mondine di Novi di Modena al Coccobello – Carpi (MO)
  • 03/09 Il matrom-onion dei Gabrielli vicino a Civitavecchia
  • 11/09 Schegge di Liberazione a MESTRESISTE – Forte Marghera (VE)
  • 02/10 “Nove minuti a voce alta + un minuto di silenzio” al WriteCamp nella BlogFest 2011, a Riva del Garda (TN)
  • 08/10 “Da ognuno secondo le proprie capacità: breve storia dell’anarco-barabbismo editoriale” al Quindie? Festival di Cultura Indipendente – Fidenza (PR)
  • 05/11 Schegge di Liberazione al Teatro Comunale di Sogliano al Rubicone (FC)
  • 10/11 Schegge di Liberazione allo Zammù – Bologna
  • 20/11 Schegge di Liberazione con il Coro delle Mondine di Novi di Modena alla Commemorazione ufficiale dei fatti di Limidi di Soliera (MO)
  • 11/12 Schegge di Liberazione coi Gazebo Penguins al Mattatoio Culture Club – Carpi (MO)
  • 17/12 Schegge di Liberazione con Guido Catalano al Vanghé – Milano
A cui si aggiungono le croccantissime e le centoventotto rosse.

Alla fine del 2010 avevamo detto che era stato, barabbisticamente parlando, un bell'anno, tutto sommato, e che di belli così difficilmente ne avremo rivisti. Poi è arrivato il 2011, e diciamo che è stato, barabbisticamente parlando, un anno meraviglioso, tutto sommato. Difficilmente ne rivedremo, di anni meravigliosi così.

Grazie a tutti quelli che abbiamo incontrato, che sono venuti a vederci, che sono venuti a sentirci, che ci hanno chiamati a leggere, che son venuti a leggere, che hanno scritto racconti per noi, che hanno fatto scrivere racconti per noi, che ci hanno diffuso, che ci han fatto diffondere, che ci hanno abbracciato e si son fatti abbracciare. Grazie davvero.

Poi, l'anno prossimo, c'è da star sicuri, torniamo.

venerdì 16 dicembre 2011

Nel mio mondo perfetto (7)

Nel mio mondo perfetto, il termine "proattivo" esiste ancora, ma chi lo usa muore, e i retronebbia si spengono automaticamente quando dietro, a qualche metro, c'è qualcuno, ma soprattutto, pensa te, si spengono da soli quando la nebbia non c'è. Questo, vorrei, nel mio mondo perfetto.

giovedì 15 dicembre 2011

Hanno ucciso Barbapapà o Io per me vorrei essere una rana (9)

di Sara Parravicini (nona parte)

Infine arriva il momento in cui la crepa si allarga e tutto si rompe, ma proprio tutto si rompe, e tu cominci a franare giù e non ti ricordi più nulla. Ti dimentichi tutto: dove hai lasciato la macchina, quello che ti raccontano gli amici, quanti anni hai, se quel parente è vivo o morto, dove abiti. Ti dicono che sei smemorata e tu ci ridi, ma in realtà non ci trovi nulla da ridere perché la tua vita assomiglia sempre più a quella di un anziano malato.
Ti dimentichi quando sei nata, quando devi andare a lavorare, cosa hai fatto ieri sera, dove stavi andando; ti dimentichi degli inviti delle amiche anche se ci tieni tanto, ti dimentichi di portare a termine compiti assegnati, ti dimentichi degli amici, ti dimentichi a quale fermata scendi ogni mattina per andare in ufficio.
Ti dimentichi la trama dei libri mentre li stai leggendo, ti dimentichi di un film subito dopo aver spento la tv, ti dimentichi quello che hai studiato.
Ti dimentichi come ci si comporta tra persone normali.
Ti dimentichi tutto perché è vietato pensare, perché se pensi capisci e se capisci sei fottuta, due, tre, mille volte. Perché alla prima violenza se ne sommano altre, si sommano le domande, e i dubbi ti si appiccicano addosso come edera all’ombra: forse sapevano, forse non mi hanno difesa, forse erano d’accordo, forse l’hanno fatto tutti.
E a quel punto cola tutto giù, non c’è più verso di aggrapparsi, ormai è una buca di sabbia bagnata, allagata, ormai tutto sprofonda… Ma allora non mi volevano bene, ma perché? Perché?
E lì, è vivere o morire, testa o croce.

Io ho scelto vivere.

***

Una delle prime cose che si scopre della lucertola è che “resiste ad ampie ferite”. Così c’è scritto su Il Grande Libro della Natura, giuro.
Resiste
Ad
Ampie
Ferite.
La mia amica Giulia, che è grande e va alle medie, direbbe “‘sti cazzi!” ma io non posso dirlo perché vado ancora alle elementari (adesso l’ho detto, ma era una cosa che ha detto un'altra persona, perciò non vale).
Mia nonna, invece, che è più grande della mia amica Giulia, ma così grande da dire vecchia (ma vecchia non si dice, si dice anziana) direbbe che questi sono animali resistenti, animali partigiani.

***

Quando ero piccola, volevo essere una rana. Ora, preferirei essere un serpente. Del serpente hanno paura tutti e quindi tutti gli stanno alla larga e già questa mi sembra una bella cosa.
Se fossi un serpente, io vorrei essere un serpente alato perchè così potrei volarmene via tutta di aria quando strisciare nel fango si fa insopportabile.

Se potessi, mi farei tatuare un serpente avvolto a spirale intorno all’ombelico. Ma non un serpente normale, no. Mi farei tatuare Quetzalcoatl, il serpente piumato che i popoli precolombiani veneravano.
Quetzalcoatl mi piace perchè non si mangia la coda come l’Uroboro, non è il tempo che si ripete e quindi dà speranza.
E poi è un po’ e un po’. E mi piace questo suo essere misto, questo suo essere bastardo. Quetzalcoatl infatti è l’unione della terra con il cielo, è la totalità, è ciò che più mi manca e che forse sempre mi mancherà: l’unità.

***

Mamma… sì, ti devo parlare. No, non posso più aspettare, sono venticinque anni che aspetto. Devi cucinare? Sì, dai, ti aiuto. Pelo le patate.
Sì, no, un momento. Devo trovare le parole. Le parole che non ti facciano morire… No, mamma, ti prego, non iniziare a piangere ora, altrimenti non ce la faccio a dirti quello che ti devo dire.
Non te l’ho mai detto mamma, perché ho sempre pensato che, se te l’avessi detto, saresti morta di dolore.
Non te l’ho mai detto, perché ho anche pensato che forse non era vero niente, che ero io ad aver capito male.
Mamma, non te l’ho mai detto perché, se non mi avessi creduta, sarei diventata pazza davvero.
Mamma, adesso io te lo dico, ma tu devi stare in silenzio, altrimenti non riesco ad arrivare alla fine.

Mamma,
Il nonno
Ha abusato di me
Quando ero piccola
Mi toccava
Mi guardava
Me lo faceva vedere
Mamma.
Mamma
Questo segreto mi ha reso quasi pazza
Mamma
Io mi schifo
Perché il mio silenzio
Può aver spezzato anche mia sorella e le mie cugine
Mamma
Ma tu, dove eri?
Perché mi portavi là?
Mamma.
Tu lo sapevi?
Mamma, come hai fatto a non accorgertene?
Mamma…
L’ha fatto anche a te?

E adesso è tutto un lacrimare, mio e tuo,
è tutto un perdere lacrime e un ritrovarsi di sguardi.

E infine tu parli
Parli e piangi
Piangi e parli
E non è che si capisca molto per la verità,
ma fa niente.

Che non è tanto importante ripetere quali parole.
Importante è
Anzi, vitale è per me
Sapere che ancora parli
Che non sei morta
E i che i capelli non ti sono neanche diventati tutti bianchi di colpo.

E le tue parole sono
Struggenti
Le tue parole sono
colombe in gabbia
Mortificate e piegate
Dal senso di colpa.

