giovedì 31 marzo 2011

Son fatto così (7)

Son fatto che magari mi vedi bello e pimpante sul palco, su un pulpito, mentre leggo delle cose, e canto, e ballo, davanti a della gente che mi punta gli occhi addosso, e poi parlo, e forse balbetto ma parlo, oppure sono brillantissimo o commosso, ma insomma, tengo la scena, finché son lì sul palco o sul pulpito, solo che, quando scendo, niente, andiamo a cena, dormo magari a casa tua, o tu a casa mia, e durante la cena, o la colazione, dopo che mi hai visto sul palco o sul pulpito a leggere, a cantare, a ballare, a parlare, niente, dopo son lì che non spiccico parola, e dentro di me sono contentissimo, ma fuori non si vede, son lì che guardo, che ascolto, che penso, anche se sembra che sia lì a farmi i cazzi miei, invece no, guardo, ascolto, penso, interagisco poco, che magari pensi che ci sia qualcosa che non va, qualcosa che è andato storto, che non torna, ma è perché sono un tipo silenzioso. E timidissimo. Son fatto così.

mercoledì 30 marzo 2011

Cicatrici: Chinesinho

[riceviamo e pubblichiamo la cicatrice di Marco Aprile detto "tokyoblues"; e ne approfittiamo per dire che, vista la mole di sfregi che ci state mandando, finirà che ci faremo un ebook, ma abbiate pazienza, ne parliamo dopo l'uscita di Schegge di Liberazione]

(Posizione)
Coscia destra, a metà fra inguine e ginocchio.

(Cause)
La vicina stendeva la biancheria in cortile. A quei tempi si diceva cortile, non giardino. Aveva un cane da caccia, marrone scuro, con un’aria vagamente baffuta. Io gironzolavo spesso da quelle parti, in bicicletta oppure in mutande, con il pallone in mano e la maglia della Juve, quella di Chinesinho, che aveva il numero arancione dietro. Il giorno non lo ricordo, ma era l’estate del 1968 e i Pink Floyd non li conoscevo ancora. C’è anche una foto di quel giorno, scattata poche ore prima che accadesse il fattaccio.

La vicina era alle prese con un grande lenzuolo verde e io le stavo fra i piedi. Avevo qualcosa in mano: mia madre sostiene che fosse una coscia di pollo. Piuttosto improbabile: era tardo pomeriggio e lei era in vacanza in Marocco. Io propendo per un gelato, o almeno per la cialda di un gelato. Il cane è lì vicino, mi annusa, fa per allungare il muso verso la mia mano, io faccio un movimento improvviso nel tentativo di scartare gli ipotetici avversari rappresentati dai pantaloni stesi ad asciugare.

Il cane impazzisce, mi agguanta, mi getta a terra. Sento soltanto un gran rumore. E poi un sapore di polvere. Qualcosa, qualcuno mi strappa via e inizia a correre sulla salita che porta in paese. Vedo passare giovani alberi a intervalli regolari. C’è puzza di pesce che arriva da una fabbrica lì vicino.

Poi tutto diventa verde, come il lenzuolo che la vicina stava stendendo prima.

(Conseguenze)
A dispetto dei vistosi segni che il cane mi ha lasciato sul volto, adoro i cani. Mi hanno fatto paura solo i doberman da quando avevo 7 anni a quando ne avevo 11. Così. La cicatrice mi fa sembrare uno con la cellulite. Il che non è bello, anche per un uomo.

di Marco Aprile "tokyoblues"

martedì 29 marzo 2011

Barabbisti laureati

Qualche ora fa la nostra Ilke Bab, emiliano-marchigiana che misura il tempo su un Pop Swatch del 1988 e ha una passione per i brontosauri e i libretti d'opera, ha conseguito la laurea specialistica in Linguistica italiana e civiltà letterarie, presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, con una tesi di laurea in Prosa e generi narrativi del '900 dal titolo "Il progetto letterario di Paolo Nori", voto centodieci su centodieci con tanto di lode e baci, abbracci e brindisi interminabili.

Noi altri barabbisti ci alziamo in piedi e applaudiamo con le lacrime agli occhi.

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Sul sito di Paolo Nori trovate una lunga intervista che è in appendice alla tesi di Ilke Bab. Qui, invece, c'è una rarissima foto che ritrae la laureanda mentre spiega la sua tesi di laurea alla sua tesi di laurea.

lunedì 28 marzo 2011

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Speciale pic-nic con i “Panini Fiorveluti”

FICHI FICHI (Panino francese lungo oppure una mini baguette. Un panino al latte oblungo va bene uguale)

Quando arrivano i fichi e il bel tempo, vi comprate qualche bel fico nero e, se volete togliendo la buccia ma io la terrei, lo aprite in due. Mettete UNA fetta di prosciutto crudo con il grasso sulla parte inferiore del panino. Ma UNA. Non di più. Adagiate sulla fetta un paio di fichi neri e metteteci sopra qualche noce. Chiudete il panino e mangiate dopo almeno quaranta minuti di attività fisica divertente al sole.

DIDJERIDOO (Pagnottina comune)

L’Australia non c’entra. È che è difficile da DIDJERIRE. Prendete una cipolla tropea rossa e tagliatela a fettine, piangendo. La tristezza è quella di non poterlo mangiare se avete problemi di stomaco. Altrimenti stendete dentro alla pagnottina. TUTTA. UNA CIPOLLA PER PANINO. Poi olio di oliva in abbondanza e via, pronti a saper di cipolla almeno per giorni.

CI VUOLE FEGATO (Pane arabo)

Tagliate del fegato a listarelle e soffriggetelo insieme a un po' di cipolla (poca) e del sugo di pomodoro. Fate un uovo sodo. Tagliate l’uovo sodo a fette e stendete tutto in un panino capiente, dopo aver magari tolto la mollica.

FORMA E SOSTANZA (Pane nero)

Lessate una patata e mettetela dentro a un panino, dopo aver spalmato di abbondante burro e molto sale le due estremità.

PORCO PANE (Panini bianchi piccoli)

Prendete delle fette di groviera e mettetele dentro al panino. Chiudete avvolgendo il panino in RETE DI MAIALE. Legate bene e poi FRIGGETELO in olio d'oliva. È una cosa da pazzi, dovrebbero vietarla ai minori e ai deboli di cuore. Però è buono, che ci crediate o meno.

domenica 27 marzo 2011

Pensieri in Apnea: Sul filo (Prospektiva bonus track)

Avevo letto da qualche parte una storia fantastica, pazzesca, che meritava certamente di essere inserita nel numero 52 di Prospektiva sulla Traversata, che stasera sarà presentato a Bologna, al Malazeni. Ma non ho fatto in tempo. Il riferimento l'ho perso. E mi era ormai passato di mente. Ma poi ho pensato che una storia così, anche senza darvi le coordinate precise, ve la devo raccontare tanto è incredibile. Più o meno fa così: Un tale, intorno alla metà dell'ottocento, con un nome inglese, danese, scandinavo o comunque molto nordico, è partito su una barchetta da solo e ha attraversato tutto l'Oceano Atlantico in qualche mese ed è stato il primo a farlo. E poi, il tale non sapeva nuotare. Fine. Io quando l'ho letto son sbalordito, son rimasto senza parole. Lo giuro, è tutto vero. Tutto l'Oceano Atlantico (la doppia maiuscola per sottolineare la vastità), senza sapere nuotare. Ho pensato che almeno due cose su come non affogare, nel caso un'onda più grande ti buttasse giù dalla barca, se le poteva far insegnare al porto, giusto prima di partire. Ma poi ho pensato, Ma vuoi mettere? È come stare in equilibrio sul filo senza sotto la rete di sicurezza e ti fai pure bendare. È come andare nella gabbia dei leoni che sono a stecchetto da una settimana e ti legano pure il braccio. È come buttarsi dalle cascate del Niagara dentro una botte e sei già ubriaco di whisky. È l'apice, la vetta. È il non plus ultra. È sboronaggine pura. Giorni e notti, settimane intere, forse mesi, non ricordo, sul pelo dell'acqua, sulla superficie, estasiato da un cielo immenso, sapendo che al primo accenno - plof - finisci giù in un buco blu talmente fondo da essere infinito e tanti saluti a tutti. Forse è questo il vero sublime dei romantici. La Ginestra e O Vesuvio di quel gobbo di Recanati. La bellezza e la morte in stretta compresenza. Nessuno che ti spiega chi, dove, come, cosa fare. Puoi solo fare, e sperarci in mezzo. Come nella vita.

sabato 26 marzo 2011

La dolce metà

Te l'hai mai vista La dolce vita?, mi dice lei, sei anni fa, oggi. Macché, le rispondo. Pensa che strano, mi fa, neanche io, eppure siam due tipi che ci piacciono i vecchi classici. Eh, dico io, è strano. Va bene, decide lei, andiamo a casa mia, ce l'ho in videocassetta. Era un periodo, quello, che ci eravamo conosciuti da poco, e stavamo alzati tutte le notti fino alle cinque del mattino, a casa sua, a bere delle birre, a suonare la chitarra, a far delle gran chiacchiere. Senza toccarci.

Allora siamo andati a casa sua, sei anni fa, oggi, abbiamo messo su la videocassetta, che non l'avevamo mai vista, e ci siamo messi a guardare quel cristo in bianco e nero che viene trasportato sui tetti della città da un elicottero. Stavamo seduti un po' distanti, ma neanche tanto, guardavamo la televisione. Senza toccarci.

Eravamo a metà del film, mi pare, sei anni fa, oggi, quando mi son sentito un bacio sul collo, che un bacio così, sul collo, in quel modo lì, non me l'aveva mai dato nessuno. È andata a finire che ci siamo toccati.

E son passati sei anni, oggi. Toccarci, non abbiamo più smesso. La dolce vita, invece, è ancora lì, sullo scaffale, vista a metà. Magari è anche un bel film, non lo so. Ma va bene così.

venerdì 25 marzo 2011

Cicatrici: Il drago

[riceviamo e pubblichiamo onoratissimi la cicatrice di Mitia Chiarin, che molti conoscono come la Fatacarabina alla testa del collettivovoci]

(Posizione)
Palmo della mano destra all’attaccatura del polso .

