Oh, il 2012 ha avuto solo un giorno in più degli altri, ma ci è sembrato un anno quasi infinito, ché siamo cresciuti e invecchiati molto più in fretta del normale. L'abbiamo iniziato sul Treno della Memoria, da Fossòli a Birkenau, con qualche centinaio di studenti e un paio di gruppi musicali; poi abbiamo concluso la storia delle Schegge di Liberazione, e le abbiamo lette e suonate gajardamente a Civitavecchia, a Busto Arsizio e a Modena con le Mondine, a Correggio in diretta e ancora a Civitavecchia in differita, fino al gran finale del 25 aprile, a Rimini, sempre con le Mondine. Dopo ci han chiamati all'Università di Tor Vergata a parlare di editoria elettrica, e noi invece abbiam parlato della Storia Infinita. L'abbiamo rifatto anche al Salone del Libro di Torino, in una piazzetta di Fiorano Modenese e perfino in una scuola superiore di Mirandola. Ecco, quella scuola superiore lì, qualche giorno dopo, è venuta giù, perché, non so se ve lo ricordate, c'è stato il terremoto. E allora, dopo un periodo di assestamento della terra e delle nostre teste, via, siamo ripartiti insieme alle Mondine per raccogliere qualche spicciolo per la ricostruzione delle scuole di Novi di Modena, e siamo stati a Novi, nell'epicentro, in una serata davvero speciale, poi a Novellara e in una piazza di Modena. Alle Mondine abbiamo anche dato tutto il ricavato delle Schegge di Liberazione, ché ci sembrava la cosa migliore da fare. Nel frattempo, abbiamo anche pubblicato dei libri elettrici (una raccolta di bonus tracks delle Schegge di Liberazione, il bellissimissimo Febbraio 29 della nostra Marinelli, una cosa particolare dal nome E far l'amore anche se il mondo muore, e un libro collettivo di fantascienza dedicato a Carlo Fruttero e intitolato L'ennesimo libro della fantascienza). Abbiamo poi fatto e pubblicato della altre cose, ma ci sono già troppi link, e se siete arrivati fin qui vi meritate una gran pacca sulla spalla o un bacino sulla punta del naso.
E adesso? Eh, adesso siamo un po' stanchini. È qualche mese che scriviamo poco, mettiamo a un po' a posto le idee, ci riposiamo. Il 2013, mah, vedremo. Intanto, voi cercate di stare bene, e magari stanotte, se potete, fate all'amore, qualunque siano i vostri gusti sessuali.
E Buon Anno. Davvero. Speriamo.
lunedì 31 dicembre 2012
venerdì 28 dicembre 2012
Accademia della Semola: francesismi
Ospedale di Carpi, Pronto Soccorso, interno giorno.
VECCHINA: Mi scusi, lei, infermiere, dov'è che devo consegnare questo foglio?
INFERMIERE: Nel triage.
VECCHINA: Dove?
INFERMIERE: Nel triage, lì.
VECCHINA: Ma cos'è? Una macchina?
INFERMIERE: No, lì, al triage.
VECCHINA: 'scolti, infermiere, tenga, ce lo porti lei.
***
Ospedale di Carpi, Pronto Soccorso, interno giorno.
VECCHINA: Mi scusi, lei, infermiere, c'è un po' caldo, posso aprire la finestra?
INFERMIERE: Si apre a vasistas.
VECCHINA: ...
INFERMIERE: ...
VECCHINA: Ci pensi mo lei, infermiere. (Si rivolge a noi) Non si capisce mica niente, questi stranieri qui, quando parlano.
VECCHINA: Mi scusi, lei, infermiere, dov'è che devo consegnare questo foglio?
INFERMIERE: Nel triage.
VECCHINA: Dove?
INFERMIERE: Nel triage, lì.
VECCHINA: Ma cos'è? Una macchina?
INFERMIERE: No, lì, al triage.
VECCHINA: 'scolti, infermiere, tenga, ce lo porti lei.
***
Ospedale di Carpi, Pronto Soccorso, interno giorno.
VECCHINA: Mi scusi, lei, infermiere, c'è un po' caldo, posso aprire la finestra?
INFERMIERE: Si apre a vasistas.
VECCHINA: ...
INFERMIERE: ...
VECCHINA: Ci pensi mo lei, infermiere. (Si rivolge a noi) Non si capisce mica niente, questi stranieri qui, quando parlano.
martedì 25 dicembre 2012
Come augurio è anche bello da dire
Noi, per ovvie ragioni, siamo più affezionati alla Pasqua. Tuttavia, come augurio, è anche bello da dire: Buon Natale da Barabba.
domenica 23 dicembre 2012
Trucchi della borghesia (78)
Le piste in «ghiaccio sintetico» (che poi è plastica) su cui pattinare con degli speciali «roller-ice» (che poi son dei normalissimi pattini in linea).
venerdì 21 dicembre 2012
giovedì 20 dicembre 2012
È l'inizio della fine (speciale)
Tipo, oggi, venti dicembre duemiladodici, è il giorno del completamento del trentatreesimo (33esimo!) giro intorno al Sole del vostro socio barabbista tecnovillano preferito, il dottor Carlo Dulinizo, del quale agevoliamo un pregevole contributo fotografico. Auguràtelo.
martedì 18 dicembre 2012
T.U.I.T. (3)
Una stanza bianca.
Odore di chiuso e sigarette.
Una scrivania.
Una lampada a cono, puntata e accesa.
Due uomini seduti.
Uno di fronte all'altro.
-"Possiamo cominciare?"
-"Sì... sì, cominciamo..."
-"Bene. Prenda questa foto. Vede la tartaruga? vede la fiamma accesa sotto?"
-"Sì."
-"E a cosa le fa pensare?"
-"Uhm... la stanno cucinando...?"
-"Esatto. Ora invece prenda questa foto. E mi dica che cosa vede."
-"È una festa...e sono tutti anziani... giusto?"
-"Sì, ma...?"
-"... Ah, ho capito. Ma uno di loro si è fatto male, si tiene la gamba con le mani e non ha la stessa faccia sorridente degli altri in prima fila."
-"Bene, molto bene. Mi ridia le foto. Grazie."
-"Mi scusi ma... questo è già il test?"
-"Noo, le sto facendo un paio di domande così, giusto per rompere il ghiaccio. Il test è tutta un'altra cosa. Ci arriviamo dopo."
-"Ah, va bene..."
-"Per esempio, adesso, curiosità professionale, mi dica sinceramente: Ha mai utilizzato il modello di risposta sms presente nei telefonini col testo Ti amo anch'io!, almeno una volta?"
-"Uhm...sì, ma solo una volt..."
ZAAAP!
L'uomo con la pistola schiaccia un pulsante in una scatoletta nera.
-"Ehi, ne ho beccato un altro. Venite a cavare 'sti rottami."
si parla di:
T.U.I.T
mercoledì 12 dicembre 2012
Biografie essenziali (149)
Ravi Shankar, quand'era a Monterey, nel '67, o forse era a Woodstock, nel '69, è salito sul palco, ha preso il suo sitar e senza dir niente ha cominciato:
pliuiuauauuuuaaauuuuaaaiiiii, sdreeeeeeeiiiiaaiiiiiiuuuuuuuuuuuiaiuuu, gnioiooooiiiiiiiiiiiooooogniii,
e così via per dieci minuti buoni, un quarto d'ora, ché la folla è andata nei matti e tutti applaudivano e gli gridavano bravo. Lui ha alzato gli occhi e ha pensato mah. Stava solo accordando.
pliuiuauauuuuaaauuuuaaaiiiii, sdreeeeeeeiiiiaaiiiiiiuuuuuuuuuuuiaiuuu, gnioiooooiiiiiiiiiiiooooogniii,
e così via per dieci minuti buoni, un quarto d'ora, ché la folla è andata nei matti e tutti applaudivano e gli gridavano bravo. Lui ha alzato gli occhi e ha pensato mah. Stava solo accordando.
lunedì 10 dicembre 2012
Biografie essenziali (148)
Se davvero, un giorno che i nazisti avevano occupato Parigi, Pablo Picasso, vedendo passare un carro armato mimetizzato davanti alla finestra, si era voltato e le aveva detto, alla proprietaria di casa, "Questo è quello che abbiamo fatto per anni tu e io..." intendendo il carro armato mimetizzato come metafora del loro avanzare nel campo di battaglia dell'arte, allora Getrude Stein era i cingoli.
venerdì 7 dicembre 2012
Manifesto del Risarcimento Italiano
di Fabrizio Chinaglia "Bicio" (o il barabbista ombra)
L'entusiasmo ti fa piangere di gioia quando incontri i tuoi simili e ti rendi conto che state cambiando il mondo in meglio, ti fa scendere in piazza, ti fa stare a bocca aperta e occhi spalancati quando dei gesti d'amore inaspettati ti colgono di sorpresa.
Se ti riesce, misuralo in battiti di mani, o in calpestio di piedi, o in silenziosi sbattere di ciglia. Molti che ce l’avevano, l’entusiasmo, l'hanno abbandonato per un posto in ufficio o delegato a stanche schiere partitiche. Misuralo, se ti riesce, e dimmi quant’è.
La gioventù ti fa scorrazzare libero per i campi e le strade, ti fa imparare sempre cose nuove e innamorare cento volte al giorno.
Provati, se puoi, a quantificarla in lettere d'amore, in corse a perdifiato o in sogni per il futuro. I nonni, la gioventù, l'hanno consegnata a un campo di battaglia o di prigionia, e le nonne, l'hanno consumata al telaio o alla stagione. Provati a quantificarla, se puoi, e dimmi quant’è.
L'amicizia è così vasta che comprende sia starsi vicini nei momenti più duri, sia sbellicarsi per il solo fatto di starsi vicini.
Se tu pensi, stimala in felicità, in risate, in consolazioni. Oggi l'amicizia tante volte viene ferita e sminuita per la prepotenza di grattacapi economici o addirittura annullata da un prestito non risarcibile. Stimala, se pensi, e dimmi quant’è.
E l'affetto di un padre e di una madre? Come lo misuri?
L'affetto del tempo passato a giocare, a insegnare e ad accarezzare i propri bambini. Lo misuri in calci a un pallone? In spazzolate ai capelli di una bambola? In lacrime asciugate? L'affetto per i figli trova sempre più difficilmente occasione di manifestarsi per intero per via degli impegni lavorativi che assorbono le coppie. Pensi di riuscirci a dirmi quant’è?
Ti sei preso l'entusiasmo dei nostri parenti e ci hai consegnato la disillusione denigratoria e la pigrizia colpevole. Ti sei preso la gioventù delle nostre generazioni passate e hai lasciato loro visi ricolmi di rughe precoci e mani pesanti. Ti sei preso l'amicizia tra le persone e ci hai rifilato il calcolo opportunistico e la solitudine xenofoba. Ti sei preso la cura delle nostre famiglie e ci hai restituito l'isolamento condominiale e il doppio salario obbligatorio.
La misura che cerchi non è la tecnologia delle comunicazioni, non è una laurea che ti apre la strada a una carriera nel precariato, non è la possibilità di mangiare lo stesso cibo transgenico in tutto il mondo. Il costo di quello che ci hai sottratto è un altro. Prova a misurarlo e fai pure il totale.
Noi rivogliamo tutto. Senza interessi. L'unico interesse è riavere tutto, fino all'ultimo palpito di batticuore. E siamo disposti a garantire amore spietato fino alla fine dei nostri giorni. Saremo determinati e chirurgici con la nostra guerriglia di fratellanza. Mineremo ogni fazzoletto di terra con verdura, fiori e alberi da frutto. Lavoreremo costantemente e al solo scopo di trarre l'utilità necessaria al vivere assieme. Scriveremo tanto, per immaginare il futuro e ricordare il passato. Suoneremo ancora di più, per incontrare nuova gente e ballarci assieme. Faremo tanto l'amore e cresceremo una moltitudine di figli: coi loro giochi vinceremo la Rivoluzione.
L'entusiasmo ti fa piangere di gioia quando incontri i tuoi simili e ti rendi conto che state cambiando il mondo in meglio, ti fa scendere in piazza, ti fa stare a bocca aperta e occhi spalancati quando dei gesti d'amore inaspettati ti colgono di sorpresa.
Se ti riesce, misuralo in battiti di mani, o in calpestio di piedi, o in silenziosi sbattere di ciglia. Molti che ce l’avevano, l’entusiasmo, l'hanno abbandonato per un posto in ufficio o delegato a stanche schiere partitiche. Misuralo, se ti riesce, e dimmi quant’è.
La gioventù ti fa scorrazzare libero per i campi e le strade, ti fa imparare sempre cose nuove e innamorare cento volte al giorno.
Provati, se puoi, a quantificarla in lettere d'amore, in corse a perdifiato o in sogni per il futuro. I nonni, la gioventù, l'hanno consegnata a un campo di battaglia o di prigionia, e le nonne, l'hanno consumata al telaio o alla stagione. Provati a quantificarla, se puoi, e dimmi quant’è.
L'amicizia è così vasta che comprende sia starsi vicini nei momenti più duri, sia sbellicarsi per il solo fatto di starsi vicini.
Se tu pensi, stimala in felicità, in risate, in consolazioni. Oggi l'amicizia tante volte viene ferita e sminuita per la prepotenza di grattacapi economici o addirittura annullata da un prestito non risarcibile. Stimala, se pensi, e dimmi quant’è.
E l'affetto di un padre e di una madre? Come lo misuri?
L'affetto del tempo passato a giocare, a insegnare e ad accarezzare i propri bambini. Lo misuri in calci a un pallone? In spazzolate ai capelli di una bambola? In lacrime asciugate? L'affetto per i figli trova sempre più difficilmente occasione di manifestarsi per intero per via degli impegni lavorativi che assorbono le coppie. Pensi di riuscirci a dirmi quant’è?
Ti sei preso l'entusiasmo dei nostri parenti e ci hai consegnato la disillusione denigratoria e la pigrizia colpevole. Ti sei preso la gioventù delle nostre generazioni passate e hai lasciato loro visi ricolmi di rughe precoci e mani pesanti. Ti sei preso l'amicizia tra le persone e ci hai rifilato il calcolo opportunistico e la solitudine xenofoba. Ti sei preso la cura delle nostre famiglie e ci hai restituito l'isolamento condominiale e il doppio salario obbligatorio.
La misura che cerchi non è la tecnologia delle comunicazioni, non è una laurea che ti apre la strada a una carriera nel precariato, non è la possibilità di mangiare lo stesso cibo transgenico in tutto il mondo. Il costo di quello che ci hai sottratto è un altro. Prova a misurarlo e fai pure il totale.
Noi rivogliamo tutto. Senza interessi. L'unico interesse è riavere tutto, fino all'ultimo palpito di batticuore. E siamo disposti a garantire amore spietato fino alla fine dei nostri giorni. Saremo determinati e chirurgici con la nostra guerriglia di fratellanza. Mineremo ogni fazzoletto di terra con verdura, fiori e alberi da frutto. Lavoreremo costantemente e al solo scopo di trarre l'utilità necessaria al vivere assieme. Scriveremo tanto, per immaginare il futuro e ricordare il passato. Suoneremo ancora di più, per incontrare nuova gente e ballarci assieme. Faremo tanto l'amore e cresceremo una moltitudine di figli: coi loro giochi vinceremo la Rivoluzione.
mercoledì 5 dicembre 2012
Vediamo come va a finire
Il 5 dicembre del 2011 avevo scritto un post che si chiamava "Andare avanti" dove si diceva che il 5 dicembre 2010 avevo scritto un post che si chiamava "Cammina cammina" dove si diceva che il 5 dicembre del 2009 avevo scritto un post che si chiamava "Alzati e cammina" dove si diceva che dovevo riaprire il blog per farci delle cose.
Ecco, poi di cose ne abbiam fatte davvero tante: dei libri elettrici, dei reading, dei discorsi, delle bevute. E oggi è una specie di terzo compleanno della resurrezione di Barabba.
Alzare, ci siamo alzàti; camminare, abbiamo camminato; andare avanti, siamo andati avanti; e adesso, mah, vediamo come va a finire.
Intanto, grazie a voi.
E tanti auguri a noi.
Ecco, poi di cose ne abbiam fatte davvero tante: dei libri elettrici, dei reading, dei discorsi, delle bevute. E oggi è una specie di terzo compleanno della resurrezione di Barabba.
Alzare, ci siamo alzàti; camminare, abbiamo camminato; andare avanti, siamo andati avanti; e adesso, mah, vediamo come va a finire.
Intanto, grazie a voi.
E tanti auguri a noi.
venerdì 30 novembre 2012
Barabba Elettrolibri: Improbabile dizionario degli insulti cuneesi e del micromondo a sud di Cuneo | Dialettica (13)
Questo libro è dedicato a tutti coloro che credono nella bellezza del dialetto e hanno ancora il coraggio di insegnarlo ai propri figli.È successo così: è successo che il buon Sba, del quale pubblicammo tanto tempo fa un elettrolibro di viaggio dal titolo Dubai, ha messo sul suo blog, gratis e in pdf, un piccolo saggio sul dialetto cuneese (o giù di lì) chiamato Improbabile dizionario degli insulti cuneesi e del micromondo a sud di Cuneo.
È successo, poi, che quel puntiglioso cuneese - o meglio: margaritano - che è Alessandro Bonino lamentasse pubblicamente il fatto che il libro fosse solo in pdf.
È successo, infine, che, leggendo la lamentela, io mi sia ricordato d'aver fondato non solo una casa editrice inesistente che ogni tanto pubblica degli ebook gratuiti (pensa te che matti), ma anche una collana editoriale inesistente che non pubblica niente, e che si limita a trasformare in epub e mobi dei libri che, come quello di Sba, vengon buttati fuori gratis e solo in pdf.
E allora, niente, adesso succede che nella nostra collana inesistente che non pubblica niente chiamata Barabba Elettrolibri c'è anche l'Improbabile dizionario degli insulti cuneesi e del micromondo a sud di Cuneo. Che se lo volete in pdf è sempre nello stesso posto, ma se lo volete in epub o in mobi lo trovate qui.