Ma sono parole vive
Pur sempre colombe
Parole che si liberano dalle sbarre
Sono parole ali
E nel silenzio che le cuce nell’aria
Le tue parole
Mi danno
I n c o n s a p e v o l m e n t e
Per la seconda volta
La vita.

__________
(Continua. Qui ci sono le altre parti, dalla prima all'ottava.)

martedì 13 dicembre 2011

Cicatrici: Il dito matto

di Mortimer Potts “Mr Potts”

(Posizione)
Dito medio e palmo della mano destra, polso (quella sull’avambraccio si è cancellata).

(Cause)
Ero con mia madre in un grande magazzino che ora non esiste più. Avrò avuto tre anni. Eravamo sulla scala mobile. Lei non mi teneva in braccio (e le ci è voluto un po’ per perdonarselo), bensì per mano, la sinistra. Io mi sono chinato e ho infilato la mano libera nella fessura che c’è tra gli scalini di ferro e la paratia. Avrò urlato. Dai racconti so che mi hanno portato in ospedale con una volante della polizia, la mano ferita al petto, la maglietta zuppa di sangue. Non ho perso il dito, ma il tendine è stato tranciato ed è schizzato come un elastico fin quasi al gomito. Hanno dovuto aprire in più punti, riprendere il tendine e annodarlo al suo posto. Ho le foto con il gesso. Non ho alcun ricordo diretto.

(Conseguenze)
Il dito non è cresciuto come il suo fratello sinistro. È più corto, leggermente gobbo, e posso fletterne soltanto la prima falange, che infatti ha sviluppato un muscoletto invidiabile. Non è mai stato un problema, anzi, quasi un tratto distintivo. In famiglia era chiamato «il dito matto».
Forse l’avrò esibito a scuola. Forse per colpa sua ho ripiegato dal pianoforte all’organo. Forse avrei dovuto sfruttarlo alla visita per il servizio militare per essere esentato dalle guardie. Chi può dirlo. Qualche volta, mentre chiudo le altre dita a pugno, lui rimane lì semisteso, in una posizione vagamente imbarazzante per chi non mi conosce. Mi hanno consigliato di evitare di sollevare con la destra borse troppo pesanti: con l’età, il tendine menomato corre il rischio d’infiammarsi. Una volta ho avuto la tenosinovite. Passata.
C’è solo un vero nemico: il freddo. Quando la temperatura scende, il dito matto funziona da termometro, e se fa davvero freddo… muore. Data la scarsa circolazione sanguigna, in un primo momento diventa blu, poi cereo. Stecchisce. Allora devo frizionarlo e, in casi estremi, metterlo in bocca. Sì, non c’è altro rimedio. Due o tre minuti e resuscita, pizzicando assai.
Col tempo ho capito. Se non fosse stato su quella scala mobile, sarebbe successo altrove, perché io le dita non so tenerle a posto: devo toccare. Un pulsante misterioso, un pertugio, una superficie corrugata, un semplice buco: allungo la mano. Per controllare, per vedere di che si tratta, per provare se schiacciando succede qualcosa. Quando accade, oggi, la mia sposa mi rimprovera senza asprezza e mi guarda come se fossi ancora su quei gradini di ferro. Tutto sommato, mi meraviglio di non averne molte di più, di cicatrici.
Ah, la maglietta insanguinata, lavata, è stata conservata. Una reliquia.

__________
Non so se ve lo ricordate, ma ci sono dei baldi giovani che stanno portando in giro uno spettacolo teatrale sui cinque sensi che pesca ogni tanto dalle cicatrici uscite in ebook l'estate scorsa per la vostra casa editrice inesistente preferita. Avevano già preso 37, lo sfregio di Francesco Farabegoli, per una versione precedente dello spettacolo. Adesso ci hanno aggiunto Il dito matto di Mr Potts (che abbiamo orgogliosamente riportato qui sopra) e Catlaya, uno dei Tre cani pazzi di Gianni Solla usciti per Barabba Elettrolibri. Dunque, se siete perugini, o limitrofi, potete vedere lo spettacolo il 16 e il 17 dicembre, ore 21.30, allo Spazio Suburban-off di Fontemaggiore. Qui ci sono un po' di informazioni.

lunedì 12 dicembre 2011

No, no, no, non si può più dormire

di Auro

Il lungagnone pedala dietro di me divertito, incuriosito, con il suo intercalare toscano a sottolineare tutto il pavé. La mia vecchia bici arrugginita sotto il suo peso un po’ cigola e un po’ tentenna. Io sfilo lungo il fianco della mia città accarezzandole la pancia con le mie più leggere ruote sottili, le facciamo il solletico stanotte. Di qua, lungagnone, di qua. Drin, svoltiamo a destra, inciampando in marciapiedi irriverenti e in macchine parcheggiate come pustole sul viso.

Guardala qui, lungagnone, guarda la mia città. Bella e puttana, masochista e bulimica. Guarda questa piazza, immaginati l’interno di quel palazzo sventrato, immaginati l’urlo di impotenza di chi credeva in un mondo diverso e possibile. E poi, poi qui, lungagnone, sono iniziati i primi passi di quei funerali.

Dio, lungagnone, questa città è sangue e lacrime, lo sai, vero? È come un vestito bellissimo su una donna che fino al giorno prima vendeva sigarette nei bar luridi di Porta Romana; sono gli occhi di una donna convinta di potersi prendere delle libertà, e non sa che fra trent'anni le pagherà tutte, quelle libertà, al festino di un vecchio porco qualsiasi, che regala fiori e appalti. Sono gli occhi di ragazza, sono le mani sotto la gonna, sono le gonne sempre più corte, i culi sempre più sodi. E dietro l'angolo solo invidiosa indignazione.

Guarda questa piazza, guarda l’orologio: sono le quattro di notte e non hai ancora visto niente: non ti ho ancora portato ai vicoli delle lavandaie, a vedere la casa dov’è nata mia nonna, non conosci ancora i vicoli scuri di via fiori chiari. Ci sono fenicotteri rosa fra queste colate di cemento, lo sai?

Rimettiti in sella, ragazzino, che tutto comincia da qui, il suo punto d’origine è questo, è questa piazza, è questa città.

Fallo per me: se proprio non riesci a innamorarti di me stanotte, almeno innamorati di lei. Per sempre.

__________
Questo è un pezzo che Auro ha scritto su una foto che avevo fatto io una sera d'inverno di un paio d'anni fa, e insieme, racconto e foto, son finiti nel luglio del 2010 a pagina 16 di un libro elettrico che si chiamava My Own Private Milano. Visto che sono uno abbastanza feticista in fatto di ricorrenze, sono andato a ripescare il tutto e lo pubblico oggi alle 16:37, quando la luna è rossa, rossa di violenza.

venerdì 9 dicembre 2011

Hanno ucciso Barbapapà o Io per me vorrei essere una rana (8)

di Sara Parravicini (ottava parte)

è maria che mi ha insegnato a respirare sott’acqua.
e io non l’ho neanche ringraziata.
è lei che mi ha insegnato a fingermi morta.
a fare il gioco della lucertola, come dice lei,
o del mago, come dico io.
perché io ho imparato bene a fingermi morta.
io, quando voglio, so saltare fuori da me,
io sono capace di sfilarmi dal mio corpo.
la mia vera me, intendo,
si stacca dalla mia parte di carne
e se ne scivola via,
si tuffa nei pensieri più vari
che cosa regalo a natale alla zia?
miii, che crepa nel muro!
mi piacerebbe fare un viaggio in patagonia
che palle il traffico a quest’ora!

e poi
quando tutto si fa gelo
e silenzio
e morte
quando da fuori poi dall’alto mi osservo
vedo solo
un corpo spezzato
un corpo piegato
un corpo da usare
staccata la testa dal corpo
oh-oh-sì
godo
ancora, sì
ti faccio godere, sì
vieni

io muoio
sono morta
scopati un cadavere
fai a lei quello che vuoi
io non ci sono
sono il mago, io
salto fuori dal mio corpo
e mi vedo da fuori
così non sento niente
poi mi taglio i capelli
da maschio me li taglio
a zero me li taglio
ma fa niente.

