Ottava puntata
Giorni di sole, il calore che passa attraverso le vetrate del corridoio, voglia di andare al mare. Werner Herzog che mi spedisce le pellicole di tutti i suoi film. Non sono proprio contentissimo. Il brivido di freddo mentre stai sotto le docce prima di entrare in acqua. Helmet come colonna sonora interiore. Un'amica che mi prende per mano e mi guida attraverso stanze sempre più buie. Il brivido intenso di piacere mentre cominci a muoverti, immerso nell'acqua, netta sensazione di gioia. L'acqua tra le dita frinisce mentre la spingi via. La struttura esterna della piscina è come l'astronave di Alien. Adolf Hitler, durante una passeggiata mattutina, che inciampa e un gigantesco contadino bretone lo aiuta a rialzarsi. Con gli occhi aperti in una pozzanghera uno vede i suoi amici con maschere da diavolo di cartone rosso e giallo. In acqua, se il movimento è sbagliato, lo capisci dal suono. Wim Wenders mi aiuta mentre cerco di costruire e far funzionare qualcosa in un centro sociale storico di Bologna. Un tizio biondiccio e sereno che, delicatamente e dolcemente, con le dita prende e mangia le api sott'acqua.
domenica 28 febbraio 2010
venerdì 26 febbraio 2010
Schegge di Liberazione: Barabba dice 26 X 1
A tutti i writer blogger STOP Barabba dice 26 X 1 STOP Nemici in putredine finale STOP scrivete un racconto, una poesia STOP fate un disegno STOP sulla Resistenza storica STOP e/o su quella quotidiana STOP Barabba creerà un ebook STOP e una versione cartacea STOP no-profit e per l'ANPI di Carpi STOP in distribuzione il 24 Aprile STOP in centro a Carpi STOP il 25 Aprile a casa Cervi STOP e al campo di Fossoli STOP inviate entro il 15 Aprile STOP a marcomncrd chiocciola gmail punto com STOP Barabba dice 26 X 1
(carlo dulinizo, Many)
(carlo dulinizo, Many)
giovedì 25 febbraio 2010
Schegge di Liberazione: e di legno del forcone
Mio bisnonno aveva un nome bellissimo, si chiamava Archimede. Non l’ho mai conosciuto, ma si dice che fosse l’uomo più forte del paese. Ma non forte tipo quelli che vincono a braccio di ferro, no. Lui, mi han detto, una volta ha fermato un toro per le corna e l’ha picchiato. Poi tutte le volte che Archimede gli si avvicinava, il toro s’inginocchiava. Mi han detto proprio così: s’inginocchiava, era quasi un’attrazione. Forse un altro giorno la racconto, questa storia del toro. Adesso non c’entra.
Mio nonno, il figlio di Archimede, era un disertore. Un giorno era vestito da soldato in un camion di soldati e ha pensato bene di dare un gran pugno sui denti all’autista e di tornare a casa. Solo che, una volta tornato, han dovuto nasconderlo per un bel po’ di tempo, ché lo cercavano, i fascisti e i tedeschi, lo cercavano per metterlo al muro. Archimede ha pensato di nascondere mio nonno, suo figlio, in una concimaia. Ha fabbricato una casetta di qualche metro quadro in legno e l’ha infilata sotto il letame. Mio nonno è stato lì per nove mesi, nella casetta di legno sotto il letame, col mitra puntato verso l’apertura, che all’occorrenza si chiudeva con dell’altro letame, e uscendo solo di notte per fumare una sigaretta e per sgranchire le gambe. Un giorno, però, due tedeschi han bussato alla porta di casa.
Mio bisnonno, Archimede, è uscito e gli ha detto Be’, cosa c’è? Loro volevano fare un giro in casa. Secondo loro mio nonno, il disertore, si nascondeva lì, ma non l’hanno trovato. Allora hanno detto che volevano fare un giro intorno alla casa e Archimede, senza fare una piega, gli dice Va bene, andiamo, aspetta che prendo il forcone che intanto devo rivoltare il fieno. Loro han detto Faccia pure ma si sbrighi. E son partiti alla ricerca del disertore, i tedeschi, e Archimede li accompagnava col forcone, perché doveva andare a rivoltare il fieno.