Buone lettura.
mercoledì 28 novembre 2012
Biografie essenziali (147)
Jonathan Swift era uno che si lavava moltissimo e quando c'era brutto tempo fuori e non poteva cavalcare, andava su e giù per le scale di casa sua, che era a tre piani, un tot di volte, poi si fermava.
martedì 27 novembre 2012
lunedì 19 novembre 2012
Son fatto così (19)
Son fatto che son nato e cresciuto, per due terzi buoni della mia vita, in una casa dove non c'era neanche un libro, neanche un disco, e non m'han mai portato al cinema, e allora dev'esser per quello che ho riempito la mia vita, e la mia casa, quella dove vivo adesso, di libri e di dischi, e ho scaricato i film, e sono andato al cinema anche da solo, delle volte, ma però, a pensarci, a guardare indietro, mi accorgo che senza neanche un libro, senza neanche un disco, senza neanche mai andare al cinema, a parte forse quand'erano morosi, credo, i miei son poi diventati delle brave persone, e belle, e intelligenti, e con del senno, come si dice, e io invece... io, mi vien da dire, se mi guardo bene, son sempre lì a cercare di far capire agli altri che so le cose, che le ho lette, che le ho ascoltate, che le ho viste al cinema, e a cercare di avere delle idee originali su quello che ho letto, che ho ascoltato, che ho visto al cinema; e mi salta in mente una scena di quel film molto bello che si chiama Il Divo, dove c'è Francesco Cossiga che dice a Giulio Andreotti che non si deve mica scoraggiare per l'avviso di garanzia per l'omicidio di Pecorelli, ma lui, Andreotti, gli risponde che lui, Andreotti, è scoraggiato dai segni minimi, dal fatto che l'abbian rimosso dalla presidenza dei circoli musicali, e che poi gli toglieranno l'incarico all'istituto di studi ciceroniani e magari anche le lauree honoris causa, e Cossiga sorride e gli dice che pensava d'esser lui, Cossiga, un vanitoso, e invece è lui, Andreotti, che pecca di vanità, ma Andreotti risponde che la vanità non c'entra, e dice precisamente: «io vengo dalla provincia, dalla povertà, la legittimazione culturale, nella mia vita, è sempre stata più importante di quella politica: ho sempre preferito che si dicesse di me "è un uomo colto" piuttosto che si dicesse "è un grande statista".» O un bravo ingegnere, nel mio caso. Son fatto così.
venerdì 16 novembre 2012
giovedì 15 novembre 2012
È l'inizio della fine (7)
si parla di:
Avvisaglie di Apocalisse,
è l'inizio della fine
martedì 13 novembre 2012
T.U.I.T. (2)
Non sopporto il T9 del cellulare.
C'è poco da fare.
Così come non sopporto quelli che usano le Kappa in ogni dove, che mi fan sentire come se ci fossero ancora gli ostrogoti qui in giro, coi loro spadoni a due mani, i boccali di ferro e i tetti in pietra monoblocco da trecento tonnellate.
Ma torniamo al T9.
Ci sarà sicuro qualche genio che lo ritiene utilissimo ma io anche solo all'idea, certamente del tutto infondata e inconscia, che il programmino del T9 possa prevedere e influire le mie scelte lessicali e linguistiche, proibendomi in automatico tutte le parole straniere, le costruzioni insolite, i nomignoli affettuosi o amicali, lo elimino da ogni situazione.
Una volta però mi sono chiesto se questo fastidio, questo impiccio digitale, non potrebbe essere utile al rinnovo dello stantio scaffale ove riponiamo i classici e sull'onda di un possibile rinnovamento avevo già in mente una nuova collana dedicata a questo grande processo di riscrittura (a costo zero e senza diritto d'autore) della nostra tradizione: La Letteratura Italiana secondo il T9.
Ho iniziato dal più classico dei classici: D(ur)ante Alighieri al principio dell'Inferno
Mi son rivolto al secondo in ordine di arrivo, al nostro poeta capostipite del lirismo e un po' piagnone, Petrarca:
Anche se, più che a un sostegno nella composizione dei testi, forse i creatori del T9 erano interessati a qualcos'altro, magari alla creazione di una nuova stirpe di scriventi, totalmente dipendente dal loro meraviglioso T9... andate a prendere il nostro baldo Ariosto e provate a digitare l'incipit del suo Orlando Furioso:
L'acronimo di questa nuova rubrica, come vi è stato detto la volta scorsa, è Tecnovillano Utilizzo Improprio della Tecnologia.
C'è poco da fare.
Così come non sopporto quelli che usano le Kappa in ogni dove, che mi fan sentire come se ci fossero ancora gli ostrogoti qui in giro, coi loro spadoni a due mani, i boccali di ferro e i tetti in pietra monoblocco da trecento tonnellate.
Ma torniamo al T9.
Ci sarà sicuro qualche genio che lo ritiene utilissimo ma io anche solo all'idea, certamente del tutto infondata e inconscia, che il programmino del T9 possa prevedere e influire le mie scelte lessicali e linguistiche, proibendomi in automatico tutte le parole straniere, le costruzioni insolite, i nomignoli affettuosi o amicali, lo elimino da ogni situazione.
Una volta però mi sono chiesto se questo fastidio, questo impiccio digitale, non potrebbe essere utile al rinnovo dello stantio scaffale ove riponiamo i classici e sull'onda di un possibile rinnovamento avevo già in mente una nuova collana dedicata a questo grande processo di riscrittura (a costo zero e senza diritto d'autore) della nostra tradizione: La Letteratura Italiana secondo il T9.
Ho iniziato dal più classico dei classici: D(ur)ante Alighieri al principio dell'Inferno
Nel mezzo del cammin di nostra vitaUguale, provateci anche voi, uguale!
Mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita
Mi son rivolto al secondo in ordine di arrivo, al nostro poeta capostipite del lirismo e un po' piagnone, Petrarca:
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suonoOk, cominciano ad apparire segni di rivisitazione ma sono insensati, inapplicabili a qualsiasi linguaggio da me conosciuto. Proviamo col Leopardi del Sabato del villaggio:
di quei sorrisi (invece di sospiri) ond'io overgua (nudriva) 'l core
in sul mio primo gioveògle(giovenile) errore
quand'era in parte altr'uno da quel ch'i' sono
La donzelletta vien dalla campagna,Niente da fare, praticamente tutto regolare e se si modifica la parola si crea un termine non italiano. Proviamo col grande lombardo, Il Manzoni dei Promessi Sposi:
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba e reca in mano
un mazzolio di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta,
dinami, al dì di festa, il petto e il brind (crine)
Quel ramo del lago di Anno, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a semi e a holdi (che sarebbe a seni e a golfi), a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a restringersi, e a prender corso e figura, tra un promontorio a destra, e un'copia (ampia) costiera dall'altra parte.Niente di rilevante, Como che diventa Anno, le holdi che valgono più dei golfi, un'copia che unisce articoli apostrofati a consonanti, il T9 non è in grado di sovvertire o modificare le basi dell'italiano e l'italiano è ancora uguale a quello del 1300. Questa ne è la dimostrazione scientifica e immutabile.
Anche se, più che a un sostegno nella composizione dei testi, forse i creatori del T9 erano interessati a qualcos'altro, magari alla creazione di una nuova stirpe di scriventi, totalmente dipendente dal loro meraviglioso T9... andate a prendere il nostro baldo Ariosto e provate a digitare l'incipit del suo Orlando Furioso:
Ke donne, i cavalier, l'arme, gli amori,L'invasione dei bimbiminkia...
ke cortesie, l'audaci imprese io canto,
L'acronimo di questa nuova rubrica, come vi è stato detto la volta scorsa, è Tecnovillano Utilizzo Improprio della Tecnologia.
si parla di:
T.U.I.T
giovedì 8 novembre 2012
Trucchi della borghesia (75)
Volevo dire che secondo me un trucco della borghesia sono le feste dei quotidiani (la festa del Fatto Quotidiano, la festa di Repubblica, la festa di Pubblico, per dire). E infatti la Festa de l'Unità non esiste più.
(di Cristiano Micucci "Mix")
(di Cristiano Micucci "Mix")
mercoledì 7 novembre 2012
Pensieri in Apnea: File, attraversamenti e addio (speciale election night&dawn)
Orbene, in queste ore di trepidazione e di inquietudine (sì, non sto dormendo, guardo la mappa degli USA e vedo troppo rosso per i miei gusti, anche se poi razionalizzo "Son tutti piccoli pesci, Utah, Montana, poca roba") son qui a slambiccarmi il cervello su alcune cosette che sono accadute in queste settimane e che mi hanno quantomeno lasciato perplesso, interdetto.
Ma prima di tutto, patti chiari e amicizia lunga: da quel che ho capito, se ho capito bene, se Bara(BB) obAma (si vede che ho letto Cummings? voce off: "Sborone!" Ok, la smetto) vince in Ohio, che letto all'italiana con l'accento sulla prima o (òhio), suona come un piemontese reagirebbe colpendo il comodino col mignolino del piede, e in Florida, che a Modena è un locale di musica latino americana dove Capossela ha passato molte serate strascicate sul piano, mollo tutto, vado a letto sorridente, tranquillizzato, e domani scrivo tutto meglio, bello rilassato.
La prima cosa, che c'entra con stanotte ma poco con l'altra cosa che mi lascia interdetto, ma la devo dire, è semplice, inflazionata, ma pensandoci, inquietante: le file.
Le file davanti ai seggi per votare in America sono una cosa che non ho ancora capito cosa significhino per loro. Per me è fonte di grossi interrogativi.
Stasera durante un servizio ho visto distintamente un elicottero a mezza altezza virare in diagonale e la telecamera inquadrare un marciapiede colmo di persone in fila, e il marciapiede biforcava, e dopo un poco, di nuovo si biforcava, come un arbusto selvatico, e poi l'elicottero virava e la telecamera finiva fuori campo ma in un guizzo si poteva vedere che la coda del seggio non finiva, aveva girato l'angolo, proseguiva ancora, colonizzava il quartiere, come un ematoma, a raggiera, inchiodava il traffico, conquistava il centro, per poi raggomitolarsi dentro i centri commerciali. (Esagero eh? però sembra proprio una roba inarrestabile...)
Perché io non capisco, la nazione più potente del mondo, e i cinesi non mi rompano le balle, fino ad ora non mi hanno ancora dimostrato niente, sì siete tanti, sì, avete tutto, fabbricate tutto e lavorate 90 ore alla settimana ma per ora non avete ancora atomizzato i vostri cugini nippo (e dire che di motivazioni anche storiche ne avete), mentre gli USA l'hanno fatto, quindi 1 a 0 per loro, per adesso, quindi ripeto, la nazione più potente del mondo, non è in grado di concepire seggi accoglienti? cabine multiple? atrii in cui poter rileggere la lista dei candidati, salutare il milite di turno, che sta sempre sorseggiando un caffè oppure legge annoiato la gazza, e allora cerchi il tuo seggio e ti metti a guardare gli altri in fila e poi cominciare il giochino E questo per chi voterà? E questa? uhm, con quella borsa lì sicuro che vota XZ, guarda come sbuffa, sicuro che cc'avevi d'annà a santropez? Ah, ma vedi adesso bella mia, cosa succede stasera, finito lo spoglio... E non fai nemmeno in tempo a finire il pensiero che già ti chiamano a espletare il tuo dovere di rizoma del corpaccione elettorale italiano. Là, in USA, no. A giudicare dalle file, devi prenderti almeno due ore di permesso, e in mezzo, prima o dopo non puoi nemmeno attaccarci un giro dalla sarta, un salto in negozio, un caffé col collega o un prelievo in banca, no! in fila e aspettare. Uno dietro l'altro, che a me, in quei casi lì, che stiamo votando uno contro l'altro, non coalizioni "variegate", che poi si riaggregheranno e si ridisferanno come pulviscolo subatomico, ma Bianco o Nero! Rosso o Blu! a me verrebbe voglia di fare comizi pure lì, oppure di fare comunicazione guerriglia, guardare il cellulare sconsolato, atteggiare una delusione e dire a quelli dietro Eeeeh ragazzi, c'è mio cognato là dentro, dice che fanno lui e altri sei perché poi han finito la carta, e noi si vota domani, se c'abbiamo ancora voglia, io... e poi andare via oppure organizzare un flash mob a forma di stella di David, così stavolta, quando ripassa l'elicottero, perché sicuro che ripassa l'elicottero, almeno vedono qualcosa d'insolito e si fanno una risata.
(Niente, Obama in vantaggio sia lì che là ma ancora niente di certo)
E comunque tutta 'sta fila, a novembre, al freddo, senza nemmeno un thermos di tè, di caffè (vabbeh, loro lo chiamano caffè, lasciamo stare...), all'aperto. Capisco che la democrazia uno un po' deve pure sudarsela, ma così certo non invogli gli indecisi ad eleggere "The president The / president of The president / of the The)president of / the(united The president of the / united states The president of the united / states of The President Of The)United States"
La seconda, che invece è un poco più vicina alle nostre italiche sponde, è la menata delle attraversate, anche se a dirla tutta, io un po' li invidio, perché poter sfidare il mare aperto, avanzare verso un orizzonte vuoto, dove davvero cielo e mare si confondono, le poche volte che ho accennato l'impresa, anche se sapevo che era un mio bluff e che tempo 5 minuti mi sarei fermato, mi sarei voltato e avrei cambiato rotta, m'ha rilasciato una quantità di brividi e di adrenalina che credo nemmeno qualsiasi droga sperimentale possa darmi in egual misura.
(Obama intanto è a 249 su 270...)
Sì, ho scritto attraversate, plurale, perché oltre a quella dello stretto di Messina ad opera di Beppe Grillo (spero che non sia il modo che consiglia anche a tutti noi di ovviare al problema dei collegamenti tra Sicilia e continente - mia nonna, che è di Messina, ha una certa età e potrebbe pretendere a Grillo il bis saltandoci in groppa), a livello infraregionale, pseudolocale, noi assurdi emiliani, allucinati modenesi, in questo "annus terribilis in decade malefica" la settimana scorsa abbiamo scoperto, da giornalisti implacabili e fotografi impietosi, il vano e vacuo (vacuo proprio etimologicamente: nulla, vuoto) tentativo di attraversata del fiume Secchia (non c'entra molto la Secchia Rapita del Tassoni ma se volete stanotte ci ficchiamo pure quella) da parte del segretario della Lega nord modenese.
(Obama ha vinto, scusate, dal quartier generale a Chicago danno Twist and Shout dei Beatles, vado a indossare la maschera, poi torno a scrivere)
Eccomi qui:
Dicevamo, queste attraversate, che a me più che a sfoggi di potere simbolico e fisico, piace associarle al mito di Ero e Leandro, (se mi scappano dei tasti è che non ci vedo poi benissimo così mascherato, ringrazio ancora F.B. per avermela portata da N.Y. due anni fa), a un motivo e a un movimento vero, esaltante e aperto verso l'altro, non un gesto di conquista, ma un gesto d'incontro verso l'altro.
Che dev'essere un po' il sentimento che doveva muovere un tale, di cui non ricordo il nome e di cui non ho trovato traccia in due anni di navigazione in rete, che nel 1800 o nel 1700, l'informazione deriva dalla Settimana Enigmistica (per la serie le Mie Autorevoli Fonti), su una tinozza armata di remi e vela, è stato il primo attraversatore dell'Atlantico in solitaria.
(Ora mi tolgo 'sta maschera perché sennò soffoco)
L'addio appunto è anche questo, si parte da una sponda e si cerca di arrivare dove non si è ma dove si sarà, e così finisce (stavolta davvero) Pensieri in Apnea, ringraziando tutti voi che mi avete letto, i barabbas per il sostegno con in primis Many che non ringrazierò mai abbastanza, e questo nume tutelare ignoto, attraversatore solitario, che per tanti anni e mesi m'ha guidato dalla sua barca sull'abisso dell'oceano, con un esempio sfolgorante e invincibile, proprio perché, per uno strano scherzo del destino, non sapeva minimamente nuotare.
Ma prima di tutto, patti chiari e amicizia lunga: da quel che ho capito, se ho capito bene, se Bara(BB) obAma (si vede che ho letto Cummings? voce off: "Sborone!" Ok, la smetto) vince in Ohio, che letto all'italiana con l'accento sulla prima o (òhio), suona come un piemontese reagirebbe colpendo il comodino col mignolino del piede, e in Florida, che a Modena è un locale di musica latino americana dove Capossela ha passato molte serate strascicate sul piano, mollo tutto, vado a letto sorridente, tranquillizzato, e domani scrivo tutto meglio, bello rilassato.
La prima cosa, che c'entra con stanotte ma poco con l'altra cosa che mi lascia interdetto, ma la devo dire, è semplice, inflazionata, ma pensandoci, inquietante: le file.
Le file davanti ai seggi per votare in America sono una cosa che non ho ancora capito cosa significhino per loro. Per me è fonte di grossi interrogativi.
Stasera durante un servizio ho visto distintamente un elicottero a mezza altezza virare in diagonale e la telecamera inquadrare un marciapiede colmo di persone in fila, e il marciapiede biforcava, e dopo un poco, di nuovo si biforcava, come un arbusto selvatico, e poi l'elicottero virava e la telecamera finiva fuori campo ma in un guizzo si poteva vedere che la coda del seggio non finiva, aveva girato l'angolo, proseguiva ancora, colonizzava il quartiere, come un ematoma, a raggiera, inchiodava il traffico, conquistava il centro, per poi raggomitolarsi dentro i centri commerciali. (Esagero eh? però sembra proprio una roba inarrestabile...)