è maria che in fondo mi ha permesso di sopravvivere
ma questa vita sul pelo dell’acqua non è vita, perdio,
questa vita è non-morte
e io non sento più niente
in questa sacca di gomma
tutto è bianco
e la mia voce non si sente
mi rimbomba dentro
non sento più niente
dentro
fuori
niente
.
non sono più io
sono una nessuna centomila
devo aver esagerato col trucco del mago
mi sono sparpagliata
scrivi scrivi
tieniti insieme.

aiuto.

***

So ormai riconoscere quando si alza la marea tossica del mio ieri. Me ne accorgo perché il momento che precede la scarica di flashback dal mio passato si dilata all’infinito cristallizzandosi in un istante di solenne silenzio.
Un silenzio colloso, apneico. Il silenzio terrifico delle profondità del mare.
Un silenzio imperfetto, che si insinua nelle crepe dei ghiacci e rompe l’equilibrio tra la montagna e la neve, il silenzio irreale che segue lo spaccarsi del bianco e annuncia il rombo sordo della valanga.
Un silenzio che ti pietrifica e ti concede un unico pensiero: quello di non avere scampo.

Silenzio.
Il silenzio è d’oro, dicono.
Io il silenzio lo associo alla neve che è bianca e bianco è il colore della purezza. Per alcuni popoli invece, il bianco è il colore della morte.
Bianco e morte. Gli occhi scivolano all’indietro, l’anima svapora, rimane un guscio vuoto, in tutto questo bianco, in tutto questo freddo. Scivoli giù giù giù.
Ci sono vite che solo in apparenza sono chiassose: in realtà, è il silenzio che le contraddistingue. Un silenzio imposto o comprato: con le minacce, le bambole, i ricatti, le botte.
Soprattutto il silenzio dei più piccoli è facile da ottenere perché i bambini sono molto bravi a sentirsi responsabili, e ciò genera un sentimento di colpevolezza che a sua volta produce vergogna che è il ventre fertile del silenzio.
Silenzio.
Da piccoli è un senso obbligato, il più delle volte. Poi da grandi… perché non si parla, da grandi? Rimane addosso quel marchio ributtante, come bava di lumaca: una luce un po’ più diretta è sufficiente a evidenziarne la scia. E allora è meglio stare nell’ombra.
E poi, perché parlare? Perché creare e crearsi altri problemi? Perché spargere altro dolore, dolore inutile?

***

ho la bocca piena di vetro.
mi sento tutta di vetro io, adesso.
di vetro le mani, di vetro la pancia, di vetro la faccia.
di vetro non mi vede nessuno.
neanche io mi vedo.
ma io vorrei che mi vedessero.
o forse no.
io penso di essere pazza.
gli occhi miei sempre sbarrati
non riesco più a chiuderli
io che ero così brava a non guardare
per una strana legge del contrappasso in vita
sono costretta a uno sguardo continuo sul mondo
persa
in questa spirale verso l’abisso,
in continua caduta
non dormo più
e la notte e il giorno
ovunque
maiali sgozzati
vedo
corpi e carne
sento
il caldo del sangue – in gola -
l’odore e il calore
del sesso
che sfrega
duro
tra le gambe.

di vetro rotto sono.
la luce mi passa attraverso
illumina
le mie crepe
irraggia
le mie ferite.

vorrei
al sole
evaporare.

***

Ma la volete sapere un’altra cosa sulla lucertola? Sul libro delle ricerche si dice che la sua particolarità è “l’autonomia”. Vuol dire che la lucertola, se la prende un gatto, per esempio, è in grado di staccarsi la coda DA SOLA per fregarlo. Cioè, è troppo furba, la lucertola! Io credevo che fosse il gatto a staccarle la coda e che poi la coda le ricrescesse, invece no! È lei che sceglie di staccarsela: la lucertola rinuncia una parte di sé per rimanere libera.

Poi, dopo, si fa crescere un’altra coda, ma la lucertola non è proprio precisissima come sua cugina la salamandra in questo genere di lavori: infatti la coda ogni tanto le cresce doppia, alla lucertola.

Invece, la salamandra può rigenerare PERFETTAMENTE alcune parti del corpo. È una specie di supereroe degli anfibi, la salamandra. Il suo unico punto debole è il fuoco. Quindi la salamandra, prima che la uccidi ce ne vuole! La puoi colpire tante volte, e farla sanguinare, e farla piangere assai, ma lei resiste e continua la sua corsa nel sottobosco di rugiada tutta ricostruita tipo Frankestein, ma tutta allegra.

La salamandra deve proprio amare la vita, io credo.

__________
(qui ci sono le altre parti, dalla prima alla settima)

giovedì 8 dicembre 2011

martedì 6 dicembre 2011

Biografie essenziali (126)

Qualunque discussione sulla tromba jazz comincia e finisce peraltro con Louis Armstrong, il jazzista più grande di tutti, colui nella cui arte lo stile di New Orleans trova il suo apogeo e il suo superamento. Louis Armstrong non è soltanto un trombettista: è la voce del suo popolo che si esprime attraverso uno strumento.

(Eric Hobsbawm, Storia sociale del jazz; Editori Riuniti, 1961, rist. 1982)
(Dev'essere perché questo libro l'ho preso in biblioteca, un gesto che non facevo da anni – e ho dovuto farlo perché non lo ristampano più, in giro non si trova nemmeno usato e in digitale figuriamoci – e dev'essere anche perché non posso sottilinearlo, ché sull'ultima pagina campeggia un'etichettona terrorista con su scritto "libro non sottolineato", insomma, dev'essere per tutti questi motivi, a cui si aggiunge l'intrippamento massimo che mi ha preso per il volume in questione, che sto ricopiando, fotografando e appiccicandone qua e pezzi, brani e citazioni. Portate pazienza, sono a metà.)

lunedì 5 dicembre 2011

Andare avanti

Il 5 dicembre del 2010 ho scritto un post che si chiamava "Cammina cammina" dove si diceva che il 5 dicembre del 2009 avevo scritto un altro post che si chiamava "Alzati e cammina" dove si diceva che dovevo riaprire il blog per farci delle cose.

Quindi, niente, oggi è una specie di secondo compleanno della resurrezione di Barabba. Alzare, ci siamo alzàti; camminare, abbiamo camminato; andare avanti, per adesso, se ci riusciamo, andiamo.

Tante grazie a voi.
E tanti auguri a noi.