Mio nonno racconta che ha sentito gli stivali che si avvicinavano alla casetta di legno sotto il letame. Dice che sentiva parlottare e stava col mitra puntato sull’apertura, che era stata chiusa con dell'altro letame. Stava lì trattenendo il respiro e sentiva sempre gli stivali che camminavano intorno alla concimaia e il sudore che scendeva sul viso, il cuore a mille, il dito sul grilletto, e se avessero solo aperto un po’ la porta della casetta di legno lui sparava e come andava andava. Sentiva i passi, gli stivali, poi uno scricchiolio come del legno che si spacca. Una gran paura.
Fuori dalla concimaia c’erano i due tedeschi che giravano intorno alla casa. Quando si sono avvicinati al letame mio bisnonno, Archimede, ha fatto un respiro grandissimo e ha cominciato a stringere il forcone per il manico. Stava fermo, sembrava tranquillo, a vederlo, i due tedeschi non erano mica preoccupati di lui, avevano i mitra, loro. Archimede era impassibile, anzi sembrava anche un po’ scocciato per aver perso del tempo. Però se gli guardavi il braccio c’erano delle vene grosse come dei tubi di ferro che lo attraversavano. E la mano che stringeva il forcone stava spaccando il manico di legno, lo faceva scricchiolare.
Poi niente, i due crucchi si son convinti che lì non c’era nessun disertore e sono andati via. Mio bisnonno ha rimesso il forcone dove l’aveva preso ed è tornato in casa a bere un bicchier d’acqua, aspettando la sera per andare a fumare una sigaretta con suo figlio, mio nonno, il disertore.
Mi han detto che il giorno dopo, quando davvero Archimede doveva andare a voltare il fieno, il forcone s’è poi spaccato proprio nel punto in cui l’aveva stretto il giorno prima. Ne hanno dovuto comprare uno nuovo, che c’erano pochi soldi anche per un forcone nuovo, a quei tempi. Ma un forcone intero devi sempre avercelo in casa. Metti che arrivano altri due tedeschi.
Mio nonno, il figlio di Archimede, era un disertore. Un giorno era vestito da soldato in un camion di soldati e ha pensato bene di dare un gran pugno sui denti all’autista e di tornare a casa. Solo che, una volta tornato, han dovuto nasconderlo per un bel po’ di tempo, ché lo cercavano, i fascisti e i tedeschi, lo cercavano per metterlo al muro. Archimede ha pensato di nascondere mio nonno, suo figlio, in una concimaia. Ha fabbricato una casetta di qualche metro quadro in legno e l’ha infilata sotto il letame. Mio nonno è stato lì per nove mesi, nella casetta di legno sotto il letame, col mitra puntato verso l’apertura, che all’occorrenza si chiudeva con dell’altro letame, e uscendo solo di notte per fumare una sigaretta e per sgranchire le gambe. Un giorno, però, due tedeschi han bussato alla porta di casa.
Mio bisnonno, Archimede, è uscito e gli ha detto Be’, cosa c’è? Loro volevano fare un giro in casa. Secondo loro mio nonno, il disertore, si nascondeva lì, ma non l’hanno trovato. Allora hanno detto che volevano fare un giro intorno alla casa e Archimede, senza fare una piega, gli dice Va bene, andiamo, aspetta che prendo il forcone che intanto devo rivoltare il fieno. Loro han detto Faccia pure ma si sbrighi. E son partiti alla ricerca del disertore, i tedeschi, e Archimede li accompagnava col forcone, perché doveva andare a rivoltare il fieno.
Mio nonno racconta che ha sentito gli stivali che si avvicinavano alla casetta di legno sotto il letame. Dice che sentiva parlottare e stava col mitra puntato sull’apertura, che era stata chiusa con dell'altro letame. Stava lì trattenendo il respiro e sentiva sempre gli stivali che camminavano intorno alla concimaia e il sudore che scendeva sul viso, il cuore a mille, il dito sul grilletto, e se avessero solo aperto un po’ la porta della casetta di legno lui sparava e come andava andava. Sentiva i passi, gli stivali, poi uno scricchiolio come del legno che si spacca. Una gran paura.