(Cause)
Un insetto. Un’ape, per la precisione. Era una di quelle domeniche d’estate, calde, e io dormivo nel lettone dei miei genitori, con tutte le finestre (tutte, erano due) aperte. Avevo sei anni e già amavo i materassi grandi in solitaria, quelli dove ti puoi muovere senza intralci e se ti piace nuoti e se ti piace scalci, e se hai un incubo e devi lottare con il drago, fai presto a usare il lenzuolo come uno scudo. Io dormivo e sentivo un fastidio al polso e nel mio sognare, ricordo, avevo pensato che era meglio non svegliarmi per vedere cosa succedeva e ho continuato a dormire perché nel sogno avevo una cosa da finire. Ero alle prese col drago, una specie di Godzilla ma più snello, con una coda lunghissima. Io non so bene cosa sia successo, ma quello mi ha addentato il polso. E ho urlato, e allora mi sono svegliata, con il lenzuolo sulla faccia e il braccio destro steso sul cuscino, e quando ho girato la testa per guardarlo c’era la tela del cuscino bianco tutta macchiata di sangue e francamente io ci ho messo un attimo prima di rendermi conto che quel rosso era sangue, perché pensavo di stare ancora sognando e che fosse la conseguenza della lotta con il drago. E invece no, il sangue usciva dal palmo della mia mano e c’era una cosa che si muoveva, che camminava tirando e rompendo la pelle e quella era una piccola ape.

Piccola, meticolosa, laboriosa. Mi ha camminato sotto pelle per due, tre centimetri, decisa come era a non smettere di andare dove voleva, e ci ha messo un pochino a morire soffocata nel mio sangue, prima che io la notassi. Si era posata sul cuscino, le era arrivata addosso la mia mano, lei si è difesa. Mia madre me l’ha raccontata così, ma lei non c’era, in camera, era a far non so che in cucina. L’ape poi l’hanno tolta e buttata, morta, in giardino e io ho pensato che era davvero minuscola eppure mi sapeva fare male. Quanto il drago dei miei sogni.

Ci sono voluti alcuni punti e un lungo pianto con il moccio al naso, mentre mamma mi consolava, per tranquillizzarmi. Il gonfiore è durato un giorno.

(Conseguenze)
Il segno è lì tra palmo e polso della mano destra. È un mio tratto, adesso, come i capelli arruffati. Le api mi sono simpatiche. Bisogna portarci rispetto tanto quanto ai draghi. Come combattenti, non sono niente male.


di Mitia Chiarin “Fatacarabina”

giovedì 24 marzo 2011

Dialettica (9)

"Ma si porta?"

E la riposta potrebbe essere "Sì", "No" oppure "Eh? Si porta non esiste nel nostro lessico" e in quest'ultimo caso l'interlocutore abita il Centro-Nord Italia.

Portarsi, portare un atteggiamento o un modo di fare è cosa da terroni: prende le mosse dalla moda, dall'abitudine: è come mettere un vestito - metaforicamente - e poi sfoggiarlo, riconoscerlo in qualcun altro durante lo struscio pomerdiano o al bar per l'aperitivo.

Biografie essenziali (di traversatori)

[le biografie essenziali che seguono sono state pubblicate sul numero 52 della rivista letteraria Prospektiva; domenica 27 marzo le leggiamo, insieme ad altre belle cose di Prospektiva, al Malazeni di Bologna, dalle ore 22, dirigerà l'orchestra il maestro Fabrizio Gabrielli, mente eccezionale e gran brava persona]

Cristoforo colombo partì dall'Europa e attraversò l'oceano per arrivare in America, guadagnò la fama mondiale. Charles Lindbergh partì dall'America e attraversò l'oceano per arrivare in Europa, guadagnò la fama mondiale. Quella che si dice una strategia Win-Win.

Evemero affermò che gli dèi erano un'invenzione dell'uomo. Per dirlo, si inventò un viaggio nell'Oceano Indiano, coerentemente.

Ernest Shackleton voleva attraversare l'Antartide con la sua nave, proprio attraversarla da qua a là tagliandola per il mezzo. La nave rimase incastrata nel ghiaccio e fu salutato come eroe; quelli che gli avrebbero tirato delle sgamufflate sul coppino dicendogli Bravo il pirla! erano in inspiegabile minoranza.

Pietro Savorgnan di Brazzà fu l'unico esploratore europeo a traversare l'Africa coloniale senza sporcarsi di sangue umano.

Caronte, supercafone, andava de qua e de llà.

A Willem Barents non glielo avevano detto, ma sospettava ci fosse un mare di strada da percorrere.

Gli antenati degli indiani d’America attraversarono lo stretto di Bering a piedi secoli e secoli prima di Vitus Bering in nave. Ma i bianchi sono sempre convinti che loro fan le cose meglio.

Roald Engelbregt Gravning Amundsen condusse la prima esplorazione che raggiunse il Polo Sud. Morì per un gesto troppo Nobile.

Di Hernan Cortes si può dire molto, però di certo cortese, no.

Il poeta inglese Lord Byron si fece a nuoto l'Ellesponto per verificare se fosse credibile il mito di Ero e Leandro. Una traversata leggendaria lunga un miglio.

Mike Horn, quando l’ha scoperto, c’è rimasto male.

Dante Alighieri attraversò l'inferno, il purgatorio e il paradiso per vedere Dio e, quando arrivò da Dio, chi era Dio? Dante Alighieri.

Julio Argentino Roca partì alla conquista del deserto. Che non era deserto, ma lo diventò.

Simbad il marinaio dove esattamente sia stato non lo ha capito nessuno. Ma lo hanno raccontato benissimo.

Marcel Proust, seduto sul letto, attraversò tutta la sua vita. E dato che era un precisino, morì subito dopo la parola "Fin".

Pitea di Marsiglia arrivò fino in Inghilterra, ma disse che era una terra piena di mostri. Da allora i Britannici considerano i Francesi un po' spocchiosi.

Pico della Mirandola esplorò i meandri della memoria ma si dimenticò perché.

La più importante traversata di Walter Raleigh fu quella di una pozzanghera in compagnia della regina.

Henry Morton Stanley attraversò l'Africa Orientale da Zanzibar al lago Tanganica per incontrare il dottor Livingstone. Presumo.

Magellano traversò lo Stretto di Magellano. Che favolosa coincidenza!

Molti, per diventar famosi, van per mari, oceani, paludi, impervie catene montuose o deserti sterminati. Ai Beatles, che, tra l'altro, nel 1969 famosi già lo erano, sono bastate delle strisce pedonali.


(di: Many, Ilke Bab, Cratete, stark, mc, astrid/astridula, Galatea, chamberlain, corax, Omar Degoli, F., cicciorigoli)

martedì 22 marzo 2011

Cicatrici: Sulla scatola c’è scritto giusto

(Posizione)
Zigomo destro, dito indice sinistro.

(Cause)
Gli occhiali da ciclista sono una cosa bellissima, da fighi, sempre alla moda, con le lenti a specchio, e quand'ero esordiente avevo i Briko con la montatura gialla e le lenti a mosca a specchio blu. Adesso che sono negli allievi, però, mi compro proprio gli Oakley, piccoli e stretti, con la montatura leopardata viola-blu cangiante e le lenti rosso-fuscia che più a specchio non si può. Diobono che fighino che sono.

Nella squadra mi fan tutti i complimenti, pedalo in gruppo con la coda di pavone, degli occhiali così ce li hanno solo i campioni e ce li ho io, anche se non sono un campione, ma mi stimo lo stesso, come si dice.

Siamo ai piedi del Po, tipo a San Benedetto Po, non mi ricordo, la gara è tutta pianeggiante e partiamo a schioppo, compatti, cinquanta all'ora da subito. Il circuito è di una decina di chilometri, lo dobbiamo fare sette o otto volte, sappiamo che si arriverà in volata e siam tutti lì, tutte le squadre, a tirare come dei cavalli, a galoppare, scatti e controscatti che vengono subito tamponati dai treni monocromatici della squadra di turno, ognuno ha il suo velocista da portare alla fine della corsa, da lanciare ai settanta all'ora verso la riga bianca del traguardo. Non c'è neanche vento, oggi, c'è il sole, siamo in piena estate e abbiamo due borracce a testa: una per bagnarci la testa, una per placare il bruciore in gola.

Siamo al terzo giro, circa, e sono in mezzo al gruppo, le ruote ogni tanto si toccano, ma ci hanno insegnato fin da piccoli a non aver paura, che non succede niente. C'è talmente caldo che qualcuno ha già finito l'acqua da bere, qualcuno come quello di fronte a me che chiede un sorso a quello di un'altra squadra che gli sta di fianco. Figurati se non ti do un goccio d'acqua, dice quello a quell’altro, e allunga una mano tra le gambe per prendere la borraccia.

Solo che qualcosa non va, non capisco, lo vedo mentre cade. Stiamo facendo i sessanta all'ora. Circa.

Quando il gruppo è compatto e quello di fronte a te cade, non c'è niente da fare, gli vai sopra: gli vado sopra. La ruota davanti s'incaglia nella sua bicicletta e la mia, di biciclette, s'impenna al contrario, mi sbalza come un cavallo che mi vuole disarcionare, i piedi si sganciano dai pedali e da quel momento io e la mia bici prendiamo due strade diverse: lei finisce sul malcapitato e poi ruzzola nel fosso; io mantengo una parabola nella direzione della corsa e volo. Dura pochissimo, il volo, ma mi lascia il tempo di pensare che non sto tenendo le mani avanti, che mi sto tuffando in un modo un po' scomposto, che non va mica bene se finisco a terra così.

L'ultima cosa che sento è l'urto della mia faccia contro l'asfalto. L'ultima cosa che ricordo è un grosso flash negli occhi. E poi il buio.