domenica 4 dicembre 2011

Lo Smarino

È la mia parola del giorno: smarino. E l'ho scoperta oggi dopo pranzo. E a sentirla, subito, come tutti credo, ho pensato al mare, alle maree, ai riflussi, ai pesci, all'acqua salata, al sole, alla crema solare, al gelato, alle spiagge e alle conchiglie. Poi dopo ho subito pensato a una battuta vecchia come il mondo, che immaginandola recitata da due voci, una che cucina e l'altra attendente, ovvero che attende a quello che sta facendo l'altra, fa più o meno così: Manca Sale, dice una, e l'altra Marino, vieni su! Stacco didascalico: Sale marino. Risate.
Ma quella s- privativa...?
Ecco, a saperlo oggi, forse in tutt'Italia cos'è lo smarino, sono in 1 milione, forse due, se proprio vogliamo stare larghi. E con ogni probabilità, il 15% l'ha letto sulla settimana enigmistica, il 35% di quel milione ha fatto studi tecnici sull'argomento o ha studiato geologia come Leo Ortolani, che poi si è dato ai fumetti, e il restante 50% abita in alcune valli del piemonte, o conosce o ha sentito parlare qualcuno che abita in quelle valli, perché mai prima mi ero immaginato che esistesse lo smarino, e sopratutto che avesse a che fare con le montagne. Un po' come se il Disalpestre, che non esiste (almeno credo), fosse una specie particolare di pesce marittimo, che invece di salire i torrenti come il salmone, uscisse dall'acqua e si mettesse a fare trekking, con tanto di scarponi e piccozza, pensando di arrivare a baita prima così.
E invece lo smarino è una roba normale, di scarto, laterale.
Una di quelle cose a cui non si pensa mentre si fanno le cose, e invece c'è e rimane lì.
Ora mettiamo che tu sei lì, a Marina di Ravenna, mettiamo, e invece d'importunare le bariste tatuate e rock&roll di un noto locale sulla spiaggia, fai una bella montagna di sabbia (oggi siamo così: specialità Mare e Monti), non tanto alta che sennò i vicini d'ombrellone mica ti scorgono più ma abbastanza, poi vuoi farci passare la tua bella biglia col ciclista o calciatore della tua squadra pref., non Ronaldo del Real Madrid, che è tutto così grasso che non ci sta neanche nella boccettina di plastica, ma nemmeno Vieri, che ormai non sai neppure dove gioca, un'altro, diciamo un bel Milito, che c'ha quegli zigomi scavati che ti fan pensare alla carta vetrata e ai dentelli del saracco, ecco, uno così. Diciamo che ora hai tutto pronto o quasi, e una volta che hai la montagnola dove hai pensato di farci un buco, anche se la pista può tranquillamente passare per altri posti, c'è tutta la spiaggia per farci passare le biglie, ma tu quella montagnola la devi perforare e così sia, te l'han detto che si fa così, ma non è l'U.E. che te l'ha detto, te l'han detto altri, ma andiamo avanti, che poi dopo non finiamo più e se ti dico anche perché ti dicono che ci devi fare il buco finisce che magari ti fermi e ti chiedi perché e allora tutto si ferma, mentre poi devi farci il buco, e devi starci attentissimo al buco, che sennò crolla tutto, e finalmente l'hai fatto, 'sto buco, e il tunnel regge e Milito può passare dentro il buco - ociò che dentro i buchi devi andare più piano, che altrimenti la sabbia scura, umida, te l'infossa quel Milito, e allora tirarlo fuori da lì, non è mica come col golf, se il buco è troppo lungo, poi hai voglia a tirarlo fuori, devi chiamare quelli più grandi, che però han tutti le braccia lunghe come le tue - e allora prima di carambolare verso la vittoria il tuo Milito deve scivolare sul fondo del buco, leggero, senza calcare, ma anche così, mentre taglia il traguardo e sorride ai fotografi, tutto felice e affaticato (più che affaticato forse ammaccato dai tuoi cricchi - una vita che volevo scrivere cricchi, ci sono riuscito, e in un contesto coerente!) dicevamo sudato e con lo zigomo ancora più acuto, per via del mostrare le genginve, tra i flash delle digitali e gli applausi del pubblico, che si aspettava dei ciclisti e invece salti fuori tu, che sei bravo per carità, ma sei pur sempre un calciatore, uno che a ben vedere ragiona coi piedi, e mentre il pubblico ti applaude un po' meravigliato, tu alzi lo sguardo, come a voler incorniciare il panorama, per memorizzare meglio il momento, la sensazione; dicono che si fa così, ma mentre sei lì, che accarezzi il sole e le nuvole oltre la spiaggia piatta, eccolo lì: lo smarino.
Una montagna artificiale di terra smossa, umidiccia, un po' puzzolente e diciamocelo, non proprio filtrata e sicura, venuta fuori come scarto, prodotto di risulta dal buco della montagnola, che il tuo geologo e costruttore nonché allenatore e coach non ha pensato a rimettere da qualche parte, ma che probabilmente riverserà in mare o da qualche altra parte, esternalizzando la cosa (e mentre scrivo esternalizzare il controllo ortografico di blogger mi segnala errore, beata ignoranza!), ma se il tuo demiurgo saprà pensarla bene, mentre tu sarai pronto per il giro d'onore, dopo lo champagne e il bacio alla bella castana, lui, il demiurgo, mettendo un avambraccio a livello del piano, che per l'occasione, lo potresti giurare, è a 0 sul livello del mare, farà una bella variante al percorso e prendendo con la mano libera tutto lo smarino che c'è rimasto, creerà una nuova montagnola, non richiesta da nessuno, sul suo avambraccio così poi, quando lo smarino sarà asciutto, asciutto ma giammai pulito, potrai fare un secondo tunnel nel giro, che però finisce un po' così, perché dovrai fermarti lì, perchè i tuoi cugini, quelli che mangiano le rane e parlano un po' come i piccioni quando tubano, loro la pista, caro Milito, non te l'hanno ancora fatta, che già sanno come andrà a finire... ecco Milito, ora pensala più in grande 'sta storia, e cercala dove pochi ma potenti sfetecchioni, smarino o non smarino, voglion farci passare tutti per scoglioni...

venerdì 2 dicembre 2011

Battaglie perse

Io con i dischi son sempre stata un po’ taccagna. Non so bene il motivo, ero inclinata a quel modo lì. Per esempio, quando ho preso il primo stereo che non aveva il lettore CD compravo i vinili solo se mi piaceva la copertina, tipo Thriller e Bad ce li ho in vinile solo per quel motivo (messa bene, dico ora). Poi avevo una masnada di cassette, ma tante, molte originali e tantissime copiate dai vinili o dalla radio. Poi ho comprato il lettore CD ma i CD costavano tantissimo, ma tanto che – sarà per questa taccagnaggine che non so da dove venga, ce l’ho solo per questa cosa qui – sulle prime ero così scema da prendermi i singoli in CD e solo in un secondo momento forse la cassetta o il vinile (è una cosa scema, l’ho detto, ho anche smesso regalandoli a persone che ho reso addirittura felici). Li ho sempre trattati malissimo. Tutti. I CD, le cassette, i vinili. I vinili meno perché li esponevo e quelli non esposti erano impilati a ridosso dello stereo, quindi bene o male... Ma le cassette, povere loro... Le uniche che hanno mantenuto la propria custodia nei limiti del tenuto bene sono quelle che ascoltavo meno, tipo se vuoi ti regalo la cassetta dei Pulp che è come nuova. I dischi che mi piacevano di più li compravo in CD o li ri-registravo. Cioè, li compravo quando ero sicura che non li avrei avuti in prestito per ridoppiarmeli su cassetta. L’unico CD che ho dei Nirvana è Incesticide, il meno reperibile in giro, a quei tempi (però ho parecchi singoli). L’arte del ridoppiaggio, ecco, quello forse era il mio passatempo preferito. Ci sono dischi che avrò ridoppiato sei o sette volte perché a lungo andare si sentivano male o per una svista premevo rec. Ma queste cose succedevano tanti anni fa. Quando è arrivato lui, la prima cosa che ha detto è “cazzo se li tieni male i CD” perché come ho già detto le copertine dei dischi che mi piacevano erano le prime a rompersi, le prime a sporcarsi (che il CD stava spesso dentro e quindi sulla copertina appoggiavo di tutto). Però suonano ancora tutti bene eh, gli ho risposto. Poi ha portato i suoi. Sembravano nuovi. I doppioni li riconosciamo perchè quello con la costa rovinata o ingiallita è il mio (ah, già, spesso e volentieri le copertine interne le appendevo ai muri). Stessa cosa con i libri: i suoi sembrava che nessuno li avesse letti e invece li aveva letti tutti. Vabbè è matto, ho pensato, d’altronde è un ingegnere. Ha fatto questa cosa di metterli tutti in fila in ordine alfabetico e di scriverseli tutti su un file nel computer. Che poi in quel file lì ci scriveva anche i titoli dei libri e i concerti (i concerti, non scherzo mica). E dava i voti (non scherzo mica). E per me vabbè. Ma quando ha voluto metter mano ai vinili, che lì ne avevo più io, ecco, c’è stata un po’ di battaglia. Il vinile richiede tempo, lo scegli, lo sfili, lo prendi, tiri fuori la custodia dalla copertina, lo metti su... poi – secondo me – lo appoggi alla fine della fila. Così è anche più semplice: il primo che vedi è l’ultimo che hai ascoltato e ogni tanto puoi anche giocare al “adesso quasi quasi ascolto il primo della fila, quello schiacciato dagli altri, il meno ascoltato”. Per me filava, come ragionamento. Per l’ingegnere no. Alla fine ho pensato che con le ossessioni non ci si ragiona e l’ho lasciato fare. Però ancora mi scoccia, questa cosa dei vinili. Mi tocca sapere cosa voglio ascoltare e poi andare alla letterina giusta, col vinile tra l’altro è difficilissimo perché non sempre la costa è bella leggibile. Quanti sono con esattezza non lo so, chiedete all’ingegnere.