Fuori dalla concimaia c’erano i due tedeschi che giravano intorno alla casa. Quando si sono avvicinati al letame mio bisnonno, Archimede, ha fatto un respiro grandissimo e ha cominciato a stringere il forcone per il manico. Stava fermo, sembrava tranquillo, a vederlo, i due tedeschi non erano mica preoccupati di lui, avevano i mitra, loro. Archimede era impassibile, anzi sembrava anche un po’ scocciato per aver perso del tempo. Però se gli guardavi il braccio c’erano delle vene grosse come dei tubi di ferro che lo attraversavano. E la mano che stringeva il forcone stava spaccando il manico di legno, lo faceva scricchiolare.
Poi niente, i due crucchi si son convinti che lì non c’era nessun disertore e sono andati via. Mio bisnonno ha rimesso il forcone dove l’aveva preso ed è tornato in casa a bere un bicchier d’acqua, aspettando la sera per andare a fumare una sigaretta con suo figlio, mio nonno, il disertore.
Mi han detto che il giorno dopo, quando davvero Archimede doveva andare a voltare il fieno, il forcone s’è poi spaccato proprio nel punto in cui l’aveva stretto il giorno prima. Ne hanno dovuto comprare uno nuovo, che c’erano pochi soldi anche per un forcone nuovo, a quei tempi. Ma un forcone intero devi sempre avercelo in casa. Metti che arrivano altri due tedeschi.
mercoledì 24 febbraio 2010
Schegge di Liberazione: anticipazione
Al mugnaio di Poiano i tedeschi hanno ucciso un figlio e ora, 24 aprile, un tenente SS gli chiede qual è la strada più sicura per il Po: il mugnaio indica la direzione dove sa che c'è un campo di mine, due camion tedeschi vi saltano.
martedì 23 febbraio 2010
Spara che ti passa
La Caserma Romagnoli di Padova, in Via Chiesanuova, era dove io ho fatto il militare. Ho fatto diverse guardie in porta centrale, la porta d'entrata in caserma. Si stava svegli tutta la notte con un fucile Garand in mano dentro la guardiola, guardando la strada.
Davanti c’era un bar. Un american bar dove nel 1993 per bere un gin tonic spendevi diecimila lire. Che era tanto, soprattutto per un baretto. In quel baretto ogni tanto suonava qualcuno, era gentaglia da funky fatto male, un qualche duo finto jazz.
Una sera cantava ***** *******. Io ero di guardia.
Avevo a non più di 15 metri di distanza la faccia di ***** ******* dall’altra parte della strada che cantava. In mano avevo un fucile, nelle giberne due caricatori pieni di proiettili e una baionetta nella fondina.
(da un racconto di Tiziano Fiorveluti)
Davanti c’era un bar. Un american bar dove nel 1993 per bere un gin tonic spendevi diecimila lire. Che era tanto, soprattutto per un baretto. In quel baretto ogni tanto suonava qualcuno, era gentaglia da funky fatto male, un qualche duo finto jazz.
Una sera cantava ***** *******. Io ero di guardia.
Avevo a non più di 15 metri di distanza la faccia di ***** ******* dall’altra parte della strada che cantava. In mano avevo un fucile, nelle giberne due caricatori pieni di proiettili e una baionetta nella fondina.
(da un racconto di Tiziano Fiorveluti)
Biografie essenziali (9)
Antonin Artaud era convinto di avere il bastone di San Patrizio e partì per l'Irlanda. Venne rimpatriato in camicia di forza, subì numerosi elettroshock e morì qualche anno dopo l'uscita dal manicomio. Il bastone invece non è più tornato.
lunedì 22 febbraio 2010
Biografie essenziali (8)
Boris Savinkov era nato incendiario e finito pompiere. Scriveva anche abbastanza male, per essere un russo. Per questi e altri motivi è stato suicidato.
Biografie essenziali (7)
Cesare Pavese lavorava per l'Einaudi. E lavorava talmente tanto da essersi dimenticato di quale donna era innamorato. Così s'è ucciso.
Biografie essenziali (6)
Alberto Moravia... dunque, Alberto Moravia... non mi viene in mente niente. Però è morto.
domenica 21 febbraio 2010
Pensieri in apnea: letture defatiganti
Settima puntata
Non so se è una deformazione maniacale (perchè non posso chiamarla professionale) e non so se è già venuta in mente a qualcuno ma ogni volta che entro in piscina e vado ad appoggiare l'accappatoio sulla ringhiera degli spalti (perchè a Carpi abbiamo le tribune con gli spalti, che credete), prima mi volto a destra verso il baldo giovine seduto e mentre lo saluto mi chiedo sempre: "ma cosa legge un bagnino?"