***

Il seguito del racconto lo estrapolerò dai filmati di Telereggio, perché mentre aspettiamo l'ambulanza c'è un cameraman che mi inquadra per due o tre minuti, anche cinque, forse. Nelle immagini che ho poi registrato su una cassetta vhs dalla televisione, qualche sera dopo, si vede un ragazzino della Ciclistica Novese Confezioni Carsil che sta lì per terra coricato senza muoversi, si vede un po' di gente che gli si fa intorno senza toccarlo, si vede un casco spaccato per il lungo che fortunatamente ha assorbito l’urto e si è spaccato in due, si vede la guancia del ragazzino sull'asfalto, si vede una mano buttata un po' a caso col palmo rivolto verso l'alto, si vede un lago di sangue allargarsi a una velocità inconcepibile, da quella mano.

Poi non si vede più niente, ché arriva l'ambulanza e il cameraman lo mandano via.

***

La prima cosa che sento al risveglio è un odore di alcool e medicine, la prima cosa che vedo è una luce fortissima che mi punta negli occhi, le prime parole che sento sono "stai fermo", le seconde "stai fermo, che non ti abbiamo fatto l'anestesia", le prime sensazioni sono dei pizzicorini in faccia, la pelle che tira, mi stanno dando dei punti.

Un'ora dopo mi sono ripreso. C'è lì il mio direttore sportivo, mio padre, che parla col medico e gli dice No, mio figlio viene a casa con me, non lo ricoverate mica, dove devo firmare? E poi firma. Io ho una mano fasciata, mi han detto che l'ho strisciata sull'asfalto e che l'unghia è saltata via di netto, mi dicono che non è niente di grave, ma da dove c’era prima l’unghia esce molto sangue e devo tenere il tampone ben pigiato.

In faccia mi han dato dei punti. Sei. Io non me li vedo e non mi alzo per andare allo specchio perché ho la nausea per via del trauma cranico. Dicono che gli occhiali sono entrati nello zigomo, senza rompersi, infrangibili come c'era scritto sulla scatola quando li ho comprati, e dicono che nella carne dello zigomo sono entrati con la montatura e tutto. Quando me li ridanno, quei begli Oakley, piccoli e stretti, con la montatura leopardata viola-blu cangiante e le lenti rosso-fuscia che più a specchio non si può, non hanno nemmeno un graffio. Diobono che culo che ciò avuto.

(Conseguenze)
L'unghia, poi, è ricresciuta tutta, forte e sana. Ho passato qualche mese a bullarmi con le amiche per la mia ferita di guerra al dito, quel brutto indice col moncherino d'unghia che pian piano ricresceva e quella cicatrice di un centimetro che arriva fino al centro della prima falange. Oggi mi bullo meno, ma quando lo racconto, il fatto dell'unghia e di quanto sangue può uscire da un dito che è una roba che uno non ci crede, la gente fa sempre delle facce come se il loro cervello non la concepisse, una cosa così.

Anche nello zigomo, dopo che han tolto i punti, è rimasta la cicatrice, una cosa come Capitan Harlock, che una volta si vedeva di più, ora ci son cresciuti sopra due nei, sarà l'età, ma la pelle è tornata morbida. Se ti avvicini alla mia faccia la vedi. Se poi mi chiedi che occhiali devi comprare, per andare in bici, ti rispondo che se prendi degli Oakley vai sul sicuro, che son fighinissimi e che magari non ci perdi un occhio se finisci con la faccia sull'asfalto ai sessanta all'ora, che sulla scatola c'è scritto giusto: infrangibili.

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Bocconcini a muso giallo in versi

Prendere dello spezzatino,
Di maiale o di bovino.
Che qualcuno non vi senta, la mattina,
Se, ovviamente di polenta, comperate la farina.

Abbondante vino rosso
Versa come fosse un fosso
E poi lascia ad aspettare
La sua carne a marinare.

Una notte con le spezie e con il vino,
Chiodi di garofano e timo, alloro e rosmarino.
Uno spicchio d’aglio schiaccia,
Si sa mai che a qualcuno piaccia.

Or la carne passa nella farina di polenta,
Impana bene, finché non si spaventa
Qualcuno che assiste e resiste al tuo gioco,
Mentre l’olio in gran padella frigge, poco a poco.

Butta poi il bocconcino, fino a quando sia dorato
Come fosse un bel mattino, dal un bel sole illuminato.
Non per dissentire, ma ben cotto lo si può pure preferire,
Come il sole all’imbrunire quando sfatto va a dormire.

Di contorno, in questo giorno, servirei delle carote.
Qualche sedano, olio e aceto, le patate bollirete
Con l’aceto sparso sopra,
Ma non troppo, ché non copra.

Il piatto è ormai finito,
Resta da dir “Buon appetito”.

lunedì 21 marzo 2011

Di come siamo andati da Zero a 150 in due ore

L'altra sera, lo sapete, abbiamo raffazzonato delle letture in fretta e furia per il 150esimo compleanno dell'Italia. È andata bene, c'era Klaus Aughentaler che metteva i dischi tra una lettura e l'altra, c'era DemonLater che missava Edwige Fenech col neorealismo italiano sullo schermo alle nostre spalle, c'eran simone rossi e Bicio ad accompagnare le letture, c'era un'aria tranquilla e c'era la birra. C'eravamo anche noi lettori, con qualche ospite, come andiamo di seguito ad elencare riportando fedelmente la scaletta stilata dal buon carlo dulinizo, regista e conduttore della serata, con lettori e letture (tra parentesi ci sono i nickname, se siete di quelli che bisogna spiegargli sempre tutto):


  • Federico Fioresi: il 6 canto del Purgatorio di Dante
  • Elena Marinelli (osvaldo): considerazioni sulla Lutazia, da "Kammerspiel" di Paolo Colagrande
  • Caterina Imbeni (grushenka): la rivolta del fumo del '48, da "Daghela avanti un passo" di Luciano Bianciardi
  • Federico Fioresi: "Marzo 1821" di Alessandro Manzoni
  • Caterina Imbeni (grushenka): l'incontro di Vittorio Emanuele e Garibaldi, da "Ai miei cari compagni - diario inedito di un neo-garibaldino" di Luciano Bianciardi
  • Federico Fioresi: il secondo coro dell'"Adelchi" di Alessandro Manzoni
  • Caterina Imbeni (grushenka): l'unità d'Italia e la questione meridionale sempre di Luciano Bianciardi
  • Leonardo Tondelli (leonardo): declamazione imprescindibile del "Giuramento di Pontida" di Giovanni Berchet
  • Marco La Cascia: "Libera Nos a Malo" di Luigi Meneghello
  • Marco Manicardi (il Many): di come "La bella Gigogìn" divenne l'inno ufficiale della spedizione dei mille, da "I Mille - da Quarto al Volturno" di Giuseppe Bandi
  • Elena Marinelli (osvaldo): Mazzini represso sessuale, da "Storia della Russia e Dell'Italia" di Paolo Nori e Marco Raffaini
  • Leonardo Tondelli (leonardo): l'Inno di Mameli rivisitato da lui stesso
  • Marco Manicardi (il Many): "Io se fossi Dio" di Giorgio Gaber
  • Luca Zirondoli (carlo dulinizo): "Bum Bum Bum" da "La donna che si baciava con i lupi" di Guido Catalano
  • Marco Manicardi (il Many): chiusura con "Per il mio Paese" di Silvio Berlusconi, 26 gennaio 1994

Qui ci sono anche delle foto. È andata così bene che ci han chiesto di fare una cosa simile, sempre lì al Mattatoio di Carpi, anche il 2 giugno prossimo venturo. Tenetevi liberi.

venerdì 18 marzo 2011

Cicatrici: Gradi, angoli, spigoli

[riceviamo e pubblichiamo gongolando la cicatrice del piccolo Chetti, detto Simone Marchetti, detto Chettimar]

(Posizione)
Sopracciglio sinistro.

(Cause)
“Questione di centimetri”.

Chiunque sia abituato alle telecronache direbbe “questione di centimetri”. La differenza che passa fra un gol e un tiro fuori di poco, fra un lancio errato e una presa sicura.

Inizio estate. Otto o nove anni, non ricordo di preciso. Erano ancora tempi in cui si andava tre mesi alla casa al mare o in montagna e io, che di casa avevo quella dove abitavo e basta, non trovavo un amico che fosse uno con cui giocare. Rimanevamo io e il mio pianoforte ad annoiarci a vicenda coi nostri esercizietti di tecnica, prova l’accordo, ripeti quel salto ché non ti viene bene, do-re-mi-fa-sol-fa-mi-re-do a sfinimento. Ogni tanto c’era l’eccitazione di uscire di casa “così andiamo a prendere il gelato al bar in fondo alla via”, ma quei cinquecento metri sembravano infiniti: i calzini che ti si appiccicavano ai piedi, le palpebre impastate di sudore, mio padre che tentava di asciugarsi la fronte col dorso della mano. Arrivavamo a casa in tempo per vedere la tappa del Tour de France col fiatone, il gelato piantato sullo stomaco e l’unico desiderio di bere almeno tre litri d’acqua a testa.

Anche quello era un pomeriggio di caldo atroce, di quelli in cui l’aria per l’afa diventa semisolida. Mia madre si stava lamentando del tempo con la vicina, “forse dopodomani piove, ma chissà” e io non capivo perché si dovesse protestare così tanto per qualcosa che è al di fuori del nostro controllo, né tantomeno perché dopo qualche giorno di temporali i discorsi si trasformassero magicamente in “eh, ma che schifo, ormai l’estate è finita”. Vedendo la porta aperta, mi sono inventato un gioco per far trascorrere almeno altri cinque minuti. Tipo mondo, o campana, dipende dal luogo ma da me si chiama mondo, non disegnando lo schema col gesso sul marciapiede ma usando le piastrelle del pavimento: una piastrella, una casella, e bisognava arrivare al piano terra.

Piastrella, piastrella, piastrella, piastrella, zerbino, piastrella, piastrella, ringhiera, gradino.

Ho sceso un gradino, ne ho sceso un altro, alla fine sono arrivato sul pianerottolo. C’era una finestra con gli infissi in alluminio, lasciata aperta per dare un’illusione di fresco.

(Io la visione d’insieme non ce l’ho di natura, l’ho maturata con gli anni. Ogni tanto finisco per concentrarmi su singole cose specifiche, il mio cervello è un angolo acuto, condensa i suoi raggi in un punto specifico come uno specchio ustore, quando gioco a scacchi vedo un’area di quattro caselle per quattro e non mi accorgo mai quando mi fanno scacco matto.)