Han ragione tutti, in fondo, quindi nessuno

C’è la mia morosa che mi dà del matto, spesso, soprattutto da quando viviamo insieme, che ormai son quasi sette anni. Il motivo è che so esattamente quanti e quali dischi ci sono nella mia collezione, quanti sono i CD originali, perché quegli altri non li considero, quanti sono i vinili, quanti i digipack, quante le edizioni speciali, e so anche dove sono e come sono disposti, alfabeticamente, italiani prima, stranieri dopo, poi gli africani, quasi tutti del Mali, il blues, il soul, il jazz e un solo disco di hip-hop, le compile son tutte in fondo. So con precisione l’anno di ogni disco, la sua provenienza geografica, l’anno di ristampa, se è una ristampa, il giorno preciso del concerto, se è un concerto, il contenuto extra, se ci son dei contenuti extra, dove sono autografati, se sono autografati. So dettagliatamente quali sono i dischi che ho portato da casa mia a casa nostra, ormai quasi sette anni fa, quali erano già in casa sua e lì son rimasti, visto che casa nostra è casa sua, e quelli che abbiamo comprato insieme, ché siam poi anche fortunati ad avere gli stessi gusti, io e lei. So tutte queste cose perché sono cose scritte in un file .doc che aggiorno quasi quotidianamente e che è una specie di testimonianza, per quando morirò, della musica che ascoltavo, che m’immagino sempre uno che lo trova, lo legge e dice Toh che bella musica che ascoltava, poverino. E lo so che è una roba da schizofrenici, ma cosa vuoi che ti dica, hai ragione te, come ho ragione io; han ragione tutti, in fondo, quindi nessuno.

Una volta che la mia morosa mi ha dato del matto più delle altre volte è stato quando ha capito che i dischi che stanno sul mio file .doc non sono tutti i dischi che ho ascoltato o che ho comprato, ma sono molti meno. Perché io ho questa cosa, che non so se è normale, secondo me no, ma io ogni tanto faccio delle purghe staliniane, e i dischi che non mi piacciono, che non ascolto più, o quelli che mi piacciono ma a dire in giro che ti piace un disco del genere c’è da vergognarsi, niente, io li prendo e li regalo, li porto dai frati, li chiudo in una scatola in soffitta, in cantina, nel garage dei miei, in un armadio, dove capita. Ma soprattutto li tolgo dal mio file .doc, e se mi chiedi se ho mai avuto uno di quei dischi là, io ti dico no, anzi, forse non l’ho mai neanche ascoltato. E son convinto di aver ragione io, anche se hai ragione te; abbiam ragione tutti e due, in fondo, quindi nessuno.

La prima volta che la mia morosa mi ha dato del matto è stato quando ho unito i miei CD ai suoi, quasi sette anni fa, fondendo le nostre due collezioni in una billy lunghissima, mettendoli tutti nell’ordine che dovevano avere, secondo me, togliendo la polvere dai suoi, impilandoli coi miei, con la costa in vista a formare un muro insensato di plastica. Con i vinili lei ha fatto più resistenza, ma dopo qualche mese ho vinto io. Anzi, abbiamo vinto noi, io e il mio file .doc. Poi però sarà qualche anno che non mi dà più del matto, la mia morosa, si è abituata e ha capito che certe volte, se le cose son poco importanti, fa prima a venirmi dietro o a compatirmi che a scaldarsi per farmi capire che non sono mica a posto. E secondo me ha ragione, come ho ragione io; han tutti ragione, in fondo, quindi nessuno.

Ecco, adesso, io, stasera, ma davvero, stasera vado a casa e prendo il mio file .doc e lo butto nel cestino. Poi cambio posto a qualche CD, a qualche vinile, a qualche edizione speciale, vado in soffitta e cerco delle scatole coi dischi purgati e li spargo per casa dove capita, mischio i generi, sfondo il muro di plastica, tiro fuori i CD non originali e li tratto come originali, e viceversa, e poi viceversa ancora. Che son convinto che quando arriva a casa la mia morosa, lei mi dà del matto. E voglio vedere, adesso, dopo quasi sette anni, chi aveva ragione.

Avevo ragione io, mi dirà lei, trionfante, libera.
Eh, avevi ragione te, risponderò io, libero, sconfitto.

__________
Questa cosa l'ho scritta al volo, non fate nemmeno caso alla forma, vi basti sapere che la sostanza, a parte gli intenti finali che poi li vediamo stasera, in casa mia, è tutta verità. Questa cosa, quest'autoanalisi, l'ho scritta per colpa di Francesco Farabegoli e di una delle sue solite iniziative para-musicali. Fatelo anche voi, se volete.

giovedì 1 dicembre 2011

Biografie essenziali (125)

Shingō Araki non ha più un corpo, ma una miriade di anime immortali.

Hanno ucciso Barbapapà o Io per me vorrei essere una rana (7)

di Sara Parravicini (settima parte)

“Maria, non li guardi più i cartoni?”
“No. Non mi piacciono più i cartoni. Hanno ucciso Barbapapà.”
“Ma cosa dici, Maria!”
“Sì, l’hanno ucciso perchè è cattivo. È così cattivo che l’hanno ammazzato.”
“Io a volte non ti capisco, Maria. Non possono averlo ucciso: Barbapapà è buono e tutti gli vogliono bene.”
“Eh, già, è proprio buono... Però è morto. Io non li guardo più i cartoni. Andiamo a casa.”

***

che io quel giorno stavo solo guardando barbapapà in tv, a me piacevano i barbapapà, facevano sempre delle cose bellissime per i bambini e per gli animali, i barbapapà.
io stavo guardando i cartoni
e lui arriva
si piazza davanti alla tv
se lo tira fuori
davanti a me
mi dice:
cosa guardi?
e io dico:
niente
e cerco col mio sguardo di trapassarlo
di continuare a vedere
la tv
e i barbapapà
attraverso quel lardo
attraverso quella cosa che non dovevo vedere.
ma lui continua:
come niente? ti piace, eh?
e io, silenzio
allora? cos’è che guardi?
guardo barbapapà. sì, mi piace barbapapà.
adesso però spostati, che non vedo.
see, barbapapà ti piace! lo so io cosa ti piace…!
ed esplode in una risata sghemba.
e quella risata mi umilia,
quella risata
è una cinghiata in piena faccia,
quella risata
mi seppellisce viva.

***

Al termine del taglio, il papà vecchio (il bis-bisnonno) fece quello che non aveva mai fatto nella sua vita di contadino: rubò al padrone.
Rubò un pezzo di legno del noce, un pezzo di un ramo, per la precisione.
Lo tagliò nel senso della larghezza, lo lavorò, ci incise le iniziali sue e di sua moglie e ci disegnò sopra, sempre con un coltellino, in modo molto stilizzato, una casetta. Casa Nocina.
Il tagliere fu l’unico regalo d’amore che il mio bis-bisnonno fece alla mia bis-bisnonna in cinquantadue anni di matrimonio.