Perché io non capisco, la nazione più potente del mondo, e i cinesi non mi rompano le balle, fino ad ora non mi hanno ancora dimostrato niente, sì siete tanti, sì, avete tutto, fabbricate tutto e lavorate 90 ore alla settimana ma per ora non avete ancora atomizzato i vostri cugini nippo (e dire che di motivazioni anche storiche ne avete), mentre gli USA l'hanno fatto, quindi 1 a 0 per loro, per adesso, quindi ripeto, la nazione più potente del mondo, non è in grado di concepire seggi accoglienti? cabine multiple? atrii in cui poter rileggere la lista dei candidati, salutare il milite di turno, che sta sempre sorseggiando un caffè oppure legge annoiato la gazza, e allora cerchi il tuo seggio e ti metti a guardare gli altri in fila e poi cominciare il giochino E questo per chi voterà? E questa? uhm, con quella borsa lì sicuro che vota XZ, guarda come sbuffa, sicuro che cc'avevi d'annà a santropez? Ah, ma vedi adesso bella mia, cosa succede stasera, finito lo spoglio... E non fai nemmeno in tempo a finire il pensiero che già ti chiamano a espletare il tuo dovere di rizoma del corpaccione elettorale italiano. Là, in USA, no. A giudicare dalle file, devi prenderti almeno due ore di permesso, e in mezzo, prima o dopo non puoi nemmeno attaccarci un giro dalla sarta, un salto in negozio, un caffé col collega o un prelievo in banca, no! in fila e aspettare. Uno dietro l'altro, che a me, in quei casi lì, che stiamo votando uno contro l'altro, non coalizioni "variegate", che poi si riaggregheranno e si ridisferanno come pulviscolo subatomico, ma Bianco o Nero! Rosso o Blu! a me verrebbe voglia di fare comizi pure lì, oppure di fare comunicazione guerriglia, guardare il cellulare sconsolato, atteggiare una delusione e dire a quelli dietro Eeeeh ragazzi, c'è mio cognato là dentro, dice che fanno lui e altri sei perché poi han finito la carta, e noi si vota domani, se c'abbiamo ancora voglia, io... e poi andare via oppure organizzare un flash mob a forma di stella di David, così stavolta, quando ripassa l'elicottero, perché sicuro che ripassa l'elicottero, almeno vedono qualcosa d'insolito e si fanno una risata.
(Niente, Obama in vantaggio sia lì che là ma ancora niente di certo)
E comunque tutta 'sta fila, a novembre, al freddo, senza nemmeno un thermos di tè, di caffè (vabbeh, loro lo chiamano caffè, lasciamo stare...), all'aperto. Capisco che la democrazia uno un po' deve pure sudarsela, ma così certo non invogli gli indecisi ad eleggere "The president The / president of The president / of the The)president of / the(united The president of the / united states The president of the united / states of The President Of The)United States"
La seconda, che invece è un poco più vicina alle nostre italiche sponde, è la menata delle attraversate, anche se a dirla tutta, io un po' li invidio, perché poter sfidare il mare aperto, avanzare verso un orizzonte vuoto, dove davvero cielo e mare si confondono, le poche volte che ho accennato l'impresa, anche se sapevo che era un mio bluff e che tempo 5 minuti mi sarei fermato, mi sarei voltato e avrei cambiato rotta, m'ha rilasciato una quantità di brividi e di adrenalina che credo nemmeno qualsiasi droga sperimentale possa darmi in egual misura.
(Obama intanto è a 249 su 270...)
Sì, ho scritto attraversate, plurale, perché oltre a quella dello stretto di Messina ad opera di Beppe Grillo (spero che non sia il modo che consiglia anche a tutti noi di ovviare al problema dei collegamenti tra Sicilia e continente - mia nonna, che è di Messina, ha una certa età e potrebbe pretendere a Grillo il bis saltandoci in groppa), a livello infraregionale, pseudolocale, noi assurdi emiliani, allucinati modenesi, in questo "annus terribilis in decade malefica" la settimana scorsa abbiamo scoperto, da giornalisti implacabili e fotografi impietosi, il vano e vacuo (vacuo proprio etimologicamente: nulla, vuoto) tentativo di attraversata del fiume Secchia (non c'entra molto la Secchia Rapita del Tassoni ma se volete stanotte ci ficchiamo pure quella) da parte del segretario della Lega nord modenese.
(Obama ha vinto, scusate, dal quartier generale a Chicago danno Twist and Shout dei Beatles, vado a indossare la maschera, poi torno a scrivere)
Eccomi qui:
Dicevamo, queste attraversate, che a me più che a sfoggi di potere simbolico e fisico, piace associarle al mito di Ero e Leandro, (se mi scappano dei tasti è che non ci vedo poi benissimo così mascherato, ringrazio ancora F.B. per avermela portata da N.Y. due anni fa), a un motivo e a un movimento vero, esaltante e aperto verso l'altro, non un gesto di conquista, ma un gesto d'incontro verso l'altro.
Che dev'essere un po' il sentimento che doveva muovere un tale, di cui non ricordo il nome e di cui non ho trovato traccia in due anni di navigazione in rete, che nel 1800 o nel 1700, l'informazione deriva dalla Settimana Enigmistica (per la serie le Mie Autorevoli Fonti), su una tinozza armata di remi e vela, è stato il primo attraversatore dell'Atlantico in solitaria.
(Ora mi tolgo 'sta maschera perché sennò soffoco)
L'addio appunto è anche questo, si parte da una sponda e si cerca di arrivare dove non si è ma dove si sarà, e così finisce (stavolta davvero) Pensieri in Apnea, ringraziando tutti voi che mi avete letto, i barabbas per il sostegno con in primis Many che non ringrazierò mai abbastanza, e questo nume tutelare ignoto, attraversatore solitario, che per tanti anni e mesi m'ha guidato dalla sua barca sull'abisso dell'oceano, con un esempio sfolgorante e invincibile, proprio perché, per uno strano scherzo del destino, non sapeva minimamente nuotare.
si parla di:
pensieri in apnea,
U.S.A e getta
lunedì 5 novembre 2012
Zecche - Meraviglie dalla campagna (7)
Mi piacciono sia i gatti che i cani (che tenero).
Però, chiedetelo a chiunque mi conosca un po’, non appena mi arriva un gatto o un cane sotto tiro, la prima cosa che mi viene spontaneo fare è controllare lo stato delle zecche sul suo corpo.
Se i proprietari degli animali mi conoscono paleso senza paura le mie intenzioni, - Bruno! Vieni qua: controllo zecche -
Se invece sono animali di gente che non conosco abbastanza simulo il mio interesse verso i parassiti fingendo di accarezzare con uno zelo chiaramente eccessivo i loro felini et similia.
Il difficile arriva quando ne trovo una.
Prima di trasferirmi in montagna avevo una paura fortissima delle zecche.
Le storie che si raccontavano erano pazzesche: che le zecche penetravano sotto la carne, facevano una covata e depositavano le uova, poi queste si schiudevano e avevi un’intera famiglia di zecche che ti camminava sotto la pelle fino al cervello e ti uscivano dal naso e dalle unghie e impazzivi e ti facevano rinchiudere al manicomio di Reggio come Antonio Ligabue, che in tanti conoscevano come Laccabue.
La mia prima zecca mi ha tolto il respiro. Non la trovai su di me, ma su uno dei miei gatti, quando ne avevamo solo due e abitavamo a Monterenzio sulle colline di Bologna vicino a un forno che di notte sventagliava un irresistibile odore di bomboloni.
Quindi posso capire il disagio e il terrore che prende certuni dinanzi alla scoperta di avere una zecca addosso, o di trovarne una sul proprio animale domestico.
Tranquilli. Son qua.
Quando trovo una zecca su un animale che non mi è familiare, magari in salotto a casa di amici di amici, e io ho – per dire – questo gatto che si trastulla sulle mie ginocchia, mentre con una mano flirto con lui nei sui punti G, e con l’altra sondo il terreno in cui le zecche sogliono installarsi (solitamente sulle tempie, le orecchie, dietro le orecchie, lungo il collo fino al mento e per lo più nella zone della nuca), ecco, quando ne trovo una faccio così: apro lo spazio attorno alla zecca scostando i peli e lasciando il suo culo rosso all’aria, avvicino pollice e indice alla zona in cui la zecca e il suo diabolico rostro sono conficcati nella carne, premo verso il basso, saldo la presa, colpo di tosse, stacco.
Ho una dote naturale, me lo dice anche Agnese.
Solitamente il gatto di amici di amici che ho sulle ginocchia, felino domestico disabituato ad essere preda di emotofagi, un attimo dopo che è stato epurato dal parassita emette un miagolio forte, un po’ per la paura e un po’ per il dolore, e gli occhi di tutti si voltano. Il gatto mi ficca gli artigli nelle cosce e spicca un balzo. Io sorrido alla platea, alzo un po’ le spalle e fingo di togliermi infastidito i peli dai pantaloni, e nel mentre nascondo la zecca appena estirpata - bloccata tra indice e pollice - verso il palmo della mano, tecnica che mi aveva insegnato il mio compaesano Marco B. quando alle medie fumavamo di nascosto.
Se la zecca appena tolta sbatacchia le sue otto zampette in cerca di libertà, allora hai vinto.
Cioè: se l’hai tolta viva, hai vinto di sicuro.
Anche se l’hai tolta ed è morta puoi aver vinto, ma devi controllare.
In media ho la meglio sulle zecche il 90% delle volte.
Se hai avuto la peggio significa che un pezzo di zecca è rimasto nella pelle dell’animale.
Questo sì che, oltre al fatto che una zecca si nutra di sangue fino a crescere a dismisura e procreare, può diventare un problema. Nel senso che potrebbe fare infezione. Un po’ di tintura madre di calendula nella zona infetta ha fatto sì che i miei animali non abbiano mai subito conseguenze da un mio intervento malriuscito. Tante altre volte non è servita neppure la disinfezione: dopo un paio di giorni non c’era più nulla.
Se il tuo gatto è morto perché gli hai tolto male una zecca non so che dire.
Mi spiace molto. La prossima volta portalo da me.
Attorno a casa nostra è tipo il paradiso delle zecche.
Erba a non finire tagliata tre volte l’anno + bosco.
Inizio pippone. Solitamente sugli animali domestici, onde evitare il proliferare di parassiti, si innaffiano veleni. Quando qualcosa uccide degli animali, è mia convinzione che troppo bene non faccia neppure agli esseri umani che ne vengono a contatto. Il veleno anti parassiti più comune prende il nome di Front Line. Lo metti sul coppino, e spariscono pulci e zecche. Se però tieni gli animali in casa, e magari ti piace trastullarti, e ti piace che si trastulli la prole con loro, allora il trastullo potrebbe diventare venefico. Che poi, in un paio di casi estremi, l’abbiamo adottata anche noi la tecnica allopatica. Sempre per non essere estremisti, ecco.
La verità in verità è che il piacere di fare a mano è incommensurabilmente più gratificante che dare via libera a Front Line. Fine pippone.
Quando sono fuori a guardare il cielo stellato, o le lucciole che lucciolano sul frinire dei grilli, o la nuvole svelte che attraversano la vallata e medito sul senso della vita, arriva un gatto a strusciarsi contro le mie gambe (e avendone sei, un gatto arriva SEMPRE)(da come comincia a strusciarsi capisco anche quale dei sei è, senza guardarlo).
Allora mi chino, e in dieci secondi tasto le zone erogene delle zecche fingendo di volergli fare una carezza.
Se non ne ha, la coccola finisce lì.
Se ve lo state chiedendo la risposta è no: le galline non hanno le zecche.
I miei fallimenti con le zecche per lo più sono dovuti al fatto che ho smania.
Non sempre è il momento buono per togliere una zecca. L’animale preferito per la mia attività è in assoluto Gisella, il nostro primo cane (ora ne abbiamo due, il nuovo si chiama Gustavo). Gisella è stata abituata fin da piccola alle mie esplorazioni, e si presta con prona accondiscendenza alle mie mani che tastano. Che poi, avere le zecche, voglio dire, non credo sia come avere le unghie dipinte, immagino sia pure una discreta rottura di coglioni. Certe volte però la zecca non andrebbe tolta. Specialmente se si è infilata da poco, è ancora magra, e il suo corpicino di zecca non è abbastanza voluminoso da permettere una salda presa. Oppure si è ficcata in zone difficili. Ad esempio nell’incavo delle ascelle, dove la struttura cartilaginosa della carne le fa infossare nel morbido. O vicino all’ano. Se vi fa schifo ora, vi farà più schifo tra un paio di capoversi. In questi casi la zecca andrebbe lasciata lì, che si foraggi per un paio di giorni a scapito del parassitato, cresca, e diventi più prendibile. Ma io non ce la faccio. Ho smania. Allora ci provo lo stesso. Ma il rischio è alto. È più forte di me: se c’è una zecca, devo toglierla. Subito. Mi succede la stessa cosa con i brufoli. Se mi trovo anche solo l’alone di un brufolo, lo scoppio. Anche se è ancora rosso, se potrebbe non suppurare, anche se forse nemmeno esiste ancora. Se sento qualcosa di sospetto, non posso attendere. Fregola. Scoppierei brufoli anche a sconosciuti. Se qualcuno mi dice che ha un brufolo che non può raggiungere io mi offro sempre per scoppiarglielo. Nessuno ha mai accettato. Se sto guidando e sento che ho un brufolo devo accostare, togliermi i pantaloni (di solito sono sul culo, zona cintura o sulle cosce) e scoppiarlo. Ognuno ha le sue perversioni, ne convengo. Tra l’altro questa cosa che ad un certo punto senti che hai un brufolo mi ha sempre ammaliato: tre secondi prima il brufolo sicuramente era già lì, ma non si era palesato. E tre secondi dopo ecco che lo senti, ecco che si manifesta.
Ecco l’agnizione.
L’essere-percepibile, il suo essere in potenza e divenire in atto, è qualcosa di portentoso.
Il brufolo è qualcosa di portentoso.
A cena Ivan aveva detto una cosa abbastanza in antitesi con quanto sopra. Spiego.
Una volta si stava cenando a Cattolica, prima dello spettacolo serale nella piazza delle fontane, dopo un 10 ore di montaggio sotto l’inscalfibile sole agostano della riviera adriatica, e c’era questo tecnico che avevo chiamato che si chiamava Ivan ed era la prima volta che lavorava con noi. Dopo aver cazzeggiato un po’ sul fatto che nessuno di noi a parte lui aveva fatto la naja, infossammo la discussione sulle zanzare che non ci facevano cenare, e da lì si passò ai brufoli. Ivan disse che ad un suo amico che si era scoppiato un brufolo e aveva fatto infezione avevano dovuto amputare la gamba dal ginocchio in giù.
Alé.
Tra le altre cose Ivan era zoppo e nessuno aveva avuto il coraggio di sindacare sulla sua affermazione. Fu l’ultima volta che chiamai Ivan a lavorare, ma ci tengo a precisare che la decisione non dipese né dal fatto che fosse zoppo né dalla storia dei brufoli.
Visto che son saltate fuori le zanzare: ho capito che il mio odio prepotente verso questa specie di emotofaghe non dipende né dal prurito né dal ronzio attorno ai padiglioni auricolari: dipende dal fatto che il bubbone che procurano non puoi scoppiarlo. È un bubbone autoimmune alla mia pulsione esplosiva. Mi rende impotente, inerme, sconfitto. Le odio per questo, profondamente.
Una volta il mio amico Andreas mi disse di avere quasi sicuramente una zecca sulla natica sinistra. “Te la tolgo io boss”, “Sicuro?”, “Certo, vieni qui”.
Fu curioso. Ancora non si era diffusa la nomea che ero il migliore in materia. Andreas non poteva saperlo. Fu una coincidenza che lo disse proprio a me. Le coincidenze, secondo me, hanno un fascino non in quanto somma-di-probabilità-che-convergono. Hanno un fascino in quanto potrebbe tranquillamente essere che le coincidenze che vediamo coincidere siano solo una piccolissima parte delle coincidenze che invece accadono, e non siamo stati capaci di percepire. Potrebbe essere che le cose coincidano ininterrottamente, e non lo sappiamo. E la coincidenza che chiamiamo tale in realtà sia solo una delle tante. Il senso potrebbe essere che le coincidenze a quel punto non esistono più. Parole sante.
Io e Andreas - che è tedesco, ma la cosa non influisce sull’intreccio - ci sistemiamo sotto la luce della mia cucina (eravamo a casa nostra), lui si abbassa i pantaloni e la individuo subito. Una classica Ixodes Ricinus. Gli faccio una domanda per distrarlo, del tipo “Ma da quanto te la senti?” oppure “Ma te da che zona della Germania provieni?” e nel mentre la afferro premendo leggermente le due dita nella natica. In quel frangente entra sua moglie, dice una cosa tipo “Ah, ok”, lui la guarda, si fanno un sorriso anomalo, io estraggo. È viva. Capra wins. Loro poi hanno divorziato e non li ho più rivisti.
Il rumore che fa una zecca quando la estrai con tutti i crismi è splendido.
È come uno stack!, uno schiocco secco di lingua sul palato, una bolla di pluriball che premi tra le dita, un legnetto di betulla che si frange, lo scoppiettio di un lapillo che prende il volo, un incanto, una droga.
Io abito a Zocca. C’è un paese in provincia di Catanzaro che si chiama Zecca.
Una volta che ero stato via una settimana da casa, sono tornato di notte e ho tolto 35 zecche a Gisella. Era tardi, ero stanco, e fallii in 3 casi. Ma fu bellissimo ugualmente.
Fu sempre Gisella a regalarmi uno dei momenti più memorabili del settore: la zecca gigante.
Agevolo un contributo fotografico:
So che su Barabba è vietato postare fotografie. Ma ho avuto il via libera dall'ingegner Manicardi con le seguenti parole: "Violare le regole è punk". Al di là del fatto che questa foto sia ENORME.
Una zecca gigante difficilmente prolifera fino a quel punto su uno dei miei animali, che controllo quasi quotidianamente (sì, l’ho detto: perversione). Più probabilmente gli finisce addosso già ad uno stadio avanzato, e sceglie Gisella o uno dei felini per portare a termine la propria conquista di spazio. Le zecche giganti, diversamente da quanto si potrebbe pensare, sono le più facili a staccarsi. È come se fossero consce del proprio stadio terminale. Stanno lì, goffamente nascoste tra i peli come quando ci si nasconde per scherzo dietro ad un rametto, non si capisce nemmeno se – microcefale come sono diventate - siano ancora confitte nella pelle, basta sfiorarle e si spanciano. Il momento topico della libido del rumore in questi casi arriva quando devi schiacciarle, scegliendo accuratamente due pietre sottili, e rimirando la chiazza di sangue di cane di cui si sono imbibite allargarsi sulla selce.