Piastrella, piastrella, ringhiera, gradino, adesso dev’esserci il gradino, perché non c’è il gradino? Cosa non ho visto? Cosa mi sono dimenticato di vedere?

Quando lo spigolo dell’infisso in alluminio della finestra del pianerottolo mi si è infilato nel sopracciglio, aprendolo in due come uno spicchio di mandarino, non ho avuto il tempo di pensare “e se fosse finito un centimetro più in basso?”. Ho salito di corsa le scale tenendomi l’occhio con la mano, lasciando una scia di gocce di sangue tipo Pollicino, però pulp. Mia madre ha sbiancato, mi ha chiesto “com’è successo?”, “ho preso lo spigolo della porta del pianerottolo” ,“ci vedi?”, “sì, ho tutto gonfio ma ci vedo”, “fammi vedere”, “ahia, mi brucia”, “ma potevi cavarti un occhio”. Mamma, questione di centimetri.

(Conseguenze)
Una mia ex mi diceva che quella cicatrice sul sopracciglio era molto sexy. Dovevo iniziare a farmi delle domande quando una sera mi ha chiesto di vestirmi da Jack Sparrow.

di Simone Marchetti "Chettimar"

giovedì 17 marzo 2011

150 anni di riposo

La tristezza si faceva particolarmente viva e dolorosa, alla mattina del ventisei d'ottobre, a Teano, quando Garibaldi e il Re Vittorio Emanuele II si incontrarono.
Si videro passare begli squadroni di cavalleria, elmi lucenti, artiglieri coi pezzi trainati, e la coda di crine pendente dal chepì. Poi, all'improvviso, in fondo alla strada rullio di tamburi, squillar di trombe, luccichio di corazze, di elmi argentati, e gran polverone: arriva il Re. Garibaldi si levò di capo il berrettuccio tondo e gli andò incontro con la mano tesa:
«Salute al Re d'Italia».
Una scena così, tra poco verrà affrescata dentro al palazzo comunale di Siena, dal pittore Pietro Aldi, e tutti i ragazzi delle scuole elementari la vedranno e si convinceranno che le cose siano andate proprio così.
Invece non è vero, le cose si svolsero in maniera diversa, fu piuttosto una scena goffa e impacciata. Il Re carezzava il collo del suo storno bellissimo e non sapeva cosa rispondere al saluto. La cavalla di Garibaldi, frastornata dal chiasso e dai colori, scartava. Si misero a fianco, in testa al corteo. Certi contadini che erano usciti dalle casupole a guardare tendevano il dito verso Vittorio Emanuele e gridavano «viva Garibaldi», convinti che don Peppino fosse il più lustro dei due, quello coi gran baffoni e il viso rosso. Vittorio Emanuele diventò anche più rosso per lo scorno e spinse al galoppo. Per un momento gli uomini del seguito, camicie rosse e spalline argentate, si confusero, ma presto furono separati, come due liquidi di diversa intensità dopo essere stati agitati in un vaso.
La cavalcata raggiunse un ponticello, senza che nessuno scambiasse una parola, poi i due liquidi incompatibili si divisero per sempre. Vittorio Emanuele ritornò verso Teano.
Garibaldi scese a un'osteriola, lì sul ciglio della strada, entrò sotto il portico, sedette su una panca, dinanzi a un barile ritto. Gli misero sopra un pane, una fetta di cacio e un boccale d'acqua. Ne prese un sorso e la sputò:
«Dev'esserci nel pozzo una bestia morta da tempo» disse.
Il giorno dopo scrisse una lettera al Re, deponendo il potere nelle sue mani. Concludeva con una preghiera:
«Io Vi imploro... che accogliate nel Vostro esercito i miei commilitoni che hanno ben meritato di Voi e della Patria».
Da dieci giorni - ma noi ancora non lo sapevamo - Garibaldi non era più a capo dell'esercito meridionale: aveva ceduto i poteri a Giuseppe Sirtori, «abbisognando di alcuni giorni di riposo».

(Luciano Bianciardi, Ai miei cari compagni - diario inedito di un neo-garibaldino, Stampa Alternativa, 2007; pagg. 135-136)

mercoledì 16 marzo 2011

Qui si fa Barabba o si muore

Dalle nostre parti si dice che Ciro Menotti, migliarinese e quindi carpigiano - anche se questa è una frase pericolosa, se la dici in giro, a Carpi - Ciro Menotti, quello che ha dato un po' il via a tutta la serie di eventi che in trent'anni ha portato all'Unità, si dice insomma che Ciro Menotti, quando il Duca di Modena lo catturò dicendogli Arrenditi!, lui si girò a guardarlo cattivo, che erano anche quasi amici, prima di trovarsi nemici, si girò cattivo e gli disse in faccia Arèndet tè, duchèin ed mérda (arrenditi tu, duchino di merda).

Che non si dica che noi barabbisti non abbiamo a cuore le sorti dell'Italia unita, perché ci vedrete abbastanza impegnati, nei giorni che verranno. Sarà una raffica di appuntamenti dal vivo e di cose lette con spiccato accento emiliano, sicché, se non avete degli impegni inderogabili, venite pure a leggere con noi e a tintinnare bordi dei vostri bicchieri coi bordi dei nostri.

(17 marzo) da Zero a 150 in due ore
Al Mattatoio di Carpi, quel circoletto ARCI che ci ha già ospitati con Schegge di Liberazione e Cronache di una sorte annunciata, la banda dei briganti barabbisti leggerà un po' a caso, e senza una preparazione adeguata, delle cose sui centocinquant'anni del nostro stivale prese da libri, trattati politici, canzoni e blog. Conduce il garibaldino carlo dulinizo aiutato da quel sicofante del Many; ci sarà simone rossi a strimpellare, grushenka a bianciardare, Klaus Aughentaler a giocare con inni e dischi irredentisti, DemonLater a mischiare filmati neorealisti. Dalle 19 alle 21. Qui l'evento nei dettagli, su facebook.

(18 marzo) la centoventotto rossa
Il nostro caro osvaldo, cioè l'elena, parcheggerà la sua centoventotto rossa alla Tenda di Modena, ai bordi del Parco Novi Sad, dove c'è anche il Foro Boario in cui Luigi Righi raffigurò il suo Allegorie delle Armi, della Fertilità, delle Arti e del Tempo. In breve, dalle 21 in poi, osvaldo, cioè l'elena, leggerà insieme ad altri barabbisti tipo carlo dulinizo e il many, dei brani del suo libro autoprodotto, autodistribuito e automunito. Ad accompagnare il tutto, il solito chitarrino di simone rossi e il consueto contrabbasso del Bicio. Qui i dettagli.

(19 marzo/1) che fai, reading?
Ieri sera abbiamo chiuso i battenti per la partecipazione al nuovo Schegge di Liberazione. Ma l'ebook del 2010 è ancora lì e viene quotidianamente scaricato e letto dalle italiche genti. E quindi noi andiamo a chiudere il tour del vecchio Schegge di Liberazione, e magari a leggere qualche inedito del cartaceo imminente, a Fabriano (AN) nella Biblioteca Comunale. Ci sarà quel partigiano del Many a condurre, osvaldo, cioè l'elena, e Ilke Bab a coprirgli le spalle, un botto di altri lettori e ascoltatori, e i soliti simone rossi, Bicio e il valoroso Chettimar all'accompagnamento musicale. Tutte le info del caso son qui.

(19 marzo/2) tre ore sinistre
Три левых часа, in russo, vuol dire contemporaneamente tre ore sinistre/abusive/di sinistra. Sperando che non vada a finire a cetriolate in faccia, allo spazio Meme di Carpi l'eroe dei due mondi reale e virtuale, carlo dulinizo, presenta una giornata norista (o noriana, fate voi) con tutte le carte in regole per esser sinistra, abusiva e di sinistra: alle 18 ci sarà la presentazione del numero sei dell'Accalappiacani (che, non so se vi ricordate, per un motivo o per l'altro si è sempre intrecciato con la storia di noi furbi barabbisti); alle 19 si terrà la presentazione e la lettura del Quaderno della Scuola Elementare di Scrittura Emiliana; e alla fine, alle 20, Paolo Nori leggerà Disastri di Daniil Charms. Qui l'evento sinistro/abusivo/di sinistra nei dettagli.

Dai, veniteci a trovare, siam poi gente perbene, siam gente che beve.

martedì 15 marzo 2011

Schegge di Liberazione: vite esemplari - Stéphane Hessel

Stéphane Hessel è nato nel 1917 a Berlino da un padre ebreo, scrittore e traduttore, Franz Hessel, e da una madre pittrice e melomane, Helen Grund, anch'essa scrittrice. Nel 1924 i suoi genitori si stabiliscono a Parigi con i due figli, Ulrich, il maggiore, e Stéphane. Grazie all'ambiente famigliare i due ragazzi frequentano l'avanguardia parigina, tra cui il dadaista marcel Duchamp e lo scultore americano Alexander Calder.

Nel 1939 Stéphane è ammesso all'école normale supérieure di rue d'Ulm, ma il corso dei suoi studi è interrotto dalla guerra. Naturalizzato francese nel 1937, viene chiamato sotto le armi e conosce "la drole de guerre", la strana guerra, e vede il maresciallo Pétain svendere la sovranità francese. Nel marzo del 1941 raggiunge la Francia libera del generale De Gaulle, a Londra. Lavora per il Bcra (ufficio di controspionaggio, d'informazione e d'azione). In una notte di fine marzo del 1944, approda clandestinamente in Francia con il nome in codice di "Greco" e la missione di entrare in contatto con le varie reti parigine, trovare nuove postazioni per la trasmissione radio così da comunicare a Londra le informazioni raccolte in vista dello sbarco alleato.

Il 10 luglio del 1944, in seguito a denuncia, la Gestapo lo arresta a Parigi. Dopo una serie d'interrogatori e e torture - in particolare il supplizio della vasca da bagno, ma lui destabilizza i propri torturatori parlando loro in tedesco, la sua lingua materna -, l'8 agosto 1944, ovverosia a pochi giorni dalla liberazione di Parigi, lo spediscono al campo di Buchenwald, in Germania. Alla vigilia della sua impiccagione, riesce in extremis a scambiare la propria identità con quella di un francese morto di tifo nel campo.