Il tagliere di Casa Nocina andò in dote alla mia bisnonna, venne recuperato dopo i bombardamenti tra le macerie della sua casa milanese e uscì dalla spartizione dei beni di mia nonna senza che nessuno posasse gli occhi su di lui.
Nessuno tranne me.

Il tagliere di Casa Nocina è scuro, molto scuro. È scuro perché il legno di noce è un legno che ha dentro tutto il buio del bosco. Ma è scuro anche perché fu gettato nel fuoco da una prozia disgraziata un ultimo dell’anno non troppo lontano. Mia nonna lo trovò il giorno dopo ai margini del falò, molto annerito ma fondamentalmente integro. L’incisione del papà vecchio non è più visibile ad occhio nudo, ma le dita, se ci passano sopra attente, riescono a scorgerla.
Il tagliere di Casa Nocina mi piace perché nelle sue vene scorre la storia della mia famiglia, delle donne della mia famiglia.

C’è un buco nel tagliere, un buco nel quale un tempo passava un cordino. Una volta nelle case non c’erano molti mobili, perciò in cucina si sfruttavano gli spazi in verticale e si appendeva tutto ciò che si poteva: pentole, mestoli, coperchi. E taglieri.
A causa del tempo, dell’acqua e del fuoco, si è creata una profonda crepa che parte da quel buco e termina dalla parte opposta.

E intorno, è tutto un ammucchio disordinato di righe di tagli, è tutto una ferita, il tagliere di Casa Nocina.

***

Ma ora vi racconto della lucertola. La lucertola è un sauro. Già dal nome capite che deriva dai dinosauri. E questa cosa qui secondo me è già affascinante. Poi, la lucertola è uno di quegli animali strani, ma strani tanto! Di quelli che sembra che abbiano dei superpoteri.

La lucertola è così attaccata, ma così attaccata alla vita che a volte, per salvarsi, fa finta di essere morta, così, appena il gatto che l’ha acchiappata si distrae, lei fiuuuu! se la svigna ai duecento!
Io questa cosa qui quando l’ho scoperta l’ho trovata fortissima. E da allora mi esercito ogni giorno a fare la morta. Che quando la piovra mi prende, se io mi fingo morta, non sento più niente e divento di carta e mi dimentico tutto.
Poi, quando la piovra se ne va, posso tornare a respirare e a giocare.

E sono salva.

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(qui ci sono le altre parti, dalla prima alla sesta)

mercoledì 30 novembre 2011

Una cosa divertente che rifarei

La sala è piccola e quadrata. I tavolini sono tre: uno da due, uno da sei ma apparecchiato per quattro e uno da dieci ma apparecchiato per otto.
Alle pareti, tra le altre cose, un poster di Glenn Miller, uno spartito di Elvis Costello autografato e i ganci da usare come appendiabiti.
Sulla parete in fondo c’è un notebook bianco aperto su una playlist che manderà Losing My Religion, Voglio vederti danzare, Imitation Of Life, Leaving New York, Lithium, Ticket To Ride, The Man Who Sold The World e un pezzo di Goran Bregovic molto famoso. Il notebook è appoggiato su un tavolo di legno e collegato a due casse da pc nere; accanto sempre sullo stesso tavolo due libri con la costa gialla, uno più spesso dell’altro e poco lontano una sedia vuota e rivolta al mio tavolo.
Sediamo al tavolo da due all’altro capo della sala. Arriviamo per primi e ci sediamo nel punto più lontano dalla sedia vuota.
Mangeremo un antipasto di salumi e qualche formaggio con la mostarda – io mangerò i suoi formaggi, lui mangerà la mia coppa – un risotto ai funghi mantecati con Grana DOP e un pezzo di torta di mele con un cucchiaio di crema.

Milano stasera è meno fredda degli ultimi giorni, il parcheggio in zona Via Cadore è un problema, allora andiamo a parcheggiare sempre nel solito punto, verso Via Bergamo o Via Lecco e poi facciamo un pezzo a piedi. Ci guardiamo entusiasti come se stessimo per fare una cosa nuova, ma stiamo per mangiare e ascoltare un reading.

Entriamo e ci accoglie l’oste, col grembiule bianco sporco di vino e l’espressione incerta.
Per fortuna qualcuno arriva sul serio, dice.
Nella sala apparecchiata si stanno ancora preparando e mi sembra di disturbare. Ci fanno sedere, leggiamo il menu e ordiniamo il vino. C’è un ragazzo con le mani in tasca che indossa una giacca verde e sotto una maglia blu con la bandiera americana, le persone tardano ad arrivare e l’oste è un po’ preoccupato.

La serata si intitola “A cena con David”, i due libri con la costa gialla sono di Giulio Einaudi editore e sono Brevi interviste a uomini schifosi e Il re pallido. L’attrice Monica Parmagnani legge un pezzo da Brevi interviste e due da Il re pallido, che inizia così: «Di là dalle pianure di flanella, i grafici d'asfalto e gli orizzonti di ruggine sbilenca, [...]» e i curatori della serata sono la Libreria Utopia di Milano e BeBookers, assieme al Bistrot Il Sole.
Durante il reading sono angosciata dalla cornice con una delle foto più famose di Wallace messa a mo’ di santino sulla parete dell’appendiabiti e con accanto a questa una stampa di un quadro di Rothko. Sono angosciata anche dalla maglietta con la bandiera americana, in effetti.
Penso all'effetto delle costruzioni concentriche delle frasi e i pensieri si fanno bolle che scoppiano altre bolle, penso al sapore del vino nella mia bocca, guardo le reazioni degli altri: chi china la testa un po' di lato, chi si guarda, chi chiude gli occhi e ascolta. Penso, per un momento, che siamo pochissimi.

Infine, penso che una serata di reading per David Foster Wallace sia un controsenso perché lui se c’è una cosa che non aveva piacere di fare era leggere a voce alta le sue cose:
Prima di cominciare mi sale sempre l’ansia, e l’ansia mi fa stare malissimo: è quella la cosa che non mi piace. E poi le cose che scrivo secondo me non rendono tanto bene lette a voce alta. E mi sembra di avere l’aria di un pazzo maniaco.
(Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta di David Lipsky, Minimum Fax, 2011, pag. 38)
E invece non è vero: speriamo che qualcuno glielo abbia detto, almeno una volta.

Neverending tour: dicembre 2011

Nei venti giorni che precedono il vostro Natale, ci trovate in giro per l'Italia a fare le schegge e le croccantezze. E per la precisione:

Sabato 3 dicembre
simone rossi, Bicio, l'elena e croccantissima saranno a Bagnacavallo (RA), alle 17.30, in un posto che si chiama Bottega Matteotti, a inaugurare una rassegna dall'appropriato titolo narrazioni, musica, letture.

Domenica 4 dicembre
Alle 18.30, quelli di cui sopra rifanno croccantissima alla vineria EhNò, in centro a Fabriano (AN) [inserire battuta sull'odore della carta].

Venerdì 9 dicembre
Alla libreria La Citè di Firenze, in Borgo San Frediano, ci sarà la presentazione del nuovo romanzo di Vanni Santoni, Se fossi fuoco, arderei Firenze, e per l'occasione il collettivo mensa ha pensato di invitare anche simone rossi e dell'altra gente a leggere e suonare e mangiare del lampredotto. Quindi, venerdì 9 dicembre alle 21 si fa (anche) croccantissima a Firenze, alla libreria La Citè, in Borgo San Frediano.

Sabato 10 dicembre
A Roma, al Pigneto, in un locale che si chiama Hula-Hoop (via De Magistris) ci sarà il libretto cosa?, col punto interrogativo. Cinque quarti d'ora di letture a voce alta con Fabrizio Gabrielli, Giulia Blasi, Vanni Santoni e gli Scrittori Precari. E simone rossi. Il tutto orchestrato da Finzioni, che appenderà ai muri del locale le pagine del Libretto Rosa dei lettori. Alle 20 c'è la cena. Il reading inzia alle 21.30. Sarà uno spasso.