Le teorie su come sbarazzarsi delle zecche una volta staccate è varia: se le schiacci e basta potresti non sterminare le uova che stanno ‘covando’. Una zecca può farne fino a 500. (Sticazzi). Andrebbero bruciate. Io non sempre ne ho voglia. Specialmente d’estate.
Fine paragrafo.
Le più famose epidemie di peste nella storia dell’umanità non furono colpa delle zecche. Tutt’al più le zecche possono trasmettere qualche tipo di peste prettamente animale (peste equina o peste suina). La peste nera e le sue sorelle furono trasmesse dai topi o dai ratti alla specie umana per mezzo delle pulci. La peste sterminava i ratti e, in mancanza di un pasto caldo, le pulci passavano agli esseri umani, che coi ratti e i topi condividevano una buona percentuale dell’habitat quotidiano
La prima pestilenza nella storia della letteratura è quella dell’Edipo Re di Sofocle.
E non c’è traccia pulci.
Stanare le pulci è tutta un’altra storia rispetto alle zecche.
Se con le zecche si tratta di un thriller psicologico, con le pulci è un inseguimento à la Justin Lin.
La vedi per un attimo, poi si infossa nel pelo, tenti di precederne la traiettoria, scosti un ciuffo sperando di scovarla, quella è già su un orecchio, afferri l’orecchio, ne isoli una porzione, speri sia rimasta nella zona delimitata dai tuoi polpastrelli, ecco che spunta, le prendi, ce l’hai, apri le dita, avvicini due unghie rapidissimo prima che ti salti sui vestiti, la schiacci, prendi fiato, ti accasci. Una roba.
A tal pro hanno inventato dei pettini con i denti di metallo, nei cui interstizi le pulci si incastrano, e che puoi comodamente schiacciare una volta finita la pettinata. Ma insomma. Il gusto perde mordente. Delle pulci mi frega il giusto. I focolai di peste endemici sono sempre più rari. Zocca per ora non è segnalata. Chiamami se hai bisogno.
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Però, chiedetelo a chiunque mi conosca un po’, non appena mi arriva un gatto o un cane sotto tiro, la prima cosa che mi viene spontaneo fare è controllare lo stato delle zecche sul suo corpo.
Se i proprietari degli animali mi conoscono paleso senza paura le mie intenzioni, - Bruno! Vieni qua: controllo zecche -
Se invece sono animali di gente che non conosco abbastanza simulo il mio interesse verso i parassiti fingendo di accarezzare con uno zelo chiaramente eccessivo i loro felini et similia.
Il difficile arriva quando ne trovo una.
Prima di trasferirmi in montagna avevo una paura fortissima delle zecche.
Le storie che si raccontavano erano pazzesche: che le zecche penetravano sotto la carne, facevano una covata e depositavano le uova, poi queste si schiudevano e avevi un’intera famiglia di zecche che ti camminava sotto la pelle fino al cervello e ti uscivano dal naso e dalle unghie e impazzivi e ti facevano rinchiudere al manicomio di Reggio come Antonio Ligabue, che in tanti conoscevano come Laccabue.
La mia prima zecca mi ha tolto il respiro. Non la trovai su di me, ma su uno dei miei gatti, quando ne avevamo solo due e abitavamo a Monterenzio sulle colline di Bologna vicino a un forno che di notte sventagliava un irresistibile odore di bomboloni.
Quindi posso capire il disagio e il terrore che prende certuni dinanzi alla scoperta di avere una zecca addosso, o di trovarne una sul proprio animale domestico.
Tranquilli. Son qua.
Quando trovo una zecca su un animale che non mi è familiare, magari in salotto a casa di amici di amici, e io ho – per dire – questo gatto che si trastulla sulle mie ginocchia, mentre con una mano flirto con lui nei sui punti G, e con l’altra sondo il terreno in cui le zecche sogliono installarsi (solitamente sulle tempie, le orecchie, dietro le orecchie, lungo il collo fino al mento e per lo più nella zone della nuca), ecco, quando ne trovo una faccio così: apro lo spazio attorno alla zecca scostando i peli e lasciando il suo culo rosso all’aria, avvicino pollice e indice alla zona in cui la zecca e il suo diabolico rostro sono conficcati nella carne, premo verso il basso, saldo la presa, colpo di tosse, stacco.
Ho una dote naturale, me lo dice anche Agnese.
Solitamente il gatto di amici di amici che ho sulle ginocchia, felino domestico disabituato ad essere preda di emotofagi, un attimo dopo che è stato epurato dal parassita emette un miagolio forte, un po’ per la paura e un po’ per il dolore, e gli occhi di tutti si voltano. Il gatto mi ficca gli artigli nelle cosce e spicca un balzo. Io sorrido alla platea, alzo un po’ le spalle e fingo di togliermi infastidito i peli dai pantaloni, e nel mentre nascondo la zecca appena estirpata - bloccata tra indice e pollice - verso il palmo della mano, tecnica che mi aveva insegnato il mio compaesano Marco B. quando alle medie fumavamo di nascosto.
Se la zecca appena tolta sbatacchia le sue otto zampette in cerca di libertà, allora hai vinto.
Cioè: se l’hai tolta viva, hai vinto di sicuro.
Anche se l’hai tolta ed è morta puoi aver vinto, ma devi controllare.
In media ho la meglio sulle zecche il 90% delle volte.
Se hai avuto la peggio significa che un pezzo di zecca è rimasto nella pelle dell’animale.
Questo sì che, oltre al fatto che una zecca si nutra di sangue fino a crescere a dismisura e procreare, può diventare un problema. Nel senso che potrebbe fare infezione. Un po’ di tintura madre di calendula nella zona infetta ha fatto sì che i miei animali non abbiano mai subito conseguenze da un mio intervento malriuscito. Tante altre volte non è servita neppure la disinfezione: dopo un paio di giorni non c’era più nulla.
Se il tuo gatto è morto perché gli hai tolto male una zecca non so che dire.
Mi spiace molto. La prossima volta portalo da me.
Attorno a casa nostra è tipo il paradiso delle zecche.
Erba a non finire tagliata tre volte l’anno + bosco.
Inizio pippone. Solitamente sugli animali domestici, onde evitare il proliferare di parassiti, si innaffiano veleni. Quando qualcosa uccide degli animali, è mia convinzione che troppo bene non faccia neppure agli esseri umani che ne vengono a contatto. Il veleno anti parassiti più comune prende il nome di Front Line. Lo metti sul coppino, e spariscono pulci e zecche. Se però tieni gli animali in casa, e magari ti piace trastullarti, e ti piace che si trastulli la prole con loro, allora il trastullo potrebbe diventare venefico. Che poi, in un paio di casi estremi, l’abbiamo adottata anche noi la tecnica allopatica. Sempre per non essere estremisti, ecco.
La verità in verità è che il piacere di fare a mano è incommensurabilmente più gratificante che dare via libera a Front Line. Fine pippone.
Quando sono fuori a guardare il cielo stellato, o le lucciole che lucciolano sul frinire dei grilli, o la nuvole svelte che attraversano la vallata e medito sul senso della vita, arriva un gatto a strusciarsi contro le mie gambe (e avendone sei, un gatto arriva SEMPRE)(da come comincia a strusciarsi capisco anche quale dei sei è, senza guardarlo).
Allora mi chino, e in dieci secondi tasto le zone erogene delle zecche fingendo di volergli fare una carezza.
Se non ne ha, la coccola finisce lì.
Se ve lo state chiedendo la risposta è no: le galline non hanno le zecche.
I miei fallimenti con le zecche per lo più sono dovuti al fatto che ho smania.
Non sempre è il momento buono per togliere una zecca. L’animale preferito per la mia attività è in assoluto Gisella, il nostro primo cane (ora ne abbiamo due, il nuovo si chiama Gustavo). Gisella è stata abituata fin da piccola alle mie esplorazioni, e si presta con prona accondiscendenza alle mie mani che tastano. Che poi, avere le zecche, voglio dire, non credo sia come avere le unghie dipinte, immagino sia pure una discreta rottura di coglioni. Certe volte però la zecca non andrebbe tolta. Specialmente se si è infilata da poco, è ancora magra, e il suo corpicino di zecca non è abbastanza voluminoso da permettere una salda presa. Oppure si è ficcata in zone difficili. Ad esempio nell’incavo delle ascelle, dove la struttura cartilaginosa della carne le fa infossare nel morbido. O vicino all’ano. Se vi fa schifo ora, vi farà più schifo tra un paio di capoversi. In questi casi la zecca andrebbe lasciata lì, che si foraggi per un paio di giorni a scapito del parassitato, cresca, e diventi più prendibile. Ma io non ce la faccio. Ho smania. Allora ci provo lo stesso. Ma il rischio è alto. È più forte di me: se c’è una zecca, devo toglierla. Subito. Mi succede la stessa cosa con i brufoli. Se mi trovo anche solo l’alone di un brufolo, lo scoppio. Anche se è ancora rosso, se potrebbe non suppurare, anche se forse nemmeno esiste ancora. Se sento qualcosa di sospetto, non posso attendere. Fregola. Scoppierei brufoli anche a sconosciuti. Se qualcuno mi dice che ha un brufolo che non può raggiungere io mi offro sempre per scoppiarglielo. Nessuno ha mai accettato. Se sto guidando e sento che ho un brufolo devo accostare, togliermi i pantaloni (di solito sono sul culo, zona cintura o sulle cosce) e scoppiarlo. Ognuno ha le sue perversioni, ne convengo. Tra l’altro questa cosa che ad un certo punto senti che hai un brufolo mi ha sempre ammaliato: tre secondi prima il brufolo sicuramente era già lì, ma non si era palesato. E tre secondi dopo ecco che lo senti, ecco che si manifesta.
Ecco l’agnizione.
L’essere-percepibile, il suo essere in potenza e divenire in atto, è qualcosa di portentoso.
Il brufolo è qualcosa di portentoso.
A cena Ivan aveva detto una cosa abbastanza in antitesi con quanto sopra. Spiego.
Una volta si stava cenando a Cattolica, prima dello spettacolo serale nella piazza delle fontane, dopo un 10 ore di montaggio sotto l’inscalfibile sole agostano della riviera adriatica, e c’era questo tecnico che avevo chiamato che si chiamava Ivan ed era la prima volta che lavorava con noi. Dopo aver cazzeggiato un po’ sul fatto che nessuno di noi a parte lui aveva fatto la naja, infossammo la discussione sulle zanzare che non ci facevano cenare, e da lì si passò ai brufoli. Ivan disse che ad un suo amico che si era scoppiato un brufolo e aveva fatto infezione avevano dovuto amputare la gamba dal ginocchio in giù.
Alé.
Tra le altre cose Ivan era zoppo e nessuno aveva avuto il coraggio di sindacare sulla sua affermazione. Fu l’ultima volta che chiamai Ivan a lavorare, ma ci tengo a precisare che la decisione non dipese né dal fatto che fosse zoppo né dalla storia dei brufoli.
Visto che son saltate fuori le zanzare: ho capito che il mio odio prepotente verso questa specie di emotofaghe non dipende né dal prurito né dal ronzio attorno ai padiglioni auricolari: dipende dal fatto che il bubbone che procurano non puoi scoppiarlo. È un bubbone autoimmune alla mia pulsione esplosiva. Mi rende impotente, inerme, sconfitto. Le odio per questo, profondamente.
Una volta il mio amico Andreas mi disse di avere quasi sicuramente una zecca sulla natica sinistra. “Te la tolgo io boss”, “Sicuro?”, “Certo, vieni qui”.
Fu curioso. Ancora non si era diffusa la nomea che ero il migliore in materia. Andreas non poteva saperlo. Fu una coincidenza che lo disse proprio a me. Le coincidenze, secondo me, hanno un fascino non in quanto somma-di-probabilità-che-convergono. Hanno un fascino in quanto potrebbe tranquillamente essere che le coincidenze che vediamo coincidere siano solo una piccolissima parte delle coincidenze che invece accadono, e non siamo stati capaci di percepire. Potrebbe essere che le cose coincidano ininterrottamente, e non lo sappiamo. E la coincidenza che chiamiamo tale in realtà sia solo una delle tante. Il senso potrebbe essere che le coincidenze a quel punto non esistono più. Parole sante.
Io e Andreas - che è tedesco, ma la cosa non influisce sull’intreccio - ci sistemiamo sotto la luce della mia cucina (eravamo a casa nostra), lui si abbassa i pantaloni e la individuo subito. Una classica Ixodes Ricinus. Gli faccio una domanda per distrarlo, del tipo “Ma da quanto te la senti?” oppure “Ma te da che zona della Germania provieni?” e nel mentre la afferro premendo leggermente le due dita nella natica. In quel frangente entra sua moglie, dice una cosa tipo “Ah, ok”, lui la guarda, si fanno un sorriso anomalo, io estraggo. È viva. Capra wins. Loro poi hanno divorziato e non li ho più rivisti.
Il rumore che fa una zecca quando la estrai con tutti i crismi è splendido.
È come uno stack!, uno schiocco secco di lingua sul palato, una bolla di pluriball che premi tra le dita, un legnetto di betulla che si frange, lo scoppiettio di un lapillo che prende il volo, un incanto, una droga.
Io abito a Zocca. C’è un paese in provincia di Catanzaro che si chiama Zecca.
Una volta che ero stato via una settimana da casa, sono tornato di notte e ho tolto 35 zecche a Gisella. Era tardi, ero stanco, e fallii in 3 casi. Ma fu bellissimo ugualmente.
Fu sempre Gisella a regalarmi uno dei momenti più memorabili del settore: la zecca gigante.
Agevolo un contributo fotografico:
So che su Barabba è vietato postare fotografie. Ma ho avuto il via libera dall'ingegner Manicardi con le seguenti parole: "Violare le regole è punk". Al di là del fatto che questa foto sia ENORME.
Una zecca gigante difficilmente prolifera fino a quel punto su uno dei miei animali, che controllo quasi quotidianamente (sì, l’ho detto: perversione). Più probabilmente gli finisce addosso già ad uno stadio avanzato, e sceglie Gisella o uno dei felini per portare a termine la propria conquista di spazio. Le zecche giganti, diversamente da quanto si potrebbe pensare, sono le più facili a staccarsi. È come se fossero consce del proprio stadio terminale. Stanno lì, goffamente nascoste tra i peli come quando ci si nasconde per scherzo dietro ad un rametto, non si capisce nemmeno se – microcefale come sono diventate - siano ancora confitte nella pelle, basta sfiorarle e si spanciano. Il momento topico della libido del rumore in questi casi arriva quando devi schiacciarle, scegliendo accuratamente due pietre sottili, e rimirando la chiazza di sangue di cane di cui si sono imbibite allargarsi sulla selce.
Le teorie su come sbarazzarsi delle zecche una volta staccate è varia: se le schiacci e basta potresti non sterminare le uova che stanno ‘covando’. Una zecca può farne fino a 500. (Sticazzi). Andrebbero bruciate. Io non sempre ne ho voglia. Specialmente d’estate.
Fine paragrafo.
Le più famose epidemie di peste nella storia dell’umanità non furono colpa delle zecche. Tutt’al più le zecche possono trasmettere qualche tipo di peste prettamente animale (peste equina o peste suina). La peste nera e le sue sorelle furono trasmesse dai topi o dai ratti alla specie umana per mezzo delle pulci. La peste sterminava i ratti e, in mancanza di un pasto caldo, le pulci passavano agli esseri umani, che coi ratti e i topi condividevano una buona percentuale dell’habitat quotidiano
La prima pestilenza nella storia della letteratura è quella dell’Edipo Re di Sofocle.
E non c’è traccia pulci.
Stanare le pulci è tutta un’altra storia rispetto alle zecche.
Se con le zecche si tratta di un thriller psicologico, con le pulci è un inseguimento à la Justin Lin.
La vedi per un attimo, poi si infossa nel pelo, tenti di precederne la traiettoria, scosti un ciuffo sperando di scovarla, quella è già su un orecchio, afferri l’orecchio, ne isoli una porzione, speri sia rimasta nella zona delimitata dai tuoi polpastrelli, ecco che spunta, le prendi, ce l’hai, apri le dita, avvicini due unghie rapidissimo prima che ti salti sui vestiti, la schiacci, prendi fiato, ti accasci. Una roba.
A tal pro hanno inventato dei pettini con i denti di metallo, nei cui interstizi le pulci si incastrano, e che puoi comodamente schiacciare una volta finita la pettinata. Ma insomma. Il gusto perde mordente. Delle pulci mi frega il giusto. I focolai di peste endemici sono sempre più rari. Zocca per ora non è segnalata. Chiamami se hai bisogno.
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martedì 30 ottobre 2012
lunedì 29 ottobre 2012
T.U.I.T. (1)
Stamattina c'avevo una cosa da fare, e l'avevo fatta, pressapoco, ma non ci riuscivo bene, mi restava un dubbio e allora non sapevo mica bene se potevo avvisare l'amica che mi avrebbe fatto il favore di prendere una cosa che mi serviva. Sì, l'avevo calcolata a spanne ma non ero proprio certo che andasse bene, che fosse tutto in regola. Così mi stavo aggirando per casa, scaravoltando svuotatasche, sventrando cassetti, ribaltando scatole, versando il contenuto di barattoli, ma non riuscivo a trovare quel che mi serviva per togliermi sto dubbio.
Allora in un piccolo lampo, mentre rovistavo nel cestino della frutta secca in cucina, ho proprio pensato, distintamente, Ecco, se c'avessi l'iPad anch'io, un bell'iPad nuovo fiammante, ci troverei subito dentro la funzione righello, magari con tanto di unità di misura differenti, così nel caso potrei pure sfoggiare proprietà di vocaboli, elasticità mentale e una certa dose d'internazionalismo, e alla fine prenderei la misura e risolverei il dilemma.
Poi son tornato normale.