Sotto il nuovo nome di Michel Boitel, fresatore, viene trasferito al campo di Rottleberode, nelle vicinanze della fabbrica di carrelli d'atterraggio degli Junker 52, i bombardieri tedeschi. Ma fortunatamente è assegnato all'ufficio contabilità. Ed evade. Lo catturano e spostano nel campo di Dora, dove si fabbricano i V-1 e i V-2, i missili con cui i nazisti sperano ancora di vincere la guerra. Condannato alla Compagnia disciplinare, evade di nuovo e stavolta con successo: le truppe alleate stanno raggiungendo Dora. Finalmente torna a Parigi, dove ritrova sua moglie Vitia, madre dei suoi tre figli, due maschi e una bambina.

Quest'uomo, che ha oltre novant'anni, l'anno scorso ha scritto un piccolo libricino, chiamato semplicemente Indignatevi! e dentro questo libricino ha scritto pure un'altra cosa importante, insieme ad altri suoi colleghi resistenti: Creare è Resistere. Resistere è creare.

Questo è il nostro ultimo e personale hop hop hop per Schegge di Liberazione 2011.
A presto.

lunedì 14 marzo 2011

Cicatrici: La foto della prima comunione

[riceviamo e pubblichiamo con orgoglio la cicatrice di Stefano Pederzini, che la gente conosce anche come Bolero e Prudencio Indurain]

(Posizione)
Sopracciglio destro.

(Cause)
Nella foto della prima comunione ci siamo io e mia sorella, lei è vestita di bianco e io di nero. Nella foto della prima comunione ci siamo io e mia sorella perché lei ha un anno in meno di me, ma per motivi di bilancio familiare si è deciso che la comunione l’avremmo fatta insieme. Così il catechismo della prima comunione l’ho fatto con la sua classe che erano tutti più piccoli di me e la mia presenza li metteva in agitazione, io poi una volta ho chiesto alla giovane e ingenua catechista come mai, se l’ostia è il corpo di Cristo, ci danno un tondino di pane e non come sarebbe logico una bistecchina, e la giovane e ingenua catechista mi ha mandato fuori dall’aula.

Ma soprattutto, nella foto della prima comunione si vede benissimo che ho un grosso graffio sul mento, e anche se i capelli della frangetta sono tirati giù il più possibile si vede chiaramente un cerotto bello grande sulla fronte, sopra l’occhio destro. E per fortuna che ho la giacca, perché altrimenti si vedrebbe che di cerotti ne ho uno anche sui gomiti. Sotto i pantaloni invece c’è un ginocchio sbucciato.

E come mai sono conciato in quel modo? Perché il giorno prima ho fatto i giochi della gioventù di ciclocross. Come mai io che sono un bambino di dieci anni vado a fare i giochi della gioventù di ciclocross? Perché il mio papà è un discreto corridore di ciclocross, e io e la mia mamma e le mie sorelle nelle domeniche d’inverno stiamo lungo i sentieri delle gare ad aspettarlo tenendo pronte le ruote di scorta casomai dovesse forare. E al mio papà piacerebbe tanto che anch’io diventassi corridore, e i giochi della gioventù me li ha fatti fare anche l’anno scorso che avevo nove anni e sono arrivato terzo. Dai, terzo, non è male alla prima corsa. E poi ho già fatto tante gimcane, quelle con lo slalom tra i birilli e l’asse di equilibrio, e le gimcane le fa pure mia sorella, e spesso, anzi quasi sempre, va più forte di me e mi caccia la paga. Invece quel giorno, il sabato prima di fare la comunione, a fare il ciclocross ci vado soltanto io. Prima di uscire di casa il papà e la mamma hanno discusso. La mamma diceva che con tutte le cose che c’erano da fare per preparare la festa della comunione non era proprio il caso di portarmi a fare anche il ciclocross. Alla fine lei è rimasta a casa e con noi è venuta la zia di Milano.

I giochi della gioventù comunali di ciclocross si fanno intorno al palazzetto dello sport Salvador Allende, di fianco al bocciodromo Amilcar Cabral. Siamo una quindicina di bambini e non sembriamo dei corridori ciclisti, abbiamo vestiti da cortile e biciclette da cortile. Si parte. Dopo la prima curva sono in testa. In testa! Sono in testa! Pedala, dio bono, pedala. Entriamo nel sentiero in mezzo alla boscaglia. Sono sempre in testa. C’è un dosso di terra battuta da superare, in cima al dosso uno mi supera. No, dio bono, no. Siamo di nuovo sull’asfalto. Non devo farlo scappare quello, è solo il primo giro, posso riprenderlo, pensa se vinco che bello che sarebbe. Passiamo sul traguardo. Sono di nuovo alla prima curva, inseguo a tutta quello davanti. C’è sabbiolina in terra. Arrivo troppo forte, la ruota dietro scivola, cado, le gambe grattano l’asfalto, ma non mi interessa, ora mi rialzo e AAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHH, la fronte, non so cos’è ma è un dolore sordo, sordo come l’urlo che faccio che non è proprio un urlo, faccio AAAAAAHHHHHH mentre qualcuno corre verso di me e mi tira su, non capisco, la testa non l’ho sbattuta in terra, cos’è che mi ha colpito e che mi ha fatto così male, ho la gente attorno, c’è mio padre, c’è la zia di Milano, c’è l’ambulanza e mi ci caricano sopra e mi portano alla Croce Rossa.

Dice mio padre che forse mentre cercavo di rialzarmi ho preso un colpo di pedale in testa da un concorrente che stava passando. La zia si sente in colpa, crede che son caduto perché lei ha gridato “Dai Stefano” e magari mi sono distratto per quello. No zia, non ti ho né vista né sentita. Ero secondo. Era solo il primo giro. Potevo vincere.

Alla Croce Rossa mi sdraiano su un lettino e cominciano a incerottarmi un po’ dappertutto, ma il lavoro grosso è sulla fronte, dicono che devono darmi dei punti. Mi spalmano una cosa che si chiama tintura di iodio. Brucia. Mi lamento. Il medico dice che fa più male a lui che a me. A me sembra una stupidaggine, ma non glielo dico. Esco con due punti e un cerotto in fronte, uno sul mento, altri su gomiti e ginocchia. Torniamo a casa. La mamma è nell’orto. Ci guarda arrivare e non dice niente, ma ha una faccia che dice tutto. Se non fossi già pieno di bozzi probabilmente me ne farebbe qualcuno anche lei, e anche di più a mio padre. La mattina dopo mi toglierà il cerotto sul mento e ridurrà con le forbici quello sulla fronte, poi ci tirerà sopra i capelli in modo che si veda il meno possibile, ma nelle foto si vede, eccome se si vede.

Dopo dei ciclocross non ne ho mai più fatti, ho fatto tante gimcane, sempre con mia sorella che andava più forte, a volte ho vinto la mia categoria ma lei vinceva la sua con un tempo migliore. Poi, a 12 anni, quando era il momento di mettersi a correre davvero, mi sono ritirato. Invece mia sorella, a 12 anni, ha avuto un ictus il giorno di Natale, è entrata in coma ed è morta due giorni dopo. E anche allora mi è venuta una cicatrice, ma non era quella di cui volevo parlarvi, anche se poi ve ne ho parlato lo stesso.

(Conseguenze)
A volte, quando mi gratto il sopracciglio, mi sembra di sentire un po’ di rilievo. Ma forse è solo una ruga perché sto diventando vecchio.


di Stefano Pederzini “Bolero”

domenica 13 marzo 2011

Scene da un autotrasporto: El Moutawakil

Un giorno del 1984 stavo guardando le olimpiadi di Los Angeles. Io mi ricordo che le olimpiadi di Los Angeles furono bellissime. È vero che mancavano i paesi del blocco comunista, ma erano le prime olimpiadi che vedevo con un po' di coscienza di quel che stavo guardando e quindi a me sembravano bellissime.

Una notte (perchè a Los Angeles sono su un fuso orario diverso, se non lo sapete) sono lì con mio fratello che guardo le finali dell'Atletica Leggera e ci sono i 400 ostacoli femminili. Mancano quelle dell'est, che sono le più forti, però ci sono diverse atlete che possono fare una bella gara. C'è anche una marocchina che si chiama Nawal El Moutawakil, sembra una di quelle che son lì per miracolo, che vedrai scomparire dopo la prima curva. Invece, con una delle più grandi sorprese della storia dell'Atletica, la signorina El Moutawakil vince. Vince e scoppia a piangere. Fa un giro di campo con la bandiera del Marocco in mano, è in trance agonistica, completamente immersa dentro la felicità per un'impresa incredibile. È la prima donna marocchina ed è la prima donna musulmana a vincere una medaglia olimpica. Personalmente ricordo che in famiglia eravamo tutti contentissimi e il giorno dopo non parlavamo d'altro che di questa ragazza marocchina che aveva vinto e che piangeva di gioia, un'immagine bellissima che ci aveva letteralmente strapazzato il cuore.

Non me la dimenticherò mai, Nawal El Moutawakil. Anche se oggi non so neanche cosa faccia (a dire il vero, prima di scrivere questo post ci ho guardato. Ma così non vale. Comunque sta bene).

L'altro giorno, alle tre, arriva un camionista marocchino che carica un container di piastrelle e che oramai vedo da quindici anni perché inizia a essere un vecchio del mestiere. È un signore di mezza età sempre molto affabile e gentile. Di quelle gentilezze che commuovono, mai volgare, mai arrabbiato, sempre con il sorriso sulle labbra che tra i camionisti è cosa rarissima, ve lo assicuro.

Lo saluto e mi accorgo che in quindici anni che ci si vede con alterna frequenza non so nemmeno come si chiami, ragion per cui sbircio nella sua lettera di vettura in alto a destra, dove c'è scritto il nome dell'autista.

Leggo un cognome: EL MOUTAWAKIL.