Domenica 11 dicembre
Quelli che sono a Roma risalgono veloci come colpi di fucile per ricongiungersi col resto della brigata barabbista a Carpi, a casa nostra, perché alle 20 facciamo le Schegge di Liberazione al Mattatoio Culture Club, quel posto dove tutto era cominciato il 24 aprile del 2010, il nostro Natale. Dopo di noi suonano i Gazebo Penguins, roba che spacca.

Sabato 17 dicembre
Per finire l'anno, andiamo a Milano, al Van-ghè, a fare sempre le Schegge di Liberazione. Quella sera lì ci sarà anche Guido Catalano. Magari gli facciamo leggere qualcosa, tipo Azael, così il mondo può esplodere in un enorme cuoricione rosa. (Orari e dettagli ve li diciamo appena fissiamo tutto per bene.)

Poi basta, poi ci sono i pranzi, le cene, i cenoni, le veglie e tutte quelle cose che si fanno coi parenti. Ormai siamo talmente nomadi che nelle feste comandate le mamme ci guardano mute, con lo sguardo fisso che dice: Mi raccomando, eh... Va bene, mamma, va bene, per Natale ci sono. Poi tanto a Gennaio ricominciamo a zingarare.

martedì 29 novembre 2011

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Il panino di Elvis

Dunque, questa non l'ho inventata io. D'accordo che in cucina non si inventa niente e quindi tante cose che avete letto finora non è che possa dire "L'ho inventata io" con assoluta certezza. La cucina è un po' come il rock'n'roll: non si inventa niente, però se funziona va bene lo stesso, anche se è uguale a qualcosa che avete già sentito. Con assoluta certezza però vi dico che questa ricetta NON l'ho inventata io. E visto che tiriamo in ballo il rock'n'roll adesso vi rendo partecipi di uno dei più grandi segreti del Re. Elvis Presley, naturalmente.

Elvis si faceva preparare spessissimo dalla sua domestica un panino particolare. Ne avrà mangiati centinaia, a sentire lei. E dal 1973 in poi anche a vedere lui, aggiungerei. Bisogna avere del pane americano, del burro di arachidi, delle banane.

Prendete una banana e affettatela per il lungo. Tagliatela in mezzo e poi tagliate le due mezze banane per il lungo, se vogliamo esser precisi. Prendete due fette di pane americano. Su una (e solo su una, ribadisco) spalmate del burro di arachidi in quantità abnorme. Poi posizionate le banane sul panino. Chiudete. Scegliete se riscaldarlo leggermente oppure no.

Mangiate questa roba. Potreste diventare il nuovo re del rock'n'roll oppure morire soffocati vomitando liquidi bluastri, trascinandovi dalla tazza del cesso alla porta della stanza da bagno con i pantaloni calati, a 42 anni.

lunedì 28 novembre 2011

Una cosa che ho capito del jazz

È che il suono classico della batteria, quello della bacchetta sul piatto, quel suono che fa cicci-ci cicci-ci cicci-ci cicci-ci, quello lì, è il rumore del treno.

venerdì 25 novembre 2011

Trucchi della borghesia (45)

Il dire le cose per non dirle (o il non dirle per dirle) pur di venderle. Tipo: "taglie morbide".

giovedì 24 novembre 2011

Hanno ucciso Barbapapà o Io per me vorrei essere una rana (6)

di Sara Parravicini (sesta parte)

Il geco invece è un animalino tipo una lucertola grassottina, solo che sembra di gomma. È un po’ trasparente o un po’ marroncino chiaro tipo colore delle calze collant delle vecchie che si dice beige.
Il geco è un animale che sta sempre in vacanza, infatti lo vedi solo quando vai in vacanza al mare.
Al geco piace stare attaccato ai muri per far vedere a tutti che può stare attaccato a qualsiasi cosa. Infatti, ogni millimetro delle sue zampe è coperto di migliaia di setole speciali che gli permettono di fare l’equilibrista. Con quelle setole speciali potrebbe stare attaccato ovunque, anche nell’acqua o sulla Luna, giuro.

Io penso che deve essere bello avere quelle setole. Quando vai al mercato con la mamma e la tieni per mano, con quelle setole sei sicura di non perderti mai.

***

e non credo che sia solo l’adolescenza
o forse sì
ma che ne so.
io sono scivolata giù
e me ne sto qui
coi miei capelli blu
quattro poeti morti e rinsecchiti a farmi compagnia
manco una sigaretta tra le dita ché non fumo.
ma va bene così, lo dice anche vasco.
io scrivo poesie
e tutti mi dicono che brava che brava
ma a me non frega niente
cioè, non è che scrivo per i loro complimenti
scrivo perché non so fare altro
scrivo perché non riesco a parlare alla gente
a parlarle davvero, intendo.
scrivo perché quei fili di parole
annodate sulla carta
mi legano alla realtà.
sono fili sottili ma resistenti le mie parole,
sono parole partigiane.
sono bava da pesca
che mi àncora nel mare dell’esistenza,
filo di seta
che mi cuce al mondo.
sono tela di ragno le mie parole
che mi attacca al concreto dei miei giorni.
e così riempio quaderni
di parole e di disegni anche
disegni inquietanti a dir la verità
di bambini stilizzati e monchi
soprattutto la bocca gli manca
non lo so perché
ma va bene così, lo dice anche vasco.

io scrivo per non perdermi del tutto
scrivo per non volare via.

io scrivo perché non so che altro fare.

***

Da mia nonna ho ereditato una scatola di vecchie fotografie di famiglia, un neo sulla guancia, il suo ricettario, una collezione di caffettiere, la passione per le piante e alcuni utensili da cucina.
Ma ciò a cui più ambivo è andato perso con la sua morte: la capacità di narrare.
Mia nonna aveva una memoria strepitosa e poteva raccontare fatti avvenuti durante o prima della guerra con la precisione auspicata per una deposizione in tribunale: date di nascita, nomi, cognomi, vie, rapporti di parentela… tutto si ricordava! E riportava racconti di altri in maniera mirabile. Storie di guerra, per lo più, ma non solo. Nei suoi racconti scoprivo la vita dei bambini che non avevano tempo per essere bambini, quella dei contadini che crescevano i figli con un braccio solo “perché l’altro era del padrone”, quella delle donne che valevano meno di un mulo, che partorivano nella vigna e continuavano a lavorare.

Se mia nonna fosse ancora qui, vi racconterebbe la storia di questo tagliere. Perché anche gli oggetti hanno una storia e la loro storia è memoria e la memoria è resistenza.
Ricordare queste storie e raccontarle significa, per me, ritrovare la mia collocazione sulla spirale del tempo.

Questo è il tagliere su cui pelo sempre le patate. Fu di mia nonna e prima ancora fu della mia bisnonna che lo ebbe in dote da sua madre.
È un tagliere in legno di noce. Il legno di noce è un legno pregiato, normalmente non è utilizzato per forgiare oggetti da cucina, sarebbe uno spreco.
I miei trisavoli avevano un podere su una terra dove crescevano noci e castagni. Ovviamente non erano di loro proprietà, era tutto del padrone. Però insomma, ci vivevano, su quella terra piena di alberi.
La casa in cui nacque la mia bisnonna si trovava all’ombra di un noce imponente. Da quel noce prendeva il nome la casa in cui viveva: Casa Nocina. In quella casa, in quel noce, in quel nome, c’era tutta la storia della mia famiglia materna.
Un giorno il padrone decise che, con il legno di quell’albero, ci avrebbe fatto costruire i mobili da dare in dote alla figlia. Il mio bis-bisnonno provò a dissuaderlo, ma se il suo cavallo avesse saputo parlare, sarebbe senz'altro stato preso in maggiore considerazione.
Tutti erano usciti di casa per assistere all’evento, tutti guardavano gli uomini del padrone che segavano il noce.
I bambini erano eccitati, il noce era enorme, per loro era una festa.
Le donne si coprirono la bocca con le mani.
Gli uomini si tolsero il cappello.