Durante queste nuotate mi son presto reso conto di quanto una mente molto zen, poco propensa alla riflessione e al contempo non soggetta a turbamenti emotivi sia migliore e più reattiva in acqua. L'interrogativo diventa così sempre più pressante: cosa legge il responsabile dell'incolumità collettiva di noi liberi e disarticolati nuotatori della pausa pranzo? certo non potrà affrontare per le cause sovraccitate saggi filosofici, scandali politici, romanzi d'avventura, gossip del bel mondo, futuri futuribili,recensioni canagliesche, biografie epiche, fotografie incantatrici, horror inquietanti, voluminosi deplian religiosi, reportage esclusivi, fantasy sognanti, gialli intricati, autobiografie pruriginose, storie secolari, tentatrici ricette culinarie...
A ripensarci il grado zero della lettura (se esistesse) si dovrebbe costruire da qui: tutto ciò che non turba l'animo acquatico di un bagnino intento nello svolgimento della sua professione.
Ho in mente tre finalisti: Tiramolla, le militaresche e morganiane Riviste di Meccanica e Famiglia Cristiana.
...
Cosa faccio? chiamo lo stato più piccolo del mondo e regalo un abbonamento?
Non so se è una deformazione maniacale (perchè non posso chiamarla professionale) e non so se è già venuta in mente a qualcuno ma ogni volta che entro in piscina e vado ad appoggiare l'accappatoio sulla ringhiera degli spalti (perchè a Carpi abbiamo le tribune con gli spalti, che credete), prima mi volto a destra verso il baldo giovine seduto e mentre lo saluto mi chiedo sempre: "ma cosa legge un bagnino?"
Durante queste nuotate mi son presto reso conto di quanto una mente molto zen, poco propensa alla riflessione e al contempo non soggetta a turbamenti emotivi sia migliore e più reattiva in acqua. L'interrogativo diventa così sempre più pressante: cosa legge il responsabile dell'incolumità collettiva di noi liberi e disarticolati nuotatori della pausa pranzo? certo non potrà affrontare per le cause sovraccitate saggi filosofici, scandali politici, romanzi d'avventura, gossip del bel mondo, futuri futuribili,recensioni canagliesche, biografie epiche, fotografie incantatrici, horror inquietanti, voluminosi deplian religiosi, reportage esclusivi, fantasy sognanti, gialli intricati, autobiografie pruriginose, storie secolari, tentatrici ricette culinarie...
A ripensarci il grado zero della lettura (se esistesse) si dovrebbe costruire da qui: tutto ciò che non turba l'animo acquatico di un bagnino intento nello svolgimento della sua professione.
Ho in mente tre finalisti: Tiramolla, le militaresche e morganiane Riviste di Meccanica e Famiglia Cristiana.
...
Cosa faccio? chiamo lo stato più piccolo del mondo e regalo un abbonamento?
si parla di:
feuilleton,
pensieri in apnea
Due minuti d'odio (2)
Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia. Il pubblico sovrano. La lotta di classe in tv: Costanzo, Bersani, Termini Imerese. La prima, la seconda e la terza fila. La quarta, la quinta, tutte le altre a seguire. Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia. La coda di cavallo, i leccaculi, i paraculi. «Mancano i fiori sul palcoscenico», sono le tagliatelle di nonna Pina. Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia. Il tenore, il nano di corte, il pubblico sovrano. Dodici. Televoto, stop al televoto, la giuria demoscopica, la giuria. I regi carabinieri con i pennacchi, con i pennacchi. Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia. Vamolà.
sabato 20 febbraio 2010
Inutili distici
Il Festival della canzone a Sanremo,
periodo che ogni anno, sì, io temo,
è un valido simbolo di democrazia,
lobby e partiti per la supremazia.
periodo che ogni anno, sì, io temo,
è un valido simbolo di democrazia,
lobby e partiti per la supremazia.