Mi metto a ridere perché mi viene subito in mente l'ostacolista marocchina di cui sopra. Mi dico che ora gli chiedo se è un parente o la conosce, ma poi penso "Ma chissà quanti ce ne sono in Marocco, magari è un cognome come da noi Ferrari o comunque molto comune... Ma cosa vado a pensare, ma no dai".

Poi non resisto. "EL MOUTAWAKIL? Come quella che ha vinto i 400 ostacoli a Los Angeles? Sei un parente?"

Il signore di mezza età, che io già mi aspetto che mi risponda con un "EH?" e con una faccia come a chiedermi "Che cacchio sta dicendo questo?" Il signore di mezza età, dicevo, sgrana quegli occhioni verdi e quasi si commuove. Fa il sorriso più grande del mondo e dice "Sì, È UNA MIA CUGINA."

L'autista che è di fianco a lui, un suo collega italiano, non capisce e chiede lumi. "Questo conosce una tua cugina?" Il Sig. El Moutawakil gli spiega in un minuto la storia della finale di Los Angeles 1984, poi dice "Sono vent'anni che sto in Italia. Ti giuro che è la PRIMA VOLTA che qualcuno conosce questa storia del mio cognome" e ride. Gli offro il caffè e ci salutiamo. Lo vedo che si allontana piano piano verso il container, sulle strisce pedonali. La prossima volta sulle strisce ci metto anche degli ostacoli bassi. Tanto li salta sicuro.

Guardate qui.

sabato 12 marzo 2011

Ragionamenti in versi

Da un anno o due avevo dei problemi a leggere i libri di poesie, non una poesia sola, proprio i libri, i libri di poesie. Mi capitava sempre, dopo aver letto dei libri di poesie, di passare un giorno o due a ragionare in versi, a volte ritmicamente, tipo seguendo l'andare dei passi per la strada Presto vai / il tempo fugge / serve subito / presto, un chilo / di pane un chilo, i movimenti delle abluzioni mattutine Allàgati la faccia / e vai / Marco vai / anche oggi vai / a guadagnarti il pane / cretino / vai, parlare col panettiere Un chilo / di treccine / e poi anche / se si può / una pagnotta bella grossa / se sì, / può. Allora avevo smesso di leggerli, i libri di poesie.

Poi è venuta fuori questa specie di poeti della rete, questa bit generation (è una battuta stupida che ho fatto una sera in pizzeria, non sapevo come riusarla, la uso qui, abbiate pazienza), e ne sono usciti due, di libri di poesie, uno si chiama La donna che si baciava con i lupi di Guido Catalano, l'altro Favola d'amore triste per malati di mente, di Azael. Dentro ci sono scritte delle cose che ti aprono la testa, come, nel primo:
ma secondo te è possibile amarti in cani?
in cani ad esempio quanto t'amo in cani?
oppure:
come si fa a dire mutande a una ragazza?
come si fa?
si deve dire mutandine
e poi:
quando che un giorno io ti dirò t'amo
sii armata di pistola
una di quelle piccole da ragazza
dentro la borsetta
puntamela e di': ripetilo se hai il coraggio
oppure:
raramente la bella ragazza è ignifuga
dunque inutile cercarla nel sole
oppure:
potremmo con le gocce dei tuoi occhi
farci il caffè?
e nel secondo, c'è una poesia che si chiama Citofonare e scappare, che è bellissima, dice così:
I brutti

i brutti non dovrebbero mai mai mai uscire di casa,
gli idioti mai aprir bocca,
i cattivi tutti chiusi nelle cantine,
e i puzzolenti e i cani in grandi celle di plexiglas,
i belli, gli intelligenti, gli innamorati, i buoni, i poveretti e gli illusi, tutti nelle strade,
continuamente,
a citofonare e scappare,
citofonare e scappare,

fino a che la signora non risponde
dice chi è, chi minchia è, chi stracazzo è
scende di sotto
con la scopa
le pistole
li guarda, quegli innamorati, quei belli, i buoni, gli sfortunatissimi, i gatti senza voce, i partigiani senza liberazione, tutti quelli,
là, nascosti dietro l’angolo
e, mi direte, ecco che gli spara, gli dà fuoco, li denunzia, li malmena
no
no
la signora lascia la scopa, le pistole, si toglie la faccia rigata dallo sguardo
si toglie il dispiacere e i bigodini, e le ciabatte dell’odio, chiuse dietro,
e va con loro
con i belli, gli illusi, gli intelligenti, i buoni, i belli, gli innamorati, altri buoni, altri innamorati, i vecchi ravveduti, gli illusi
sempre
a citofonare e scappare,
citofonare e scappare,
sempre,
citofonare e scappare.
E dopo che li ho letti, questi due libri di poesie, non mi capitava più di ragionare in versi, e potevo tranquillamente vivere la mia vita in prosa. Allora ho ricominciato a leggerli, i libri di poesie. E mentre ero a casa dei miei, dentro una credenza, ho trovato una poesia che avevo scritto tanti anni fa, era ed è l'unica poesia che abbia mai scritto, avevo vent'anni o poco più, diceva così:
Niente argini
Per lacrime
Che sgorgano
Incessanti
Dai miei occhi
Incatenati
Dal tuo sguardo

***

TUTTO tace
come sempre
quando TUTTO
va a puttane
Secondo me ero appena stato mollato.

venerdì 11 marzo 2011

Cicatrici: Arbitro

[riceviamo e con volentieri pubblichiamo la cicatrice di Sonqua Bene Cistò]

(Posizione)
Sopracciglio destro.

(Cause)
Mia madre era una sportiva. Io no. Tennis. Io preferivo fare le polpette con un pasticcio di acqua e terra rossa. Ogni tanto riuscivo anche a scavare nel campo qualche buchetta per prenderne piene manciate senza dover andare a strusciare i palmi fino ad ammonticchiarne una quantità sufficiente.

Però stavo attenta. Più spesso, andavo a prendere la terra rossa lontano dalle righe bianche. Mai sottorete. Ai bordi. Soprattutto, la raccoglievo quando i giocatori e gli astanti erano assorti o girati o impegnati da altri pensieri.

Ogni tanto, mi grattavo o mi stropicciavo gli occhi. Quando mi distraevo coloravo anche i capelli.

Ecco sarà per queste disattenzioni, forse, che mi hanno scoperto. E allora lì a spiegarmi che non si poteva costellare il campo di buche. Lì a spiegarmi che si doveva prendere la palla al primo rimbalzo. Le accelerazioni, la scivolata sul campo per prendere quelle palline che rimbalzavano vicino alle righe bianche, ma all’interno. Lì a spiegarmi che dentro il quadrato non era lo stesso che fuori il quadrato. Lì a spiegarmi la legge fisica della forza impressa alla sfera in punti diversi che determina le “palle ad effetto”. Lì a farmi vedere come usare il tappeto di stuoia per rendere il fondo di terra rossa liscio liscio. Lì a spiegarmi tutte le regole. La battuta, il net, il set point, la palla break. E la concentrazione e il silenzio. E i vestiti che, prima che nascesse Agassi, dovevano essere tutti bianchi o con piccoli disegni sfumati. E il tifo garbato e la poca esultanza.

Allora. Dico. Sto attenta. Faccio l’arbitro. L’arbitro del tennis. Almeno il punteggio. Ce la faccio a stare attenta. Dico. Tiro su le dita, uno per ogni 15 punti e tengo il punteggio. Che poi nessuno sapeva dire perché non si poteva dire uno a zero. Si doveva dire solo quindici a zero, trenta trenta e cose così. Se uno faceva un punto vinceva subito di quindici. Mica mi sembrava poi così giusto quello sport lì.

Comunque, la cosa più bella di fare l’arbitro del tennis, ho scoperto, era la sedia dell’arbitro del tennis.

Un seggiolone di ferro verde. La seduta larga. Comoda. Le scalette dietro. Come la sedia del bagnino ma più bella. Senza ruggine. Senza cinghie. Non come i seggiolini del luna park. Lo schienale alto. Piantata su un gradino di cemento grigio. E poi, alta. Altissima. Bella. Salgo su. Mi siedo, comoda.

Da qui sembra tutto diverso. Ora sì che si vedono i quadrati. Guardo la rete. Da qui sembra una linea svolazzante. I giocatori sembrano bambini, solo con le gambe più lunghe. Si vedono le teste. La parte di sopra. Quella non si vede mai. Si vede tutto da qui. La cima delle siepi. La fontanella fuori dal campo. Le seggiole degli spettatori. L’altro campo dietro questo qui.

Giocano. La testa va: destra, sinistra, destra, sinistra, sinistra, destra, destra sinistra. Si svita la testa se continuo così. Destra, sinistra, sinistra, destra. Poi cade la palla. Poi di nuovo, destra, sinistra, destra, sinistra. Mi annoio. Mi ricordo il punteggio. Destra, sinistra, sinistra, destra, destra, sinistra, cade la palla. Mi ricordo il punteggio. Destra sinistra, sinistra destra.

Cade la palla. No. Non me lo ricordo, il punteggio.

Destra, sinistra, destra, sinistra. E se si stacca la testa? Destra, sinistra, destra, sinistra. Mi annoio. Provo a muovere la testa in direzione contraria alla pallina. Così è più difficile. Destra, sinistra, destra, sinistra. Socchiudo gli occhi. Una fessurina. La pallina si trasforma in una linea in movimento sottile sottile. Destra, sinistra, sinistra, destra. No. Non lo so a quanto state, voi giocatori. Destra, sinistra, destra, sinistra.

Guarda! Quella non si muove dietro al pallina! Guarda mamma! Una coccinella! È quella vera! Quella rossa coi pallini neri! La prendo! Porta fortuna!

Volo. Oh, m’ero distratta. Cerco aggrappi. Rovinosamente verso il basso. Gradino di cemento. La macchia di sangue non si vedeva sulla terra rossa. Sembrava solo terra bagnata. Come quando facevo le polpette con l’acqua.