L'acronimo di questa nuova rubrica, l'avrete intuito, è Tecnovillano Utilizzo Improprio della Tecnologia.
p.s.: ovviamente il righello nell'iPad c'è, ma devi scaricarlo come app...
Allora in un piccolo lampo, mentre rovistavo nel cestino della frutta secca in cucina, ho proprio pensato, distintamente, Ecco, se c'avessi l'iPad anch'io, un bell'iPad nuovo fiammante, ci troverei subito dentro la funzione righello, magari con tanto di unità di misura differenti, così nel caso potrei pure sfoggiare proprietà di vocaboli, elasticità mentale e una certa dose d'internazionalismo, e alla fine prenderei la misura e risolverei il dilemma.
Poi son tornato normale.
L'acronimo di questa nuova rubrica, l'avrete intuito, è Tecnovillano Utilizzo Improprio della Tecnologia.
p.s.: ovviamente il righello nell'iPad c'è, ma devi scaricarlo come app...
si parla di:
T.U.I.T,
tecnovillanesimo
giovedì 25 ottobre 2012
Trucchi della borghesia (73)
Quelli che chiedono i classici con il titolo originale tipo: "ce l'hai The Great Gatsby?", oppure "ce l'hai Rouge et noir?" o peggio, il classico "ce l'hai Catcher In The Rye?" impostando pure tutta la pronuncia.
(di viadellaviola, una libraia)
(di viadellaviola, una libraia)
lunedì 22 ottobre 2012
Trucchi della borghesia (72)
I berretti sportivi mentre guidano sulle decappottabili.
Troppo comodo.
Se vogliono davvero vincere il vento con eleganza li vogliamo coi cilindri, i trilby, i fedora, i panama, o almeno le bombette.
Troppo comodo.
Se vogliono davvero vincere il vento con eleganza li vogliamo coi cilindri, i trilby, i fedora, i panama, o almeno le bombette.
si parla di:
trucchi della borghesia
sabato 20 ottobre 2012
L'ennesimo libro della fantascienza: la scuola del futuro
La seconda settimana di presentazione dei tablet nella nostra scuola, l’IIS “G.Luosi” di Mirandola, ha visto alternarsi le classi prime dell’Istituto. [...] Agli studenti più giovani ho proposto una sequenza un po’ più ludica permettendo loro di trovare autonomamente le funzioni multimediali come le immagini e i filmati, audio e giochi. Solo successivamente ho introdotto la scrittura, sempre con Polaris Office e la lettura scaricando, quando è stato possibile, un racconto di genere fantascientifico, “Alta Scuola Per Bambini”, che l’autrice Rosalba Cocco e Barabba Edizioni ci hanno permesso di distribuire sulla piattaforma d’Istituto.Continua qui. Son cose che fanno inorgoglire.
lunedì 15 ottobre 2012
giovedì 11 ottobre 2012
Nel nome del padre (12)
Prima di addormentarsi:
Ester: "Adesso ti racconto una storia. Ma è una storia triste"
Papà: "E perché?"
Ester: "Perché ci sono i cacciatori"
Papà: "Ok"
Ester: "I cacciatori arrivano e uccidono il lupo. Fine della storia. È una storia molto piccola"
Ester: "Adesso ti racconto una storia. Ma è una storia triste"
Papà: "E perché?"
Ester: "Perché ci sono i cacciatori"
Papà: "Ok"
Ester: "I cacciatori arrivano e uccidono il lupo. Fine della storia. È una storia molto piccola"
giovedì 4 ottobre 2012
Come un aborto in mezzo agli angeli
Questo blogghetto vagamente letterario risente ancora dell'onda lunga del successo de L'ennesimo libro della fantascienza (e, a proposito, grazie a tutti voi che lo state scaricando, che ne parlate bene in giro, eccetera, siamo molto contenti). Allora oggi, che ho visto che finalmente, dopo più di vent'anni, è stato ristampato Vulcano 3 di Philip K. Dick, mi è tornata alla mente una cosa che aveva scritto Jonathan Lethem, grandissimo fan di PKD, come il sottoscritto, in un articolo molto lungo e molto bello che potete leggere per intero sul blog della minumum fax. E insomma, Jonathan Lethem diceva che:
Ecco, voglio provare ad applicare lo stesso ragionamento alla letteratura, e senza rischiare troppo penso di poter iniziare tranquillamente da quella fantascientifica. Quindi ora sapete quale sarà la mia prossima lettura: quel libro «recuperato e messo a sedere come un aborto in mezzo agli angeli». Se funziona, ve lo dico.
Fra quelli così brutti che gridano vendetta una menzione speciale la merita Vulcano 3. Quando Dick si metteva a scrivere roba commerciale in genere i risultati erano particolarmente originali, ma non nel caso di Vulcano 3. Se buttate in un frullatore quindici romanzi di fantascienza del 1954 scelti a caso, forse otterrete Vulcano 3, probabilmente qualcosa di meglio.C'è un mio amico cantautore che mi dice sempre di comprare i dischi che nelle recensioni sui giornali prendono il voto più basso possibile. E se un disco prende zero, bisognerebbe per forza averlo in casa, esposto nello scaffale del salotto. Dice anche, il mio amico cantautore, che si tratta di una teoria del tutto empirica e che la stampa italiana non ha poi tutto questo coraggio, mentre quella inglese, in particolar modo nel passato, ha dato delle belle soddisfazioni; come quando di Velvet Undeground & Nico si disse “con questo album i fiori del male sbocciano rigogliosi, qualcuno dovrebbe calpestarli prima che si espandano”, o come accadde a qualche album di Zappa, ad Astral Weeks di Van Morrison e persino a Exile on main street, o come quando Lester Bangs massacrò Kick out the jams.
[...] Entrare in possesso di Vulcano 3 fu un notevole trionfo. Mi ricorderò sempre di come lo ripescai da una cassa di tascabili mezzi ammuffiti che era stata infilata sotto uno scaffale, tolsi la polvere dalla sua magnifica, orripilante copertina (Lawrence Sutin, nella sua biografia di Dick, dice che occupava «un meritato posto in Purgatorio, in quanto riempiva metà di un tascabile double-face Ace Double del 1960») e dovetti praticamente prendermi a pizzicotti per convincermi che non stavo sognando: era proprio Vulcano 3, cazzo! L’avevo trovato! Ovviamente, a quel punto dovetti prendere e leggermelo, quel benedetto libro.
[...] A Dick avrebbe fatto piacere vedere Vulcano 3 recuperato e messo a sedere come un aborto in mezzo agli angeli? È impossibile saperlo. Verso la fine della propria vita Dick cominciò a trovare strane virtù anche nelle sue opere giovanili più mediocri, in parte perché tendeva a vedere tutti i suoi romanzi e racconti precedenti come barlumi premonitori dell’illuminazione religiosa che aveva avuto nel 1974 [...]
L’asserzione implicita che sta dietro al boom di credibilità di Dick è pressappoco questa: Ecco uno scrittore che parte dall’iconografia pop della fantascienza, ma lavora con tale originalità e verve – e intensità emotiva – da creare un suo genere personalissimo, surreale e scatenato, con immense capacità di umorismo e disperazione, e di critica sofisticata alla cultura capitalistica (malgrado, ehm, certe scelte infelici nella prosa). Costui merita la vostra seria attenzione tanto quanto qualunque scrittore realista. E tutto questo già non era tanto facile da mandar giù. Ai guardiani della nostra cultura letteraria bisogna poi richiedere una notevole elasticità mentale, se si va ad affermare: Ah, sì, e questo stesso tizio, il surrealista visionario imbevuto di cultura pop, avete presente? Ecco, ha scritto anche otto romanzi sconcertanti e indimenticabili in un severo stile realistico piccoloborghese: un po’ un incrocio fra Richard Yates e Charles Willeford. Anche questi vale la pena di leggerli (malgrado, ehm, certe scelte infelici nella prosa). Questo doppio dietrofront forse è un po’ troppo. E nonostante questo, anche il peggiore di quei romanzi realistici sarebbe una lettura più gratificante di Vulcano 3. Non è per insistere…
Ecco, voglio provare ad applicare lo stesso ragionamento alla letteratura, e senza rischiare troppo penso di poter iniziare tranquillamente da quella fantascientifica. Quindi ora sapete quale sarà la mia prossima lettura: quel libro «recuperato e messo a sedere come un aborto in mezzo agli angeli». Se funziona, ve lo dico.
lunedì 1 ottobre 2012
Biografie essenziali (146)
Eric Hobsbawm era l'uomo più longevo del secolo più breve che l'umanità abbia mai avuto.
Ci mancherà.
Ci mancherà.
si parla di:
biografie essenziali,
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Eric Hobsbawm,
RIP,
vita morte e miracoli
venerdì 28 settembre 2012
Noi che ci piace scrivere
Sto cercando di scrivere una cosa per un posto che poi, se finisco di scrivere quella cosa, vi dirò che posto è. Dato che è un posto che pubblica cose particolari, ho chiesto se per caso ci fossero delle linee guida da seguire, per la cosa che sto cercando di scrivere, e la titolare del posto, che poi vi dirò che posto è se finisco di scrivere, mi ha detto così: venire a suggerire a te come scrivere mi sembrerebbe un paradosso. Ecco, a parte il complimento, che mi fa piacere e ringrazio di cuore anche se non credo di esser così bravo da dovermi prendere un complimento del genere senza spendere un euro, ma siamo brave persone e delle volte esageriamo, ma a parte il complimento, dicevo, secondo me dei paletti ci devono sempre essere, per noi che ci piace scrivere. Perché noi che ci piace scrivere, che lo si faccia bene o meno non importa, i paletti li malediciamo, ma in una parte che nascondiamo agli occhi altrui noi che ci piace scrivere i paletti li adoriamo. Quindi, per favore, piazzate dei paletti sul nostro cammino, quando noi che ci piace scrivere vi proponiamo un pezzo o voi che vi piace leggerci ce ne commissionate uno, ché quando ci troviamo davanti a un paletto, noi che ci piace scrivere diventiamo matti, e allora delle volte siamo disonesti e cerchiamo tutti i modi che conosciamo per farci lo slalom, ma delle altre volte, se siamo onesti, davvero onesti, mettiamo il paletto al centro dello sguardo, aumentiamo ben bene la velocità, e ci andiamo a sbattere contro. Nel nostro stato di grazia, quelle due o tre volte nella vita in cui ci capita, sui paletti andiamo a sbatterci davvero forte. Ci sbattiamo di schianto, col sorriso stampato, e nel fragore del legno che si spacca, con un suono gutturale di vittoria, li tiriamo giù.
domenica 23 settembre 2012
Nel nome del padre (11bis) - Mio padre faceva il fabbro II
[Continua da qui]
Mi vergognavo che mio padre fosse un fabbro.
Non che i miei amici avessero genitori scrittori, o politici, o sportivi o che altro potesse far ingelosire un preadolescente. Però quando si doveva tirar fuori il mestiere dei propri genitori dicevo sempre prima quello di mia madre, che era infermiera in sala operatoria, e quindi salvava le vite, aveva una divisa, poi, se proprio si insisteva, anche quello di mio padre.
Durante il liceo ho conosciuto una tipa che frequentava un altro giro rispetto al mio, era in classe con amici che andavano alle magistrali, e ho scoperto che era la figlia del capo di mio padre. Sapevo che si chiamava Narcisi di cognome, come la ditta dove lavorava mio padre, così ho chiesto a papà se il suo capo aveva una figlia. Ce l’aveva ed aveva la mia età. Sapere che questa era la figlia del capo di mio padre mi ha sempre tenuto alla larga da lei. Che poi, anche di starle vicino, non me ne fregava granché. Aveva pure l’apparecchio sia sopra che sotto. Questa parte della tipa figlia del capo di mio padre magari la togliamo in editing.
Non ho imparato nulla del suo lavoro. Non ho imparato granché in generale da lui, mi verrebbe da dire. O per lo meno non saprei decifrarlo ora. I primi buchi col trapano li ho fatti a 23 anni. Non ho mai saldato nulla, e probabilmente mai lo farò. Non ho neppure una morsa. Se potessi tornare indietro ora. “Se potessi tornare indietro” non andrebbe detto mai.
Ricordo che per un certo periodo fumava di nascosto. Non saprei collocare questo frangente storicamente. Sicuramente prima che si scoprisse del tumore. Magari in seguito ad alcune analisi sballate, che so. Faceva esami regolari perché era un donatore di sangue all’Avis. Ecco, questa cosa mio padre me l’ha lasciata, perché anch’io sono diventato donatore di sangue per un certo periodo. Mia madre comunque lo beccava sempre, o sentendo l’odore di fumo sui vestiti, o trovando pacchetti nascosti. E le scenate in cucina, quelle fatte a bassa voce per non farsi sentire dai figli. In quel periodo facevo questo gioco: di nascondermi in qualche punto della casa e trascrivere cosa dicevano i miei famigliari, poi leggere a tutti, dopo cena, i loro dialoghi. Risate a palate. Quella cosa del fatto che mio padre fumasse di nascosto non la lessi dopo cena. Bruciai il foglio il pomeriggio seguente con la lente d’ingrandimento nel balcone che dà sul retro.
Il tumore fu causato da un melanoma, che è una specie di neo, che aveva sul collo.
Prese il cervello, e poi i polmoni. Ogni due anni faccio una visita dermatologica per controllare i miei nei. Ne avrò più di 200 su tutto il corpo. Quando vado dal dermatologo devo sempre specificare che ho una familiarità con melanoma maligno, e a quel punto il dottore cambia faccia e mi visita con uno zelo diverso. Non ci penso mai che uno dei nei potrebbe essere foriero di sventure. Ci penso solo una volta ogni due anni, mentre sono svestito, sul lettino del dermatologo, e quello indugia su un neo un po’ più del solito. Poi ci fa una foto, scrive due robe al computer, e mi dice che posso tornare tra due anni. In questo biennio però ci ho pensato una volta in più, questa in cui sto scrivendo. Ne avrei anche fatto a meno.
Quando sono venuto a vivere in montagna mia madre mi ha regalato una cassetta degli attrezzi nuova. Dentro c’erano alcuni dei pezzi storici che ricordo in mano sua: il cacciavite a taglio piccolo dal manico giallo; la cagna rossa con tutta la vernice scrostata; la scatolina di latta blu per le candele con due candele unte dentro. E il trapano a filo. Quanto l’ho maledetto. Quando usai per la prima volta quel trapano feci 4 buchi nel muro per appendere una cornice. La punta non entrava per più di 1 centimetro. Pensavo di aver colpito per quattro volte un tondino di ferro, o un tubo, o che so. Poi mi accorsi che il trapano non era sulla selezione giusta: c’era uno switch con il simbolo della vite – per avvitare -, e il simbolo del martello – per forare. Ritentai switchando sul martello ed entrai nel muro per 2 cm scarsi. Altri buchi a caso. Poi mi spiegarono che dovevo usare una punta da muro. Grazie. Quando abbiamo traslocato nella casa da cui scrivo, si ripresentò il medesimo problema. Stavolta serviva una punta da pietra. Grazie.
Mio padre mi avrebbe sputato su un piede se m’avesse visto.
Poi sono migliorato. Ad oggi penso che sarebbe fiero di come ho imparato a fare il cemento, a stuccare le crepe nel muro, ad accendere il fuoco nelle stufe, ad usare il decespugliatore, ad accatastare la legna. Di come vado liscio quando c’è da passare del ferro al flessibile (“sgromellare”) o piallare delle assi. Di come ho installato l’irrigazione a goccia nell’orto o accomodato la serratura del portone d’ingresso. Chissà se sarebbe fiero di vedermi suonare a un concerto dei Penguins o vedermi al mixer durante uno spettacolo. Una volta ad un concerto del gruppo che venne dopo i Mind the Gap, alla Festa de l’Unità di Correggio, vennero a vederci due suoi fratelli. Walter e Romano. Non ricordo cosa dissero quando mi salutarono per andare a casa.
I miei amici Romano lo chiamavano McGayver: aveva un laboratorio in casa, riparava elettrodomestici; il primo organetto me lo regalò lui, preso dalla discarica e rimesso in sesto. Forse non me lo regalò, ma glielo compari. Comunque fu un affare.
Erano i fratelli che all’ospedale venivano a trovarlo quasi tutti i giorni. Entravano nella stanza – che grazie agli agganci di mia madre infermiera fu tipo una singola per tutta la degenza – mi scambiavano un sorriso, si mettevano a sedere, e io ne approfittavo per staccare una mezz’ora. Oppure ci trovavano in giardino. Lo portavo là su una sedia a rotelle. Non riusciva più a camminare. Non riusciva più a fare nulla. Gli davo da mangiare, gli mettevo il pappagallo, lo lavavo. Per il resto preferiva chiamare un’infermiera, o lasciar fare a mia madre. Avevo superato l’esame di teoria per la patente. Un errore. Non mi ha mai visto guidare.
Un paio di volte, verso la fine, penso di aver persino dormito in ospedale, cosa che mi risulta essere pressoché impossibile agli umani, almeno oggi. Cosa che, comunque, non auguro a nessuno.
Negli ultimi giorni gli diedero della morfina.
Quando capimmo che stava per morire c’eravamo io e mia madre. Telefonammo ai miei fratelli. Ecco, sì, avevo un cellulare. Ricordo anche che era un Siemens e aveva lo schermo arancione. Ma non ricordo se eravamo tutti dentro quando morì. Ricordo quel respiro, e l’apnea sempre più lunga tra l’inspirazione e l’espirazione. Ricordo l’ultimo respiro. L’ultimo respiro fu un’inspirazione. Poi gli occhi spalancati. Mia madre che gli dice singhiozzando: “No Italo, non guardarmi così”, o qualcosa del genere. Qualcuno pose il palmo della mano sugli occhi e fece scendere le palpebre.
Cinque minuti fa non ero cosciente di ricordare queste cose.
Ma scrivendo ricordo, e ora che ricordo, mi rendo conto che difficilmente ricordo altre cose di mio padre perché le immagini più indelebili restano quelle degli ultimi mesi, degli ultimi giorni, e gli ultimi respiri. Per quanto sia difficile se ci si trova in mezzo, credo sia meglio che la morte di qualcuno a cui abbiamo voluto bene sia vista solo da sconosciuti.