Quando il primo ramo cadde a terra tra un crepitare di fronde, la madre della mia bisnonna svenne.

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(qui ci sono le altre parti, dalla prima alla quinta)

mercoledì 23 novembre 2011

Nel mio mondo perfetto (6)

Nel mio mondo perfetto, quando sono le sette passate e non vedi l'ora di andare a casa e devi immetterti in una via che qui da noi ha la sua rilevanza e si chiama Via Emilia, proprio non vorresti che accadesse un meccanismo inconscio guidatorio sincronico universale, che vedi da tutte le parti e di cui a volte sei pure tu stesso ingranaggio partecipe, consistente nel decelerare oppure accelerare tra carovane di file opposte, ad esattamente quella velocità precisa, nè molto nè poco, che non concede spazi d'inserimento ai malcapitati che attendono d'inserirsi dalle viuzze laterali. Ci sono sere in cui ho ascoltato quasi due canzoni alla radio da quell'angolazione, in attesa di uno spiraglio di buio tra i fari gialli e rossi, gialli e rossi, gialli e rossi. Ecco, diciamo che in quei momenti lì vorrei proprio essere Mosè.

martedì 22 novembre 2011

Nel nome del padre (6)

Ester: "Papà, per il mio compleanno io vorrei un regalo bianco."
Papà: "Va bene. Ma, tipo, cosa intendi quando dici bianco? Ad esempio?"
Ester: "Ad esempio una lavatrice."
Papà: "Ah. Ok... oppure?"
Ester: "Oppure un muro. O un'oca."

Dialettica (10)

C'è il dottor Bonino che l'altro giorno è venuto a Carpi a fare delle belle cose, e poi, dopo che ha finito di fare le belle cose che doveva fare, siamo andati a bere, a chiacchierare, a caricare delle sedie in una macchina - il dottor Bonino, dovreste vederlo, sembra laureato in caricaggio di sedie in una macchina, ci mette del tempo, ma ce ne fa stare anche otto, di sedie, in un'utilitaria - poi basta, siamo andati a letto.

La mattina dopo, il dottor Bonino si è svegliato ed è andato dritto a casa, dove abita lui, a Cuneo. Solo che si vede che non è abituato alle nebbie che vengon da queste parti, delle nebbie che fai fatica a vedere la targa della macchina davanti, delle nebbie che noi ci abbiamo imparato a guidare attraverso appena presa la patente, e che a dir la verità dieci anni fa eran delle nebbie ancor più nebbie di quelle di adesso, ma comunque, quello che volevo dire è che il dottor Bonino son due giorni che questa storia della nebbia l'ha sconvolto e ne ha scritto ieri e anche oggi. E oggi, tra l'altro, dice:
C’è un libro che si chiama Understanding Comics, Capire il fumetto, di un fumettista americano che si chiama Scott McCloud, dove si spiega che ciò che è disegnato in una vignetta rappresenta sempre solo una parte del mondo, se ricordo bene, e che noi, vedendo una vignetta, ci immaginiamo che ci sia, in qualche modo, il resto del mondo oltre i bordi della vignetta. Ma i disegnatori, il resto del mondo che sta oltre i bordi della vignetta, non lo disegnano mica. Ecco, stare nella nebbia è un po’ come stare in una vignetta. Ci son dei bordi che limitano il visibile e noi ci immaginiamo che ci sia qualcosa anche al di là, ma il disegnatore, in realtà, non l’ha mica disegnato. Ecco, nella nebbia è così.
Allora mi vien da pensare che forse non è mica un caso che qui, la nebbia, da noi, la chiamino fumàna.

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Trote dell'arroganza con crostini

Prendete dei filetti di trota iridea. Ieri sera costavano meno del persico, in pescheria. Sono buoni, cacchio. Ma son buoni se li fate come dico io, naturalmente. Da qui il nome della ricetta.

Prendete dei crostini. Da qui il nome della ricetta. Vale a dire prendete del pane raffermo e tagliatelo a cubetti, poi in forno fino a quando non abbrustoliscono a sufficienza. Con il pane ci risentiamo alla fine.

Quindi prendete del burro e scioglietelo in un tegame, fate cuocere i filetti di trota, partendo dal lato dove la pelle poggia sul tegame. Dopo l'iniziale sfrigolio abbassate il fuoco e state attenti che non attacchi, quindi di tanto in tanto muovete la padella come veri esperti chef, anche se non lo siete. Datevi un tono mentre lo fate. Da qui il nome della ricetta.

Quando è ben cotto da una parte, girate e fatelo dorare dall'altra. Sempre agitando, di tanto in tanto, la padella, come esperti chef, anche se non lo siete. Datevi un tono mentre lo fate, di nuovo. Da qui il nome della ricetta.

Se fate un paio di trotine non troppo grandi andrà bene un mezzo bicchiere di vino, riportando il fuoco alto. Fate sfumare. Salate e pepate da entrambi i lati. Tenete in caldo. Ora mettete dentro alla padella ancora sfrigolante i crostini. Se non c'è abbastanza sugo di cottura aggiungete burro. Mettete anche dello zafferano. Fate saltare i crostini qualche minuto.

Servite il pesce e accanto i crostini, come fossero patatine. Poi mi dite.

domenica 20 novembre 2011

Poi si scordino pure di me

No, io voglio un funerale all'antica, e l'ho scritto nel testamento, un funerale laico, ma d'una certa solennità. Laico, ma tradizionale. Non ci voglio i preti, ma gli ex preti ce li voglio, ci voglio quelli che hanno buttato la tonaca alle ortiche e si sono fatti comunisti, pur restando preti nell'animo. Ne voglio quattro, di questi preti spretati e togliattizzati, e poi voglio due cavalli neri col pennacchio in capo, due critici letterari a cassetta, ai quattro cordoni del carro ci voglio nell'ordine uno storico, un critico d'arte, un funzionario di casa editrice e un redattore di terza pagina.
Deve essere un bel funerale. Dietro venga chi voglia, tranne le segretariette secche. Loro no. Poi si scordino pure di me, ma il funerale lo esigo bello, solenne e, come ho detto sopra, laico. Perché troppi amici ho visto morire malamente, e peggio ancora essere accompagnati al camposanto.
(Luciano Bianciardi, La vita agra, 1962; Bompiani 2005, pagg. 151-152)
E invece.
Quell'attimo arriva il 14 novembre [del 1971], mattina senza pioggia, molto fredda, dopo diciannove giorni di agonia, dopo quarantanove anni di vita agra.
Due giorni dopo, da Grosseto, arriva il furgone funebre mandato dal Comune. [...] Alla partenza del furgone c'è Maria in un angolo che piange.
La bara scivola dentro, l'autista e il becchino chiudono il portellone. Ci sono quattro persone con i cappotti chiusi, venuti per salutarlo. Uno è Vacchelli. Il secondo è Sergio Pautasso: "Finché campo non dimenticherò lo squallore di quel funerale". Gli altri due non se li ricorda più nessuno.
(Pino Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Baldini&Castoldi 1993, pag. 190)
Luciano Bianciardi – ci ho fatto la tesi di laurea, su Luciano Bianciardi – è morto quarant'anni fa. E sei giorni. Ma era il mio compleanno, sei giorni fa, portate pazienza. Quarant'anni dopo la vita non è certo meno agra. Ciao Luciano.

venerdì 18 novembre 2011

Trucchi della borghesia (44)

Gli amici d'infanzia, rockettari, mangiapreti, radicali, che poi si sposano in chiesa.

giovedì 17 novembre 2011

Nel nome del padre (5)

Quando avevo vent'anni mai avrei pensato che un pomeriggio sarei stato sdraiato per terra, con qualcuno che strappava a morsi pezzi di un sacchetto di plastica trasparente (quelli da verdura del supermercato, tipo) e me li sputava addosso.
E che mi sarei divertito tantissimo.
Durata del gioco: 27 minuti.
Stato del sacchetto alla fine del gioco: qui.