(Conseguenze)
Quando mi specchio, le mie sopracciglia non sono uguali. Una ha una righina; è separata in senso orizzontale da una sottile linea bianca. Secondo me le coccinelle non portano fortuna. Il tennis mi annoia. E fare il pane in casa e impastare a mano è una delle cose che amo di più.


di Sonqua Bene Cistò

giovedì 10 marzo 2011

Schegge di Liberazione: l'ultimo segreto della regola squonkiana

Un giorno il maestro Squonk mi contattò privatamente, era il tempo del PslA, sotto Natale. Mi disse che aveva una cosa importante da dirmi, che non me l'aveva ancora detta perché si trattava dell'ultima cosa da imparare sulla regola squonkiana. Mi disse che ci sono certe persone che vanno esortate privatamente con degli hop hop hop mirati, decisi e implacabili, anche giorno per giorno, e che forse le soddisfazioni più grandi arrivano da quei campioni dell'ultimo minuto. Così faremo, con alcuni di voi, da oggi in poi.

Mancano cinque giorni alla deadline per la consegna dei vostri elaborati all'indirizzo marcomncrd chiocciola gmail punto com. Avete quindi tempo fino alle 23.59 del 15 marzo per poter partecipare allo Schegge di Liberazione di quest'anno, che forse è l'ultimo. Le istruzioni e le informazioni utili sono qui. Barabba dice 26 x 1.


[e un ringraziamento particolare va al prode thunalab per
questo contributo visivo alla causa dell'hop hop hop sui socialcosi che contano]

martedì 8 marzo 2011

Cicatrici: Neo

[riceviamo e pubblichiamo con gioia, in questa giornata speciale, la cicatrice di Roberta Ragona, meglio conosciuta come tostoini; potete accompagnare la lettura con un piatto di quei gnocchetti sardi suggeriti proprio ieri dal Fiorveluti]

(Posizione)
Pianta del piede sinistro.

(Cause)
"Che cos'è quello che hai sulla pianta del piede, un neo?"
"No. È una cicatrice."

A dare la forma ai giorni della settimana, d'estate, c'è una cosa che è l'innaffiatura.
Annaffiare bisogna per forza, perché d'estate, in Sardegna, di caldo ne fa parecchio. Si annaffia con l'acqua del pozzo però, che quella potabile è razionata, perché di acqua, in Sardegna, d'estate - si sa - ce n'è pochina.
Si annaffia un giorno sì e uno no. Nelle estati della mia infanzia c'era un sacco da annaffiare: si annaffiava da Nella e Pietro, da Ennio e Antonietta e si annaffiava a casa nostra quando noi eravamo ad Arzana, a Marsala o a Lumezzane.
La mia casa e quella di Ennio e Antonietta avevano un sacco di punti in comune. Entrambe grandi abbastanza per ospitare famiglie con un discreto numero di membri, entrambe piene di stanze interessanti, anfratti e pertugi. Entrambe costruite in un quartiere in piena espansione edilizia, di quelli che sarebbero diventati frondosi distretti suburbani di piccole villette con giardino, ma che durante la mia infanzia erano piuttosto un unico esteso cantiere aperto in cui mi sono procurata buona parte delle mie cicatrici. Entrambe avevano un enorme giardino popolato di animali. Nella mia mancavano i cani, che abbondavano invece da Ennio e Antonietta.
Di questo enorme giardino solo una piccola parte era ornamentale. La maggior parte dello spazio era occupata da un enorme disordinatissimo orto. A casa mia, come a casa di Ennio e Antonietta, lì dove l'orto finiva, vicino al muro di confine, cominciava una terra di nessuno in cui cresceva una collinetta, deposito di materiali edili di varia natura, legname, mattoni, blocchetti e sacchi di cemento. Perché non solo il quartiere, ma anche le nostre case in quel periodo erano un cantiere aperto in continua evoluzione.
La collinetta di casa mia era un oggetto misterioso, patria di una colonia di gatti forastici e inavvicinabili, pericolosamente vicina a una buganvillea dalle spine lunghe come pugnali.
Quella di casa di Ennio e Antonietta invece, era lì, accessibile. Pronta per l'esplorazione.
Mentre papà innaffiava, io davo la scalata al monte, arrampicandomi - novella Tenzing - su travi, pallet, rami potati e mezze cassettiere. Non so quanto tempo fosse passato da quando arrivammo a quando papà mi chiamò perché stava facendo buio, aveva finito di innaffiare ed era ora di tornare a casa. So che ero in cima alla collina e che portavo quelle scarpette gommose chiamate scheletrini, tipiche di un'infanzia nei primi anni '80.
Quello che mi ricordo è che sono saltata giù dalla collinetta, che non era alta. Ai piedi della collinetta, una trave. In mezzo alla trave, un chiodo da muratore lungo svariati centimetri.
Quello che mi ricordo è che sono andata da mio padre con il passo un po' goffo dei sub quando stanno per entrare in acqua, o degli sciatori da fermi. Solo che lo sci era la trave ed era unita al mio piede non da appositi attacchi, ma da un chiodo da muratore lungo svariati centimetri che attraversava il mio piede da una parte all'altra.

(Conseguenze)
Un'altra cosa che mi ricordo della mia infanzia è che ho fatto l'antitetanica tutti gli anni.


di Roberta Ragona "tostoini"

lunedì 7 marzo 2011

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Gnocchetti sardi come mi tira

Leggete un libro di Emilio Lussu. Tagliate a rondelle una melanzana e cospargetela di sale, così perde l’acqua. Togliete la pelle a un paio di salsicce di cavallo e fatene dei pezzetti con le mani. Nel frattempo dite spesso “PSDAZ”.

Dopo una mezz’ora, nella quale imparate a memoria tutte le provincie della Sardegna, soffriggete (la melanzana) insieme a una mezza cipolla bianca, aggiungendo un po' di peperoncino e dei pomodori pelati tagliati a spicchi.

Dopo i primi tre minuti a fuoco vivissimo, aggiungete la salsiccia di cavallo e poi abbassate la fiamma, mescolando sempre bene. Quando il sugo si ritrae, aggiungete due bicchieri di vino bianco e alzate un poco la fiamma. Tritate del prezzemolo e grattugiate del formaggio a scelta vostra. Non posso obbligarvi a usare il pecorino visto che purtroppo siamo un paese libero.

Non vi ho detto che intanto avete cotto in acqua salata i gnocchetti sardi, ma era chiaro, no?

Incorporate al sugo la pasta, saltatela un paio di minuti. Aggiungete il prezzemolo SOLO NEI PIATTI, a pioggia. Il formaggio lo mettete in una formaggiera, lasciando ai commensali la decisione.

venerdì 4 marzo 2011

Dialettica (8)

“Altro?” “Altro.”

Non sono a conoscenza della reale diffusione geografica di questo scambio verbale, ma so per certo che si usa nel bolognese. Per chi non l’avesse mai sentito prima, lo scambio in questione è la chiusura di un qualsiasi dialogo tra venditore e acquirente, principalmente nei negozietti di generi alimentari. Al venditore (V) spetta la parte interrogativa, all’acquirente (A) l’altra. Funziona così: (A) entra nel negozio e, quand'è il suo turno, elenca a (V) ciò che gli necessita; al termine dell’operazione, (V) porge ad (A) la sportina contenente le vettovaglie e domanda “Altro?”. (A), che non ha bisogno di nient'altro, risponde, contro ogni logica, “Altro”. È evidente l’incongruenza della risposta con la realtà dei fatti. (A) dovrebbe rispondere “No”, e invece risponde "Altro". Da bambino ogni spesa assieme a mia nonna o a mia mamma mi metteva a disagio, e alla fine rimanevo sistematicamente attonito a guardarla in faccia, pensando “Scusa, hai detto Altro e poi invece andiamo a pagare? E lui non dice niente?”. Oh, a trentacinque anni ancora non ho capito il perché. Se mi succede rispondo anch'io “Altro”, ma solo se non c’è mia figlia vicino.

(di Massimiliano Calamelli "mc")

Il naso rosso (sorpresa, piccolo dramma, lieto fine e morale della favola)

Salì in macchina, con l'ingegner Manicardi, il prode carlo dulinizo, con una barbetta non troppo chiara e non troppo scura, con guance abbastanza sorridenti.

«Scusa, forse avevi perso un naso rosso?»
«Proprio così.»
«È stato trovato.»
«Che cosa dici?» gridò l'ingegnere.

La gioia gli tolse la favella. Guardava fisso nei due occhi il dulinizo che stava davanti a lui e sulle cui labbra e guance pienotte la tremolante luce dell'abitacolo mandava vivi bagliori.

«In che modo?»
«In uno strano modo: l'hanno fermato ch'era già quasi in viaggio. Stava per cambiare ancora faccia. Voleva fare l'impiegato.»

L'ingegnere era fuori di sè.

«Dov'è? Dove? Corro subito.»
«Non preoccuparti. Sapendo che ti era necessario, l'ho portato con me», nel dir questo il dulinizo si frugò nel borsello e ne trasse il naso rosso avvolto in una bustina di plastica.
«È lui!» gridò l'ignegnere. «È proprio lui! Ti offro da bere. Adesso.»
«Per me sarebbe un grande piacere, ma non posso proprio.»
«Sta' bene», rispose l'ingegnere. «A domani.»
«A domani», disse il dulinizo.

Quando il dulinizo se ne fu andato, l'ingegnere rimase per qualche minuto in uno stato d'animo piuttosto indefinito, e solo dopo alcuni minuti riacquistò la facoltà di vedere e di sentire: in tale smarrimento l'aveva gettato l'improvvisa gioia! Prese con gran cautela il naso rosso con entrambe le mani e lo guardò ancora una volta con attenzione.

«È lui, è proprio lui!» mormorò l'ingegnere e per poco non scoppiò a ridere dalla gioia.

Ma al mondo non c'è nulla di duraturo e perciò anche la gioia, nell'attimo che segue, non è già più così viva; poi essa diventa ancor più debole e, infine, inavvertitamente si confonde con lo stato d'animo abituale, come nell'acqua un cerchio prodotto dalla caduta d'un sassolino finisce per confondersi con la superficie liscia. L'ingegnere cominciò a riflettere e capì che la faccenda non era ancora finita: il naso rosso era stato trovato, ma adesso occorreva attaccarlo, rimetterlo al suo posto.

«E se non si attaccasse?»