Una volta che le si è scritte, ricordate, cancellarle sarebbe inutile, e impossibile.
A dieci anni di distanza posso dire due cose: che ha avuto un decorso abbastanza veloce, e che è stato fortunato a morire prima dei suoi figli.
In questi giorni che ho un po’ di tempo da perdere mi è tornato in mente mio padre.
Era da tantissimo tempo che non avevo del tempo tecnicamente vuoto.
Negli ultimi 5 anni, o forse sono 6 non ricordo (faccia che ride), ho quasi sempre fatto spettacoli per lavoro. Panem et circeneses era la tecnica dei romani per sedare le folle, e far passare il messaggio che nonostante tutto, tutto andava comunque per il meglio.
Ma questi anni sono anni di crisi, giusto, e la crisi ad un certo punto deve cominciare a scalfire anche alcune parti dei circenses. A me, per lo meno, è capitato così, e per l’autunno si preannuncia periodo di magra (o di rana, come dice il mio ex capo). Ho sempre lavorato fin da quando facevo l’università. Negli ultimi anni sono stato un precario con stipendio fisso (anomalia, ne convengo). Ora sono precario tout court. E forse per un po’ vivrò la strana situazione di non avere un lavoro da fare, o avere dei periodi senza un lavoro da fare. Scommetto un pieno di benza che se avessi imparato a saldare ora non sarei qua a scrivere. Ma non si torna indietro, già.
In generale, c'è più tempo di ozio.
Lo sapete il contrario di ozio in latino? Negozio, negotium, ovvero nec otium, niente ozio. L’ozio era la condizione basilare, soggiacente. Se c’era un lavoro da fare, non era altro che un’intermittente interruzione dell’ozio. Cosa voglio dire? Non saprei, al momento non me lo ricordo. Però c’è più ozio per pensare. E ogni tanto non è così male. Aiuta a mettere le cose in ordine. Fine.
“Ciò che smarrisci ha due verità:
da un lato è nulla – e nulla esiste più;
dall’altro c’è la percezione che
rimanga sempre una tua proprietà”
Mi vergognavo che mio padre fosse un fabbro.
Non che i miei amici avessero genitori scrittori, o politici, o sportivi o che altro potesse far ingelosire un preadolescente. Però quando si doveva tirar fuori il mestiere dei propri genitori dicevo sempre prima quello di mia madre, che era infermiera in sala operatoria, e quindi salvava le vite, aveva una divisa, poi, se proprio si insisteva, anche quello di mio padre.
Durante il liceo ho conosciuto una tipa che frequentava un altro giro rispetto al mio, era in classe con amici che andavano alle magistrali, e ho scoperto che era la figlia del capo di mio padre. Sapevo che si chiamava Narcisi di cognome, come la ditta dove lavorava mio padre, così ho chiesto a papà se il suo capo aveva una figlia. Ce l’aveva ed aveva la mia età. Sapere che questa era la figlia del capo di mio padre mi ha sempre tenuto alla larga da lei. Che poi, anche di starle vicino, non me ne fregava granché. Aveva pure l’apparecchio sia sopra che sotto. Questa parte della tipa figlia del capo di mio padre magari la togliamo in editing.
Non ho imparato nulla del suo lavoro. Non ho imparato granché in generale da lui, mi verrebbe da dire. O per lo meno non saprei decifrarlo ora. I primi buchi col trapano li ho fatti a 23 anni. Non ho mai saldato nulla, e probabilmente mai lo farò. Non ho neppure una morsa. Se potessi tornare indietro ora. “Se potessi tornare indietro” non andrebbe detto mai.
Ricordo che per un certo periodo fumava di nascosto. Non saprei collocare questo frangente storicamente. Sicuramente prima che si scoprisse del tumore. Magari in seguito ad alcune analisi sballate, che so. Faceva esami regolari perché era un donatore di sangue all’Avis. Ecco, questa cosa mio padre me l’ha lasciata, perché anch’io sono diventato donatore di sangue per un certo periodo. Mia madre comunque lo beccava sempre, o sentendo l’odore di fumo sui vestiti, o trovando pacchetti nascosti. E le scenate in cucina, quelle fatte a bassa voce per non farsi sentire dai figli. In quel periodo facevo questo gioco: di nascondermi in qualche punto della casa e trascrivere cosa dicevano i miei famigliari, poi leggere a tutti, dopo cena, i loro dialoghi. Risate a palate. Quella cosa del fatto che mio padre fumasse di nascosto non la lessi dopo cena. Bruciai il foglio il pomeriggio seguente con la lente d’ingrandimento nel balcone che dà sul retro.
Il tumore fu causato da un melanoma, che è una specie di neo, che aveva sul collo.
Prese il cervello, e poi i polmoni. Ogni due anni faccio una visita dermatologica per controllare i miei nei. Ne avrò più di 200 su tutto il corpo. Quando vado dal dermatologo devo sempre specificare che ho una familiarità con melanoma maligno, e a quel punto il dottore cambia faccia e mi visita con uno zelo diverso. Non ci penso mai che uno dei nei potrebbe essere foriero di sventure. Ci penso solo una volta ogni due anni, mentre sono svestito, sul lettino del dermatologo, e quello indugia su un neo un po’ più del solito. Poi ci fa una foto, scrive due robe al computer, e mi dice che posso tornare tra due anni. In questo biennio però ci ho pensato una volta in più, questa in cui sto scrivendo. Ne avrei anche fatto a meno.
Quando sono venuto a vivere in montagna mia madre mi ha regalato una cassetta degli attrezzi nuova. Dentro c’erano alcuni dei pezzi storici che ricordo in mano sua: il cacciavite a taglio piccolo dal manico giallo; la cagna rossa con tutta la vernice scrostata; la scatolina di latta blu per le candele con due candele unte dentro. E il trapano a filo. Quanto l’ho maledetto. Quando usai per la prima volta quel trapano feci 4 buchi nel muro per appendere una cornice. La punta non entrava per più di 1 centimetro. Pensavo di aver colpito per quattro volte un tondino di ferro, o un tubo, o che so. Poi mi accorsi che il trapano non era sulla selezione giusta: c’era uno switch con il simbolo della vite – per avvitare -, e il simbolo del martello – per forare. Ritentai switchando sul martello ed entrai nel muro per 2 cm scarsi. Altri buchi a caso. Poi mi spiegarono che dovevo usare una punta da muro. Grazie. Quando abbiamo traslocato nella casa da cui scrivo, si ripresentò il medesimo problema. Stavolta serviva una punta da pietra. Grazie.
Mio padre mi avrebbe sputato su un piede se m’avesse visto.
Poi sono migliorato. Ad oggi penso che sarebbe fiero di come ho imparato a fare il cemento, a stuccare le crepe nel muro, ad accendere il fuoco nelle stufe, ad usare il decespugliatore, ad accatastare la legna. Di come vado liscio quando c’è da passare del ferro al flessibile (“sgromellare”) o piallare delle assi. Di come ho installato l’irrigazione a goccia nell’orto o accomodato la serratura del portone d’ingresso. Chissà se sarebbe fiero di vedermi suonare a un concerto dei Penguins o vedermi al mixer durante uno spettacolo. Una volta ad un concerto del gruppo che venne dopo i Mind the Gap, alla Festa de l’Unità di Correggio, vennero a vederci due suoi fratelli. Walter e Romano. Non ricordo cosa dissero quando mi salutarono per andare a casa.
I miei amici Romano lo chiamavano McGayver: aveva un laboratorio in casa, riparava elettrodomestici; il primo organetto me lo regalò lui, preso dalla discarica e rimesso in sesto. Forse non me lo regalò, ma glielo compari. Comunque fu un affare.
Erano i fratelli che all’ospedale venivano a trovarlo quasi tutti i giorni. Entravano nella stanza – che grazie agli agganci di mia madre infermiera fu tipo una singola per tutta la degenza – mi scambiavano un sorriso, si mettevano a sedere, e io ne approfittavo per staccare una mezz’ora. Oppure ci trovavano in giardino. Lo portavo là su una sedia a rotelle. Non riusciva più a camminare. Non riusciva più a fare nulla. Gli davo da mangiare, gli mettevo il pappagallo, lo lavavo. Per il resto preferiva chiamare un’infermiera, o lasciar fare a mia madre. Avevo superato l’esame di teoria per la patente. Un errore. Non mi ha mai visto guidare.
Un paio di volte, verso la fine, penso di aver persino dormito in ospedale, cosa che mi risulta essere pressoché impossibile agli umani, almeno oggi. Cosa che, comunque, non auguro a nessuno.
Negli ultimi giorni gli diedero della morfina.
Quando capimmo che stava per morire c’eravamo io e mia madre. Telefonammo ai miei fratelli. Ecco, sì, avevo un cellulare. Ricordo anche che era un Siemens e aveva lo schermo arancione. Ma non ricordo se eravamo tutti dentro quando morì. Ricordo quel respiro, e l’apnea sempre più lunga tra l’inspirazione e l’espirazione. Ricordo l’ultimo respiro. L’ultimo respiro fu un’inspirazione. Poi gli occhi spalancati. Mia madre che gli dice singhiozzando: “No Italo, non guardarmi così”, o qualcosa del genere. Qualcuno pose il palmo della mano sugli occhi e fece scendere le palpebre.
Cinque minuti fa non ero cosciente di ricordare queste cose.
Ma scrivendo ricordo, e ora che ricordo, mi rendo conto che difficilmente ricordo altre cose di mio padre perché le immagini più indelebili restano quelle degli ultimi mesi, degli ultimi giorni, e gli ultimi respiri. Per quanto sia difficile se ci si trova in mezzo, credo sia meglio che la morte di qualcuno a cui abbiamo voluto bene sia vista solo da sconosciuti.
Una volta che le si è scritte, ricordate, cancellarle sarebbe inutile, e impossibile.
A dieci anni di distanza posso dire due cose: che ha avuto un decorso abbastanza veloce, e che è stato fortunato a morire prima dei suoi figli.
In questi giorni che ho un po’ di tempo da perdere mi è tornato in mente mio padre.
Era da tantissimo tempo che non avevo del tempo tecnicamente vuoto.
Negli ultimi 5 anni, o forse sono 6 non ricordo (faccia che ride), ho quasi sempre fatto spettacoli per lavoro. Panem et circeneses era la tecnica dei romani per sedare le folle, e far passare il messaggio che nonostante tutto, tutto andava comunque per il meglio.
Ma questi anni sono anni di crisi, giusto, e la crisi ad un certo punto deve cominciare a scalfire anche alcune parti dei circenses. A me, per lo meno, è capitato così, e per l’autunno si preannuncia periodo di magra (o di rana, come dice il mio ex capo). Ho sempre lavorato fin da quando facevo l’università. Negli ultimi anni sono stato un precario con stipendio fisso (anomalia, ne convengo). Ora sono precario tout court. E forse per un po’ vivrò la strana situazione di non avere un lavoro da fare, o avere dei periodi senza un lavoro da fare. Scommetto un pieno di benza che se avessi imparato a saldare ora non sarei qua a scrivere. Ma non si torna indietro, già.
In generale, c'è più tempo di ozio.
Lo sapete il contrario di ozio in latino? Negozio, negotium, ovvero nec otium, niente ozio. L’ozio era la condizione basilare, soggiacente. Se c’era un lavoro da fare, non era altro che un’intermittente interruzione dell’ozio. Cosa voglio dire? Non saprei, al momento non me lo ricordo. Però c’è più ozio per pensare. E ogni tanto non è così male. Aiuta a mettere le cose in ordine. Fine.
“Ciò che smarrisci ha due verità:
da un lato è nulla – e nulla esiste più;
dall’altro c’è la percezione che
rimanga sempre una tua proprietà”
mercoledì 19 settembre 2012
L'ennesimo libro della fantascienza: un ebook
[...] Urania, negli anni '80, aveva un famoso direttore coi controcoglioni, uno abbastanza pazzo per capire che la vita è un viaggio spaziale [...] Quel famoso direttore di Urania è morto lunedì 16 gennaio 2012, aveva 85 anni. Oggi, che è il 19 settembre 2012, [...] quel famoso direttore di Urania coi controcoglioni avrebbe compiuto 86 anni.L'ennesimo libro della fantascienza è un ebook collettivo. Le genti del cyberspazio sono state brave, ci hanno mandato un bel po' di racconti, due disegni e un fumetto; Isola Virtuale, che ha fatto la copertina, dire che è stato bravo è un po' riduttivo; e siamo stati bravi anche noi, che ce l'abbiam fatta a pubblicarlo in tempo, ché oggi ha un senso tutto particolare. È decisamente il libro elettrico più corposo di tutto il nostro catalogo, e la prima pubblicazione di genere in assoluto per noi barabbisti, anche presi singolarmente. Ma era una cosa che dovevamo fare.
L'ennesimo libro della fantascienza si scarica gratis, come al solito, nei tre formati elettronici classici: per gli amanti della carta e delle cose passate, in pdf (in A5, ma vi sconsigliamo di stamparlo); per tutti gli altri, uomini ben piantati nel presente e con la testa nel futuro, in epub e in mobi.
Questo libro di elettroni, che forse state leggendo da uno schermo e che magari stringete tra le mani aiutandovi con un apparecchio che fino a pochi anni fa stava solo nei libri di carta di cui eravate innamorati, questo libro elettronico intitolato L’ennesimo libro della fantascienza, è dedicato a Carlo Fruttero.
Ciao, Carlo, fai buon viaggio.
(dalla prefazione a L’ennesimo libro della fantascienza)
__________
Update delle 19:00: è online la versione 1.1, con qualche refuso in meno. Prendetela pure dai link lì sopra e sostituite i file che avete già scaricato, se li avete già scaricati.
Note:
1. Se trovate dei refusi, ditecelo al solito indirizzo, ché li mettiamo a posto il prima possibile: coi libri elettrici si può fare senza rovinare l'ecosistema.
2. Appena abbiamo un po' di tempo, un racconto alla volta lo mettiamo ne l'ennesimo blog della fantascienza, forse già a partire da domani.
martedì 18 settembre 2012
In Russia c'è da morir dal ridere (4)
Io, una cosa che forse non sapete, o forse la sapete, ma la ridico lo stesso, una passione che ho da quando ero bimbetto è quella di fotografare le targhe, le tombe e le statue. Avevo iniziato con la pellicola, poi sono arrivate le macchinette digitali e mi ero aperto un flickr, poi flickr voleva dei soldi e allora, adesso, dopo una pausa, continuo e coltivo questa mia bella passione su pinterest. Chiamiamola plate-watching. Ché, davvero, fotografando una lapide su un muro o una tomba in un cimitero o una statua dov'è la statua, quel che sento è di entrare in contatto col flusso della Storia, e le morte stagioni, e la perduta gente. Ma è un problema mio.
Comunque, ci sono alcune lapidi di cui vado particolarmente fiero, che poi son quelle che magari la gente che ci vive di fianco non si è mai neanche fermata per leggerle, come il monumento ai caduti della Grande Guerra a Recanati, o la targa che dice che l'inno polacco l'hanno inventato in piazza a Reggio Emilia, o quella di Ravenna dove si legge che Leopardi è stato lì un paio di settimane, penso in vacanza, a trovare un suo amico. Di solito, quando sono in giro, non me ne scappa neanche una. Finché non siamo andati in Russia. Ché là...
Non han mica tanto timore di passare per ridicoli, i russi, a mettere, per esempio, su un muro, il naso del maggiore Kovalev, e a metterlo a un'altezza tale che per vederlo devi stare, come dire, col naso all'insù. Oppure sulla prospettiva Nevskij, in una casa che ha una stanza in cui il 13 aprile 1917 Lenin era a una riunione dell'organizzazione militare del comitato di Petrogrado e dei membri del Comitato Centrale del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, e teneva un discorso sui metodi di propaganda tra i soldati? Bon, i russi ci mettono una targa. Durante il bombardamento di Leningrado, sempre sulla Prospettiva Nevskij, uno che abitava lì ha scritto con la vernice, su una colonna, "Cittadini! Durante i tiri di artiglieria questo lato della strada è il più pericoloso"? Bon, i russi ci mettono una targa e dei fiori. A Stalingrado non c'era rimasto più niente, a parte delle macerie e delle torrette di carro armato buttate lì? Bon, i russi tirano su le torrette e ci mettono sotto dei piedistallo di granito – ce ne sono un bel po', girando per Volgograd. Dostoevskij ha cambiato venti appartamenti in ventisei anni di residenza a Pietroburgo, giocandoseli d'azzardo? Bon, i russi han già venti targhe pronte da piazzare e, anzi, ventuno, ché una l'han messa anche sulla casa di Raskolnikov, e adesso van tutti a visitarla da fuori, e si vede che qualcuno prova anche a entrare dal portone, tanto che quelli che vivono lì ci han messo un cartello, "KEEP OUT", che è uno dei due o tre cartelli in inglese che ho visto in Russia. E un giorno anche quel cartello lì potrebbero rifarlo di marmo, secondo me son capaci, i russi.
Ma la lapide più bella, bellissima, meravigliosa, che ho portato a casa nella macchina fotografica è una scritta gigantesca che si trova a Mamaev Kurgan, il monumento gigantesco che c'è a Volgograd, quello con la statua umanoide più alta del mondo (al netto del piedistallo e buddah cinesi esclusi, che quelli, è comodo, son solo dei parallelepipedi con la testa), e la scritta gigantesca dice: "Un vento di ferro li colpiva in pieno viso ma continuarono ad avanzare, e ancora una volta il nemico fu assalito da una paura superstiziosa: erano umani coloro che li attaccavano? Erano mortali?". Che non sai bene se commuoverti o grattarti la testa, quando ci sei davanti. Sta in mezzo a delle statue che subito ti verrebbe da pensare che siano davvero incredibilmente brutte, e invece è ancora come dice la dottoressa mirumir:
Comunque, ci sono alcune lapidi di cui vado particolarmente fiero, che poi son quelle che magari la gente che ci vive di fianco non si è mai neanche fermata per leggerle, come il monumento ai caduti della Grande Guerra a Recanati, o la targa che dice che l'inno polacco l'hanno inventato in piazza a Reggio Emilia, o quella di Ravenna dove si legge che Leopardi è stato lì un paio di settimane, penso in vacanza, a trovare un suo amico. Di solito, quando sono in giro, non me ne scappa neanche una. Finché non siamo andati in Russia. Ché là...
...l'amore russo per le targhe e i monumenti è così esagerato che pare che l'amministrazione di Mosca in passato abbia emesso un'ordinanza che vieta di piazzarle arbitrariamente come viene viene; e infatti tendono a metterle anche nelle città italiane, con grande lavorìo burocratico e raccolta di soldi. Credo che la comunità russa di Bologna volesse mettere una bella targa a Venezia per Brodskij, ma pare che la vedova abbia detto di non essere affatto certa che lui l'avrebbe gradita...... mi ha detto un giorno la dottoressa mirumir – che tra l'altro ringrazio molto perché mi ha aiutato con le traduzioni delle lapidi, oltre che con i biglietti del treno Mosca-Volgograd che avevo comprato prima di partire e quindi, insomma, se ci dovessimo incontrare, io e la dottoressa mirumir, che non ci siamo mai visti in vita nostra, ma se ci dovessimo incontrare, la prima cosa che faccio sarà di offrirle delle gran vodke. Ed è proprio vero: i russi sono degli esagerati quando si tratta di posare delle targhe, delle lapidi e delle statue appena si libera un buco in una parete o in uno spartitraffico o in un parco pubblico – ma ce ne sono anche nei giardini privati, giuro.
Non han mica tanto timore di passare per ridicoli, i russi, a mettere, per esempio, su un muro, il naso del maggiore Kovalev, e a metterlo a un'altezza tale che per vederlo devi stare, come dire, col naso all'insù. Oppure sulla prospettiva Nevskij, in una casa che ha una stanza in cui il 13 aprile 1917 Lenin era a una riunione dell'organizzazione militare del comitato di Petrogrado e dei membri del Comitato Centrale del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, e teneva un discorso sui metodi di propaganda tra i soldati? Bon, i russi ci mettono una targa. Durante il bombardamento di Leningrado, sempre sulla Prospettiva Nevskij, uno che abitava lì ha scritto con la vernice, su una colonna, "Cittadini! Durante i tiri di artiglieria questo lato della strada è il più pericoloso"? Bon, i russi ci mettono una targa e dei fiori. A Stalingrado non c'era rimasto più niente, a parte delle macerie e delle torrette di carro armato buttate lì? Bon, i russi tirano su le torrette e ci mettono sotto dei piedistallo di granito – ce ne sono un bel po', girando per Volgograd. Dostoevskij ha cambiato venti appartamenti in ventisei anni di residenza a Pietroburgo, giocandoseli d'azzardo? Bon, i russi han già venti targhe pronte da piazzare e, anzi, ventuno, ché una l'han messa anche sulla casa di Raskolnikov, e adesso van tutti a visitarla da fuori, e si vede che qualcuno prova anche a entrare dal portone, tanto che quelli che vivono lì ci han messo un cartello, "KEEP OUT", che è uno dei due o tre cartelli in inglese che ho visto in Russia. E un giorno anche quel cartello lì potrebbero rifarlo di marmo, secondo me son capaci, i russi.
Ma la lapide più bella, bellissima, meravigliosa, che ho portato a casa nella macchina fotografica è una scritta gigantesca che si trova a Mamaev Kurgan, il monumento gigantesco che c'è a Volgograd, quello con la statua umanoide più alta del mondo (al netto del piedistallo e buddah cinesi esclusi, che quelli, è comodo, son solo dei parallelepipedi con la testa), e la scritta gigantesca dice: "Un vento di ferro li colpiva in pieno viso ma continuarono ad avanzare, e ancora una volta il nemico fu assalito da una paura superstiziosa: erano umani coloro che li attaccavano? Erano mortali?". Che non sai bene se commuoverti o grattarti la testa, quando ci sei davanti. Sta in mezzo a delle statue che subito ti verrebbe da pensare che siano davvero incredibilmente brutte, e invece è ancora come dice la dottoressa mirumir:
È un po' l'Est socialista, già a due passi da casa mia comincia la folle terra delle targhe e dei monumenti, per esempio la strada di ingresso a Nova Gorica è un vialone pensato per una megalopoli e fiancheggiato da busti di sconosciuti di volta in volta celebrati come "scrittore, poeta, alpinista", "glottologo, biologo, eroe del socialismo", "poeta, alpinista, pubblicista" e così via, da cui si ricava che questi scalavano e componevano come pazzi. È molto bello, cioè esteticamente molto brutto come tutti questi posti, ma molto bello.
lunedì 17 settembre 2012
L'ennesimo libro della fantascienza: esce dopodomani
Ci siamo quasi. In questo weekend ho finito di impaginarlo, almeno in pdf, e viste le dimensioni – 688 pagine in A5, con un bel po' di racconti (non li ho contati), due disegnini e un fumetto – ho seriamente rischiato che il file innescasse il processo di fusione nucleare che l'avrebbe trasformato in una piccola stella gravitante, insieme al nostro Sole, nei secoli dei secoli. Invece è andata bene, e L'ennesimo libro della fantascienza è una piccola nana bruna, e, se siamo bravi, appena finita la conversione in epub e mobi e dati gli ultimi ritocchi al tutto, dovrebbe uscire dopodomani, mercoledì 19 settembre, giorno dell'ottantaseiesimo compleanno di Carlo Fruttero.
La copertina è molto bella e ricca di significati, alcuni espliciti, altri difficili, molti casuali, forse un giorno ve li spiegheremo per bene. Intanto, mangiatela con gli occhi: l'ha fatta il maggiore esperto pangalattico di fotoritocco, Isola Virtuale. Click.
La copertina è molto bella e ricca di significati, alcuni espliciti, altri difficili, molti casuali, forse un giorno ve li spiegheremo per bene. Intanto, mangiatela con gli occhi: l'ha fatta il maggiore esperto pangalattico di fotoritocco, Isola Virtuale. Click.
venerdì 14 settembre 2012
In Russia c'è da morir dal ridere (3)
Mi sembra di aver letto da qualche parte che, come gli esquimesi han tante parole per dire “bianco” o “neve”, e gli aborigeni per dire “verde”, e gli italiani per nominare il nome di Dio invano, ecco, i russi devono avere una trentina di termini per dire “ubriaco”. Sarà per quello, penso, che uomini anziani, anziani per davvero, in Russia non ne abbiamo mica incontrati.
Le donne, invece, le donne anziane, anche anziane per davvero, ce ne sono dappertutto. Babushke, le chiamano. Vuol dire “donna anziana”, babushka, una parola che nei romanzi in italiano, spesso, traducono con “nonnina”. Spuntan fuori da tutte le parti, le babushke, e l'idea che ci siam fatti là è che le donne sopra i cinquant’anni siano tutte impiegate dello Stato. In ogni sala di ogni museo, in ogni stanza degli appartamenti dei vecchi scrittori, in ogni ufficio pubblico, c’è almeno una babushka seduta sulla sua seggiolina che controlla che tutti si comportino come si devono comportare; stan sedute lì, serie, con le loro parole crociate – che le parole crociate, in cirillico, sembran delle opere d’arte, proprio belle da vedere – o a sferruzzare qualche vestito per l’inverno, qualche sciarpa, un paio di calzini di lana, cose così. E sotto ogni scala mobile di ogni fermata della metropolitana – a San Pietroburgo, che i treni devono passare sotto la Neva, ci son delle scale mobili che non vedi mica il fondo – c’è una gabbietta di vetro con dentro una babushka che controlla da capo a piedi, senza disturbare, senza essere invadente, tutti quelli che scendono. E sulle vie principali, c’è pieno di baracchini dove vendono da mangiare, come in tutte le città, ma in Russia chi ti vende da mangiare nei baracchini sulle vie principali sono le babushke, che ti fanno gli hot-dog, i gelati, i blini, che son tipo crespelle ma diverse, le kroska kartoshka, che son delle patate ripiene di salse molto pesanti e molto buone. E a lato di ogni cantiere, per la strada, dove gli uomini giovani o di mezza età lavorano arrampicati sulle impalcature, ci son sempre due o tre babushke con la pettorina arancione catarifrangente a far da cordone umano e a dirti di passare a una certa distanza, per la tua sicurezza.
Non sanno una parola d’inglese, le babushke, ché son nate in un periodo sovietico che l’inglese a scuola non si studiava, e anche se hanno a che fare con migliaia di turisti tutti i giorni, tutte le ore, dal lunedì alla domenica, se c’è una cosa che ti voglion far capire, non so come mai, forse ti parlano direttamente al cuore, non lo so, ma le capisci subito, senza difficoltà; allora le ringrazi e loro ti sorridono sempre, con quel sorriso che san fare solo le signore anziane, grate a loro volta, non solo perché le hai trattate bene, ma perché sono contente di quello che fanno, del quadro che son lì a controllare, della stanza dello scrittore morto che son lì a preservare, dell'impalcatura che son lì a presidiare.
E sembra strano, camminando per la strada, ché non capisci come facciano le giovani russe quasi tutte alte, slanciate, sui tacchi vertiginosi, con delle forme da farti girar la testa, alcune bellissime, altre meno, ma in media sono molto belle, e sembra strano davvero, ma non capisci proprio come facciano queste giovani russe alte, slanciate e belle, sui tacchi a spillo, a diventar poi tutte delle piccole babushke quadrate. Sarà forse questo il segreto della matrioska. E comunque, quando le guardi, le giovani russe, forse è solo un’impressione mia, non lo so, ma hanno delle facce che o sono incazzate e punk come le Pussy Riot, oppure sembra che non sappiano mica dove andare a sbattere la testa.
Poi guardi le babushke, le signore anziane, le nonnine, con quel portamento, quella sicurezza, quei gesti decisi che non c’è dubbio, quando le guardi, lo capisci subito, ce l’hanno scritto nello sguardo che son loro, e nessun altro, da quelle parti là, a portare il peso della Russia sulle spalle.
Le donne, invece, le donne anziane, anche anziane per davvero, ce ne sono dappertutto. Babushke, le chiamano. Vuol dire “donna anziana”, babushka, una parola che nei romanzi in italiano, spesso, traducono con “nonnina”. Spuntan fuori da tutte le parti, le babushke, e l'idea che ci siam fatti là è che le donne sopra i cinquant’anni siano tutte impiegate dello Stato. In ogni sala di ogni museo, in ogni stanza degli appartamenti dei vecchi scrittori, in ogni ufficio pubblico, c’è almeno una babushka seduta sulla sua seggiolina che controlla che tutti si comportino come si devono comportare; stan sedute lì, serie, con le loro parole crociate – che le parole crociate, in cirillico, sembran delle opere d’arte, proprio belle da vedere – o a sferruzzare qualche vestito per l’inverno, qualche sciarpa, un paio di calzini di lana, cose così. E sotto ogni scala mobile di ogni fermata della metropolitana – a San Pietroburgo, che i treni devono passare sotto la Neva, ci son delle scale mobili che non vedi mica il fondo – c’è una gabbietta di vetro con dentro una babushka che controlla da capo a piedi, senza disturbare, senza essere invadente, tutti quelli che scendono. E sulle vie principali, c’è pieno di baracchini dove vendono da mangiare, come in tutte le città, ma in Russia chi ti vende da mangiare nei baracchini sulle vie principali sono le babushke, che ti fanno gli hot-dog, i gelati, i blini, che son tipo crespelle ma diverse, le kroska kartoshka, che son delle patate ripiene di salse molto pesanti e molto buone. E a lato di ogni cantiere, per la strada, dove gli uomini giovani o di mezza età lavorano arrampicati sulle impalcature, ci son sempre due o tre babushke con la pettorina arancione catarifrangente a far da cordone umano e a dirti di passare a una certa distanza, per la tua sicurezza.
Non sanno una parola d’inglese, le babushke, ché son nate in un periodo sovietico che l’inglese a scuola non si studiava, e anche se hanno a che fare con migliaia di turisti tutti i giorni, tutte le ore, dal lunedì alla domenica, se c’è una cosa che ti voglion far capire, non so come mai, forse ti parlano direttamente al cuore, non lo so, ma le capisci subito, senza difficoltà; allora le ringrazi e loro ti sorridono sempre, con quel sorriso che san fare solo le signore anziane, grate a loro volta, non solo perché le hai trattate bene, ma perché sono contente di quello che fanno, del quadro che son lì a controllare, della stanza dello scrittore morto che son lì a preservare, dell'impalcatura che son lì a presidiare.
E sembra strano, camminando per la strada, ché non capisci come facciano le giovani russe quasi tutte alte, slanciate, sui tacchi vertiginosi, con delle forme da farti girar la testa, alcune bellissime, altre meno, ma in media sono molto belle, e sembra strano davvero, ma non capisci proprio come facciano queste giovani russe alte, slanciate e belle, sui tacchi a spillo, a diventar poi tutte delle piccole babushke quadrate. Sarà forse questo il segreto della matrioska. E comunque, quando le guardi, le giovani russe, forse è solo un’impressione mia, non lo so, ma hanno delle facce che o sono incazzate e punk come le Pussy Riot, oppure sembra che non sappiano mica dove andare a sbattere la testa.
Poi guardi le babushke, le signore anziane, le nonnine, con quel portamento, quella sicurezza, quei gesti decisi che non c’è dubbio, quando le guardi, lo capisci subito, ce l’hanno scritto nello sguardo che son loro, e nessun altro, da quelle parti là, a portare il peso della Russia sulle spalle.
mercoledì 12 settembre 2012
Nel nome del padre (11) - Mio padre faceva il fabbro
Mio padre faceva il fabbro.
In questi giorni ho parecchio tempo libero. E il pensiero mi cade su mio padre.
Era il 2000 quando è morto. Più o meno in questo periodo. Faccio molta fatica a ricordare le date legate alle persone che mi sono care. Ho chiesto a mia madre. Era il 14 agosto. Per ricordarmi alcuni passaggi importanti della mia vita, li ho annodato ad eventi importanti e che si ricordano per forza. Tipo l’11 settembre 2001. Ecco: il settembre 2001, il mese e l’anno del crollo delle due torri, sono anche il mese e l’anno in cui morì mio fratello. Uno degli ultimi ricordi che ho di lui è proprio dell’11 settembre, il suo ingresso in cantina, mentre mi toglievo i vestiti della vendemmia, mentre dice: “Scoppia la terza guerra mondiale”. Quello è anche l’anno in cui mi sono messo con Agnese, che ora è mia moglie. L’anno dopo invece fu l’anno in cui morì mio nonno. Sempre tra Agosto e Settembre; la data precisa non la ricordo. E non mi va di chiederla a mia madre. Di conseguenza l’anno prima del 2001 fu l’anno in cui morì mio padre. Una roba così, più o meno. Tre anni di allegria a palate, comunque. Del tipo che se io fossi stato il mio vicino di casa avrei traslocato all’istante.
(Ho scritto quest’ultima riga e mi sono venute in mente altre robe pazzesche: nel condominio dove ora vive mia madre, e dove vivevamo tutti, qualche anno dopo che me n’ero andato di casa, un tizio nell’appartamento di fianco si è buttato dal balcone ed è morto; la moglie del tizio dell’appartamento di sotto è morta pure lei e suo marito, il vedovo, è morto tempo dopo per un infarto mentre era in auto in compagnia a fare le galanterie. Chiamala come vuoi…)
Ho capito che mio padre aveva qualcosa di serio quando trovai le pagine dell’enciclopedia medica di mia madre, infermiera da sempre, aperte sul tavolo della sala al lessema CERVELLO.
Ricordo che in ospedale facevo i quiz per la patente mentre lui era sul lettino. E che dopo una degenza abbastanza breve lo rimandarono a casa. Quell’estate non lavorai, avevo il compito di badare a lui. Era anche la stessa estate del mio primo concerto. Il gruppo si chiamava Mind the gap. Il primo concerto era in una festa parrocchiale. Alcuni pezzi nostri e delle cover (una era sicuramente dei Fun Love’n Criminal). Arriva il giorno, saluto papà, esco e vado a San Martino per il sound check. Dopo qualche ora mi telefona qualcuno. Ora non ricordo se era mia madre o la vicina di casa. Non ricordo neppure come fece a telefonarmi, forse avevo già un cellulare. Mio padre aveva avuto un altro ictus, era crollato a terra, e batteva coi pugni sul pavimento, la vicina ci aveva messo un po’ a capire che c’era qualcuno che chiedeva aiuto, io non c’ero, ero a suonare, al mio primo concerto, poi sono in ospedale, e c’è mia madre che mi dice una cosa decisamente americana del tipo: “Va a suonare, sono sicuro che lui vorrebbe così”, e io vado, con l’animo più o meno in pace, ma molto convinto che a mio padre gliene sarebbe fregato il giusto.
Ecco, ho cominciato a suonare così. E va avanti da una dozzina d’anni. Ancora non so se vantarmene o vergognarmene. Probabilmente nessuno dei due. È andata così, punto.
Agnese ogni tanto mi chiede com’era mio padre, dice che le spiace non averlo conosciuto. Io non so mai bene cosa dire. Mio padre faceva il fabbro. Per un certo aspetto dell’arte fabbrile mio padre era uno specialista, quasi unico. Continuò a lavorare anche dopo la pensione. Anzi, ricordo che per un certo periodo non lavorò una volta ottenuta la pensione. Poi la cosa lo prendeva malissimo e riprese a fare il fabbro. Era uno di quei tizi manuali, con il piano di lavoro in garage con la morsa stabile, le cassettiere piene, che con un trapano in mano ti appendeva di tutto. Non usciva spesso. Credo che uscisse solo una sera alla settimana. Andava alla bocciofila, in centro, a Correggio. Andava quasi sempre in bici. Non amava i guanti. Ho quest’immagine di mio padre in bici che pedala senza tenere il manubrio e si soffia sulle mani, lo sbruffo di fiato che prende forma nel gelo, e in testa quel cappello à la russa, con i due copriorecchie che si abbottonano sopra. Quel cappello è l’unica cosa che mi resta di mio padre. Si chiamava Italo. Il cappello invece si chiamava Slobodan. Ogni tanto d’inverno lo metto anche se mi va stretto.