Di fronte a questa domanda che aveva rivolto a sé stesso l'ingegnere impallidì.
Con un sentimento di indescrivibile terrore si precipitò a casa, corse allo specchio del bagno per non rischiare di attaccarsi il naso rosso storto. Le mani gli tremavano. Con cautela e circospezione posò il naso rosso al suo giusto posto. Oh, orrore! Il naso rosso non si attaccava! Allora lo avvicinò alla bocca, lo riscaldò leggermente con il fiato e lo collocò di nuovo sullo spazio liscio che si trovava fra le due guance, ma il naso rosso proprio non si reggeva.

«Su, insomma, su! Mettiti a posto, scemo!» disse.

Ma il naso rosso era come di spugna e cascava sul tavolo. La faccia dell'ingegnere si contraeva in una smorfia convulsa.

«Possibile che non faccia più presa?» si disse in preda allo spavento.

Ma, per quante volte lo appoggiasse al suo posto, gli sforzi continuavano a restare vani.

***

Nel frattempo le voci di quell'avvenimento insolito s'erano diffuse in tutta l'internet e, come sempre succede, non senza frange. Proprio in quel periodo l'attenzione della gente tendeva alle cose straordinarie: poco tempo prima tutta la rete s'era appassionata a certi esperimenti con Hello Kitty. Inoltre, la storia del memecapellone era ancora fresca, e non c'è quindi affatto da stupirsi che presto ci si mettesse a dire che il naso rosso dell'ingenger Manicardi cambiava faccia almeno una volta al mese. Ogni giorno una gran quantità di curiosi affluiva segnalava nuovi avvistamenti. Se qualcuno diceva che il naso rosso si trovava sul Campeotto, in America, subito la folla faceva ressa sul suo tumblr. Poi si sparse la voce che il naso rosso dell'ingenger Manicardi non era un Campeotto, ma una Marinelli; che anzi vi si trovava da un pezzo.

Di tutta la faccenda furon molto contenti i mondani e inevitabili frequentatori dei socialnetwork, ai quali piace far ridere le signore e la cui provvista di like era in quel periodo esaurita. Una piccola parte di persone rispettabili e benintenzionate, invece, era scontenta. Un signore diceva con sdegno di non capire come nel corrente illuminato secolo potessero diffondersi simili assurde invenzioni, e si stupiva come mai il governo non si occupasse della cosa. Come si vede, questo signore apparteneva alla categoria di quelle persone che vorrebbero immischiare il governo in tutto, persino nelle loro liti quotidiane con la moglie. Dopo... ma a questo punto di nuovo tutta la storia viene nascosta da una nebbia e che cosa sia successo in seguito è assolutamente ignoto.


***

Al mondo succedono le cose più inverosimili. Talvolta manca persino la minima ombra di verosimiglianza: improvvisamente quello stesso naso rosso che era stato un Campeotto, una Marinelli e pure un'Isa Dex, e aveva provocato tanto rumore in rete, come se niente fosse si trovò di nuovo al suo posto, ossia precisamente fra le due guance dell'ingenger Manicardi. Questo accadde il tre marzo, giovedì grasso. Svegliatosi e rivolta senza pensarci un'occhiata allo specchio del bagno, che cosa vide? il naso rosso! L'afferrò con una mano: era proprio il naso rosso!

«Ehe!» disse l'ingegnere e dalla gioia per poco non si mise a ballare scalzo una mazurka nella stanza, ma diede un'altra occhiata allo specchio: il naso rosso. Strofinandosi con l'asciugamano diede ancora una volta un'occhiata allo specchio: il naso rosso!

Ecco dunque quale storia accadde nella nordica cittadina dalla piazza che i bambini dicono essere la più grande del mondo! Ora soltanto, considerando tutto, vediamo che in essa c'è molto d'inverosimile. Per non dire del fatto che il distacco soprannaturale del naso rosso e la sua comparsa sotto le spoglie d'un consigliere di vari blogger è una cosa troppo strana. Come aveva potuto l'ingengere non capire che si può comprare un naso d'emergenza? Non lo dico qui nel senso che il prezzo per sarebbe stato troppo caro: questa è una sciocchezza, io non appartengo affatto al novero delle persone attaccate al denaro. Ma è sconveniente, imbarazzante, non sta bene! Ma la cosa più strana, più incomprensibile di tutte è che gli scrittori possano dedicarsi a simili argomenti. Lo riconosco, questo è davvero inconcepibile, è davvero... no, no, non posso proprio capire. In primo luogo, non ne viene decisamente alcun vantaggio per la patria; in secondo luogo... ma anche in secondo luogo non ne viene alcun vantaggio. Semplicemente non so che mai significhi tutto questo.

E tuttavia, malgrado ciò, si può anche ammettere e l'una e l'altra cosa, e anche una terza... già, perchè dov'è che non si verificano delle cose inverosimili? E a rifletterci bene, in tutto questo, davvero qualcosa c'è. Si può dir quello che si vuole, ma simili avvenimenti al mondo accadono, di rado ma accadono.

FIN (*)

mercoledì 2 marzo 2011

Cicatrici: Niente

(Posizione)
Ginocchio destro.

(Cause)
Non ero uno scalatore, non ero un passista, non ero uno furbo a entrare nelle fughe, non ero quasi niente, ero solo un po' velocista. E fin che si è ragazzini, fino alla categoria Allievi, qualche coppa la si portava anche a casa. Ogni tanto, in volata, la si spuntava. Ma quando sei Juniores, che il ciclismo diventa improvvisamente una cosa seria, niente, anche se sei velocista, ma non sei IL velocista della squadra, l'unica cosa che puoi fare nelle poche gare in cui si arriva in volata è il treno per IL velocista della squadra, provare a far vincere lui, sudare per un altro ed esser contenti lo stesso.

E allora qual è l'unico modo per portare a casa una coppa da Juniores se uno è un velocista, per far contenta la mamma che sta in pensiero tutto il giorno, tutte le settimane? Le corse in pista, il velodromo, in notturna. Al velodromo c'è la corsa a punti, sessanta giri di pista e una volata ogni due o tre, cinque punti al primo, tre al secondo, uno al terzo, e non è importante chi arriva primo alla fine: vince quello con più punti. Meglio: vince quello con più punti che arriva alla fine.

Bella lì. Sono le dieci di sera, è buio, ci sono le zanzare che turbinano compatte nelle luci dei fari e ci siamo noi, una cinquantina, più in basso, compatti a turbinare per la pista, ognuno con la sua tutina attillata, col suo body, il mio è giallo fosforescente e da vedere sono un gran figo.

Al via partiamo come degli schioppi, sessanta giri a tutta, quasi senza respirare, la pista è lunga qualche centinaio di metri e se non ci ubriachiamo a forza di girare in tondo ai cinquanta sessanta all'ora è un miracolo, ci tocchiamo i gomiti, ci sputiamo addosso senza accorgercene, niente borracce, niente freni - le bici da pista non hanno i freni, se freni muori - e senza poter smettere di pedalare - le bici da pista hanno il pignone fisso, se smetti di pedalare la bici scatta in avanti e fai un volo che poi muori.

Al decimo giro mi son già piazzato in due volate, e una l'ho vinta, sono in testa alla classifica. Al quindicesimo giro son lì tra i primi tre, come punteggio; sudiamo come dei disgraziati e i polmoni iniziano a smettere di capire cosa debbano fare. Al ventesimo giro sono secondo in classifica e l'allenatore sorride, non lo vedo ma lo sento, lo sento nel senso che grida continuamente DAI MARCO DAI. Al trentesimo giro la situazione è più o meno la stessa, siamo in quattro o cinque a contenderci il primato, per gli altri non c'è gara, vaccaboia, ho la soddisfazione che mi fa salire l'adrenalina e vado ancora più forte nella mia tutina gialla, il body, da gran figo. Al quarantacinquesimo giro, o giù di lì, senza capirlo e senza saperlo, nella curva parabolica destra del velodromo di Cavezzo, non chiedermi perché, non chiedermi percome, smetto di pedalare.

Volo.

Raggiungo il turbine compatto di zanzare sotto i lampioni. È un attimo ma è lunghissimo.

Ricado sul cemento e sfrego tutto il corpo, il body si strappa, mi sfregio completamente, scivolo giù come corpo morto scivola dalla curva parabolica. Arrivo sul prato centrale e apro gli occhi.

Boia d'un ladro, dico, ma tanto non respiro e non si sente niente. Mi guardo le mani e sono a posto, avevo i guantini; mi tocco la faccia e sono a posto, avevo il casco; mi guardo le gambe e dal ginocchio destro esce uno zampillo di sangue che anche metterci un dito non conta. Mi giro e vedo che arrivano gli infermieri, stanno lì sul prato a medicarmi per dei quarti d'ora, mentre la gara va avanti e poi finisce, e vince quel tanghero di Tolomelli della Ciclistica 2000 di Rubiera, secondo Veronesi della Paletti Bici S.r.l. di Spilamberto, terzo non mi ricordo.

Io ho buco nel ginocchio che ci mette due mesi a cicatrizzarsi, con un crostone nero e tamugno che pian piano tiro via con acqua e amuchina, tre volte al giorno.

(Conseguenze)
Se mi guardi il ginocchio, adesso, c'è un circoletto più scuro di tre centimetri di diametro, sembra abbronzato e invece è la pelle che ha tenuto quel colore lì quando si è riformata. Se mi guardo il ginocchio, adesso, mi viene una tristezza addosso che non so, e penso che, vacca d'un cane, anche quell'anno lì non ho vinto niente.

Pensieri in apnea: breve riassunto delle puntate precedenti

"Scrivere bene è sempre nuotare sott'acqua e trattenere il fiato."
(Francis Scott Fitzgerald)

martedì 1 marzo 2011

Schegge di Liberazione: Tempus fugit

Arriviamo a Terracina dopo ore di viaggio. Bandiere alle finestre, striscioni acclamanti l’esercito, scritte di “Viva Badoglio”: è il solito volto dell’Italia festeggiante; l’Italia che non mi piace, quella che ha sempre pronto l’ applauso per ogni vincitore [...]. Anche qui è tutto da rifare.

(Pietro Nenni, Diari)
Avete ancora quindici giorni di tempo. Hop hop hop.