Si può essere lanciati quanto si vuole, ma se vedi morire un padre o se vedi nascere un figlio, difficilmente vivrai cose più forti, ne sono quasi sicuro.
C’era questo odore di mio padre, che mi viene in mente ogni volta che chiacchiero con dei fumatori seri. E quel ruvido delle guance, quando ancora gliele accarezzavo, quando ancora gli stavo in braccio. Si faceva la barba tutti i giorni. Con un rasoio elettrico. Sempre lo stesso. L’affidabilità degli elettrodomestici di un tempo. Il momento in cui veniva a prendermi a scuola era la summa di queste due cose. Ero quasi sempre uno degli ultimi 3 a restare all’Istituto Contarelli fin verso le 18.00. L’Istituto Contarelli era una scuola di suore. Mio padre staccava attorno alle 17.30, prendeva l’auto e veniva a prendermi. Una fiat 500. Quando facevamo delle curve senza frenare le chiamava “curve a rapanello”.
Ecco una cosa che mi è rimasta di mio padre: le “curve a rapanello”; le faccio anch’io, con mia figlia, anche se le chiamo “curve gatto” e miagolo fortissimo per tutta la sterzata.
Arrivava tra le 17.30 e le 18.00 a prendermi al doposcuola, e immagino che si accendesse una sigaretta appena parcheggiato nel piazzale della scuola, e la gettasse di fianco al portone, prima di suonare il campanello. Noi sentivamo il campanello: o era mio padre, o era il padre di Gerardo, o era un genitore del terzo che restava oltre le 17.30 e che ora non ricordo. Italo entrava, io gli andavo incontro, quelle guance, e quell’odore, resteranno la sinestesia imperitura che sanciva la fine delle mie giornate di scuola a tempo pieno.
Credo di essere passato al lavoro da mio padre giusto un paio di volte, e non saprei dire perché. Era un posto sconveniente per dei bambini: scintille, fluorescenza delle saldature, polvere di ferro, calendari di donne nude. Se Agnese mi chiederà ancora di raccontarle qualcosa di mio padre potrei dire queste robe qui. Se mi chiede che tipo era le direi che era tranquillo, che amava cucinare il sabato mattina degli spaghetti al pomodoro e panna, che amava guarda il Gran Premio ogni domenica pomeriggio, con tanto di prove e qualificazioni nei giorni prima, e la moviola, il campionato, ma senza eccessivo zelo. Amava venirmi a vedere quando giocavo a calcio, e magari portarci in trasferta di tanto in tanto.
A pensarci, mi sale un po’ di dispiacere a pensare alle cose della mia vita che mio padre non ha fatto in tempo a vedere. L’idea che mi sto facendo è che tutte le cose più belle che ho vissuto, o almeno la maggior parte di esse, siano accadute dopo che lui è morto. Sono in grado di parlare e scrivere di mio padre senza piangere. Non so cosa significhi di preciso. Non significa un’assenza di affetto o di amore. Non ricordo nessun episodio in cui l’ho odiato. Ma neppure alcun episodio in cui sono stato estasiato dall’essere suo figlio.
Ricordo però che in certi casi mi sono vergognato, ad esempio del lavoro che faceva.
Perché tutto ciò? Dovrebbe saltare fuori nella seconda parte, se trovo ancora del tempo da perdere.
In questi giorni ho parecchio tempo libero. E il pensiero mi cade su mio padre.
Era il 2000 quando è morto. Più o meno in questo periodo. Faccio molta fatica a ricordare le date legate alle persone che mi sono care. Ho chiesto a mia madre. Era il 14 agosto. Per ricordarmi alcuni passaggi importanti della mia vita, li ho annodato ad eventi importanti e che si ricordano per forza. Tipo l’11 settembre 2001. Ecco: il settembre 2001, il mese e l’anno del crollo delle due torri, sono anche il mese e l’anno in cui morì mio fratello. Uno degli ultimi ricordi che ho di lui è proprio dell’11 settembre, il suo ingresso in cantina, mentre mi toglievo i vestiti della vendemmia, mentre dice: “Scoppia la terza guerra mondiale”. Quello è anche l’anno in cui mi sono messo con Agnese, che ora è mia moglie. L’anno dopo invece fu l’anno in cui morì mio nonno. Sempre tra Agosto e Settembre; la data precisa non la ricordo. E non mi va di chiederla a mia madre. Di conseguenza l’anno prima del 2001 fu l’anno in cui morì mio padre. Una roba così, più o meno. Tre anni di allegria a palate, comunque. Del tipo che se io fossi stato il mio vicino di casa avrei traslocato all’istante.
(Ho scritto quest’ultima riga e mi sono venute in mente altre robe pazzesche: nel condominio dove ora vive mia madre, e dove vivevamo tutti, qualche anno dopo che me n’ero andato di casa, un tizio nell’appartamento di fianco si è buttato dal balcone ed è morto; la moglie del tizio dell’appartamento di sotto è morta pure lei e suo marito, il vedovo, è morto tempo dopo per un infarto mentre era in auto in compagnia a fare le galanterie. Chiamala come vuoi…)
Ho capito che mio padre aveva qualcosa di serio quando trovai le pagine dell’enciclopedia medica di mia madre, infermiera da sempre, aperte sul tavolo della sala al lessema CERVELLO.
Ricordo che in ospedale facevo i quiz per la patente mentre lui era sul lettino. E che dopo una degenza abbastanza breve lo rimandarono a casa. Quell’estate non lavorai, avevo il compito di badare a lui. Era anche la stessa estate del mio primo concerto. Il gruppo si chiamava Mind the gap. Il primo concerto era in una festa parrocchiale. Alcuni pezzi nostri e delle cover (una era sicuramente dei Fun Love’n Criminal). Arriva il giorno, saluto papà, esco e vado a San Martino per il sound check. Dopo qualche ora mi telefona qualcuno. Ora non ricordo se era mia madre o la vicina di casa. Non ricordo neppure come fece a telefonarmi, forse avevo già un cellulare. Mio padre aveva avuto un altro ictus, era crollato a terra, e batteva coi pugni sul pavimento, la vicina ci aveva messo un po’ a capire che c’era qualcuno che chiedeva aiuto, io non c’ero, ero a suonare, al mio primo concerto, poi sono in ospedale, e c’è mia madre che mi dice una cosa decisamente americana del tipo: “Va a suonare, sono sicuro che lui vorrebbe così”, e io vado, con l’animo più o meno in pace, ma molto convinto che a mio padre gliene sarebbe fregato il giusto.
Ecco, ho cominciato a suonare così. E va avanti da una dozzina d’anni. Ancora non so se vantarmene o vergognarmene. Probabilmente nessuno dei due. È andata così, punto.
Agnese ogni tanto mi chiede com’era mio padre, dice che le spiace non averlo conosciuto. Io non so mai bene cosa dire. Mio padre faceva il fabbro. Per un certo aspetto dell’arte fabbrile mio padre era uno specialista, quasi unico. Continuò a lavorare anche dopo la pensione. Anzi, ricordo che per un certo periodo non lavorò una volta ottenuta la pensione. Poi la cosa lo prendeva malissimo e riprese a fare il fabbro. Era uno di quei tizi manuali, con il piano di lavoro in garage con la morsa stabile, le cassettiere piene, che con un trapano in mano ti appendeva di tutto. Non usciva spesso. Credo che uscisse solo una sera alla settimana. Andava alla bocciofila, in centro, a Correggio. Andava quasi sempre in bici. Non amava i guanti. Ho quest’immagine di mio padre in bici che pedala senza tenere il manubrio e si soffia sulle mani, lo sbruffo di fiato che prende forma nel gelo, e in testa quel cappello à la russa, con i due copriorecchie che si abbottonano sopra. Quel cappello è l’unica cosa che mi resta di mio padre. Si chiamava Italo. Il cappello invece si chiamava Slobodan. Ogni tanto d’inverno lo metto anche se mi va stretto.
Si può essere lanciati quanto si vuole, ma se vedi morire un padre o se vedi nascere un figlio, difficilmente vivrai cose più forti, ne sono quasi sicuro.
C’era questo odore di mio padre, che mi viene in mente ogni volta che chiacchiero con dei fumatori seri. E quel ruvido delle guance, quando ancora gliele accarezzavo, quando ancora gli stavo in braccio. Si faceva la barba tutti i giorni. Con un rasoio elettrico. Sempre lo stesso. L’affidabilità degli elettrodomestici di un tempo. Il momento in cui veniva a prendermi a scuola era la summa di queste due cose. Ero quasi sempre uno degli ultimi 3 a restare all’Istituto Contarelli fin verso le 18.00. L’Istituto Contarelli era una scuola di suore. Mio padre staccava attorno alle 17.30, prendeva l’auto e veniva a prendermi. Una fiat 500. Quando facevamo delle curve senza frenare le chiamava “curve a rapanello”.
Ecco una cosa che mi è rimasta di mio padre: le “curve a rapanello”; le faccio anch’io, con mia figlia, anche se le chiamo “curve gatto” e miagolo fortissimo per tutta la sterzata.
Arrivava tra le 17.30 e le 18.00 a prendermi al doposcuola, e immagino che si accendesse una sigaretta appena parcheggiato nel piazzale della scuola, e la gettasse di fianco al portone, prima di suonare il campanello. Noi sentivamo il campanello: o era mio padre, o era il padre di Gerardo, o era un genitore del terzo che restava oltre le 17.30 e che ora non ricordo. Italo entrava, io gli andavo incontro, quelle guance, e quell’odore, resteranno la sinestesia imperitura che sanciva la fine delle mie giornate di scuola a tempo pieno.
Credo di essere passato al lavoro da mio padre giusto un paio di volte, e non saprei dire perché. Era un posto sconveniente per dei bambini: scintille, fluorescenza delle saldature, polvere di ferro, calendari di donne nude. Se Agnese mi chiederà ancora di raccontarle qualcosa di mio padre potrei dire queste robe qui. Se mi chiede che tipo era le direi che era tranquillo, che amava cucinare il sabato mattina degli spaghetti al pomodoro e panna, che amava guarda il Gran Premio ogni domenica pomeriggio, con tanto di prove e qualificazioni nei giorni prima, e la moviola, il campionato, ma senza eccessivo zelo. Amava venirmi a vedere quando giocavo a calcio, e magari portarci in trasferta di tanto in tanto.
A pensarci, mi sale un po’ di dispiacere a pensare alle cose della mia vita che mio padre non ha fatto in tempo a vedere. L’idea che mi sto facendo è che tutte le cose più belle che ho vissuto, o almeno la maggior parte di esse, siano accadute dopo che lui è morto. Sono in grado di parlare e scrivere di mio padre senza piangere. Non so cosa significhi di preciso. Non significa un’assenza di affetto o di amore. Non ricordo nessun episodio in cui l’ho odiato. Ma neppure alcun episodio in cui sono stato estasiato dall’essere suo figlio.
Ricordo però che in certi casi mi sono vergognato, ad esempio del lavoro che faceva.
Perché tutto ciò? Dovrebbe saltare fuori nella seconda parte, se trovo ancora del tempo da perdere.
L'ennesimo blog della fantascienza
L'ennesimo libro della fantascienza, se siamo bravi, dovrebbe uscire mercoledì 19 settembre 2012, nel giorno del primo compleanno non festeggiato dal buon Fruttero, cui è dedicato tutto l'ennesimo libro.
Adesso, con un colpo di testa, abbiamo aperto questo:
lennesimoblogdellafantascienza.wordpress.com
Intanto, sbattetelo nel feed reader.
Poi forse lo aggiorniamo, in futuro.
Adesso, con un colpo di testa, abbiamo aperto questo:
Intanto, sbattetelo nel feed reader.
Poi forse lo aggiorniamo, in futuro.
lunedì 10 settembre 2012
Spudorate indicazioni di voto
Il meccanismo di votazione dei Macchianera Italian Awards è sempre stato una roba da matti. Quest'anno, poi, che c'eran 40 categorie obbligatorie, era anche una roba impossibile, pensare di votarle tutte. Per fortuna, i signori organizzatori delle Blogfest hanno deciso, la scorsa settimana, di togliere la regola che imponeva al votante di segnare la preferenza in tutte le categorie, riducendo la soglia minima del cinquanta percento.
Bene, adesso, visto che ieri sera addirittura una ragazza del Coro delle Mondine di Novi di Modena mi ha detto che lei voterebbe anche, ma non sa per chi altri esprimere la preferenza nei posti in cui non c'è Barabba (che, vi ricordo, sono le categorie: "Miglior sito letterario" e "Miglior articolo o post dell'anno", non sbagliatevi), ho pensato che fosse il caso di scrivere un post di servizio con i miei consigli (personalissimi) su dove, come e perché riempire le caselline di voto (almeno venti su quaranta, è un lavoraccio).
Se poi avete delle altre idee sensate o delle obiezioni ragionevoli, mettetele pure nei commenti.
Intanto, io farei così:
Allora votate, votate bene, votate il Many, votate Barabba. Si vota qui.
Bene, adesso, visto che ieri sera addirittura una ragazza del Coro delle Mondine di Novi di Modena mi ha detto che lei voterebbe anche, ma non sa per chi altri esprimere la preferenza nei posti in cui non c'è Barabba (che, vi ricordo, sono le categorie: "Miglior sito letterario" e "Miglior articolo o post dell'anno", non sbagliatevi), ho pensato che fosse il caso di scrivere un post di servizio con i miei consigli (personalissimi) su dove, come e perché riempire le caselline di voto (almeno venti su quaranta, è un lavoraccio).
Se poi avete delle altre idee sensate o delle obiezioni ragionevoli, mettetele pure nei commenti.
Intanto, io farei così:
- 1. Miglior sito 2012: Leonardo. Che è pure un barabbista e, comunque, non ci son santi. Anzi, valà, ci sono anche quelli.
- 2. Miglior Tweeter italiano: @azael. In linea di massima, la regola da seguire è questa: dove c'è Azael, votate Azael.
- 6. Sito rivelazione dell'anno: non che si tratti davvero di una rivelazione, nel 2012, ma se lo è stata per voi o per qualcuno, in generale, allora è indubbiamente la miglior rivelazione dell'anno. Sto parlando del sommo poeta torinese, Guido Catalano.
- 8. Tweeter più utile: @INGVterremoti, ça va sans dire, nostro malgrado, anche se spero di disintossicarmi, prima o poi.
- 9. Miglior articolo o post dell'anno: Many da Barabba: "Generi di prima necessità"
- 11. Migliore Community - Sito collettivo: mah, direi Altervista, ché mi ha ospitato, aiutato e intervistato.
- 12. Miglior Tweet dell'anno: Alessandro Clemente (@serena_gandhi): "Bere birra analcolica è come avere una selvaggia notte di sesso con l'accappatoio di Charlize Theron". Tra le altre cose, il signor Clemente è davvero un bell'uomo, e poi s'è sposato una gran signora.
- 14. Miglior sito di satira: cosa c'entrano le Poesie da Decubito con la satira? Niente. Ma voi, in linea di massima, dove c'è Azael, votate Azael.
- 15. Miglior battuta su Twitter: Azael (@azael): "Berlusconi dava a Ruby 47.000€ a settimana. Non 45.000 e non 50.000, ma 47.000€. Questo vuol dire essere depravati." Tutte le volte che la rileggo mi piscio addosso. E poi dovreste ormai saperlo che in linea di massima, dove c'è Azael, votate Azael.
- 16. Miglior sito Tecnico - Divulgativo: come ho detto l'anno scorso, io voterei Keplero, di Amedeo Balbi, ché parlar di fisica, astrofisica, cosmologia e cosmogonia così chiaramente a noi profani e ignorantoni è mestiere di pochi, tipo Stephen Hawking, per dire.
- 18. Miglior sito Cinematografico: io, la mattina, dopo il cappuccino, ché senza non sono identificabile come essere umano, ma dopo il cappuccino sì, allora la prima cosa che faccio è andare a leggere I 400 calci. Quest'anno, poi, han fatto pure le magliette per raccogliere due lire da dare ai terremotati. Se non li votate, son calci rotanti in faccia.
- 20. Miss Twitter 2012: @lapaolina. Perché sì, dai.
- 21. Mister Twitter 2012: @azael. Ormai siete esperti e in linea di massima, dove c'è Azael, votate Azael.
- 24. Miglior sito Musicale: ora non ricordo chi una volta disse «Fino al 1986 ci sono stati, ogni anno, due premi Nobel per la letteratura. Uno era quello assegnato dall'Accademia Svedese e consegnato all'"autore dell'opera letteraria più considerevole d'ispirazione idealista". L'altro era quello che non veniva consegnato a Borges.» Ecco, Polaroid è decisamente il Borges dei Blog Awards musicali.
- 25. Miglior sito Letterario: Barabba.
- 27. Miglior sito Politico - d'Opinione: anche dove c'è Leonardo, in linea di massima, votate Leonardo.
- 28. Tweeter più simpatico: in linea di massima, dove c'è Azael, votate Azael. Potete però fare un'eccezione, stavolta, @purtroppo.
- 29. Miglior Disegnatore - Vignettista: giunti sono il momento, lo spazio e l'èra d'incoronare il discendente e successore di Makkox. Zerocalcare.
- 30. Miglior sito di Viaggi e Turismo: NoBordersMagazine, ch'è davvero bello e interessante e fatto bene. E poi sono stati così sconsiderati, all'inizio dell'anno, da lasciare spazio anche al prode carlo dulinizo e al sottoscritto.
- 31. Tweeter più poetico: dove c'è Azael, in linea di massima, votate Azael. O @catalanoguido, in questo caso, se volete.
- 37. Miglior sito andato a puttane: Bravuomo, ché ci tiene davvero.
- 38. Miglior Podcast - Trasmissione online: dice la mia amica e scudiera Osvaldo che Feeder è il meglio del meglio, e io della mia amica e scudiera Osvaldo, di solito, mi fido.
Allora votate, votate bene, votate il Many, votate Barabba. Si vota qui.
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