Biografie essenziali (5)
Stephen King una volta ha detto basta, non scrivo più romanzi. Poi ne ha scritti degli altri. Infatti non è ancora morto.
mercoledì 17 febbraio 2010
Per elogio diviso stroncatura: Cesare Zavattini
Stamattina ho finito di leggere "Non libro Più disco" di Cesare Zavattini. E insomma. Un gran bel zavai (italianizzato: zavaglio, sinonimo di lavoro, affare, oggetto ingombrante). Bello davvero. Scritto nel 1969 ti lascia addosso tutta l'inquietudine e la bizzarra fantasia di un baldo vecchio sporcaccione nel turbinio delle rivolte studentesche, quando la rivoluzione sembrava fatta e lui ci aveva 67 anni e poteva ormai permettersi di dire qualsiasi cosa. Ci sono frasi che meriterebbero ore di meditazione, stupore per il fatto che gli son finite adosso (con una d sola, perché così sembra un planare dolce che poi rimane lì, attaccato al corpo), come:
Non so ma sono.
Ho raggiunto il vertice dell'esattezza e della volgarità.
Se fossi nato un secolo prima, la montagna di parole che ho sopra sarebbe stata meno greve di un secolo?
Sperma Tricolore.
Proviamo una grande tristezza anche senza pubblicarla.
Ambivo inventare un numero tra l'uno e il venti.
Rumore di piedi collettivi.
Se abbiamo sbagliato pagheremo, paghiamo anche se non si sbaglia.
Di alcune persone esiste solo il contrario.
È il tempo dell'odio e col nasconderlo lo perpetuate.
Come amo le cose a una a una.
Fra cento anni patiremo in cifre.
Conoscere o non conoscere le vittime, di minuto in minuto la differenza si affievolisce.
Noi siam diventati più cort delle parol scritte.
Non riconosco che lo spavento dei libri è più assoluto di quello delle cose.
Purtroppo mentre leggevo tutto questo uno sgradevole prurito mi saliva, qualcosa d'irritante, sottocutaneo, un'irritazione montante, una scartavetrata sui nervi che a un certo punto mi son dovuto fermare e scrivere scattoso: C'è poi da dire che se ti vengo a parlare lo scopriamo subito quanti secoli d'ingiustizia fatta e patita c'hai sotto la lingua...
Non so perché ma dopo mi son sentito meglio.
Anche se anche adesso continuo a grattarmi un po'.
Non so ma sono.
Ho raggiunto il vertice dell'esattezza e della volgarità.
Se fossi nato un secolo prima, la montagna di parole che ho sopra sarebbe stata meno greve di un secolo?
Sperma Tricolore.
Proviamo una grande tristezza anche senza pubblicarla.
Ambivo inventare un numero tra l'uno e il venti.
Rumore di piedi collettivi.
Se abbiamo sbagliato pagheremo, paghiamo anche se non si sbaglia.
Di alcune persone esiste solo il contrario.
È il tempo dell'odio e col nasconderlo lo perpetuate.
Come amo le cose a una a una.
Fra cento anni patiremo in cifre.
Conoscere o non conoscere le vittime, di minuto in minuto la differenza si affievolisce.
Noi siam diventati più cort delle parol scritte.
Non riconosco che lo spavento dei libri è più assoluto di quello delle cose.
Purtroppo mentre leggevo tutto questo uno sgradevole prurito mi saliva, qualcosa d'irritante, sottocutaneo, un'irritazione montante, una scartavetrata sui nervi che a un certo punto mi son dovuto fermare e scrivere scattoso: C'è poi da dire che se ti vengo a parlare lo scopriamo subito quanti secoli d'ingiustizia fatta e patita c'hai sotto la lingua...
Non so perché ma dopo mi son sentito meglio.
Anche se anche adesso continuo a grattarmi un po'.
si parla di:
buone letture,
Cesare Zavattini,
pensieri in cattività
Cornice Storica (4)
Se tra venti trent'anni mi chiederanno che festival era questo gli dirò che la gente stava davanti al festival come davanti alle vetrine, che già dice tutto secondo me; ecco cosa dirò di questo festival.
martedì 16 febbraio 2010
Il mangiagatti
Lo zio di mio nonno non l’ho mai conosciuto. Ora come ora non saprei nemmeno dire quale fosse il suo nome, ma so che era il fratello di mia bisnonna, quella Galavotti Angiolina, cognome e nome, detta Bionda detta Scelba, della quale abbiam già parlato qualche tempo fa. Lo zio di mio nonno lo chiamavano Al Màgnagàt, il mangiagatti, e non era una gran bella persona, era un sadico.
A quel tempo, prima e durante la guerra, non è che fosse così insolito mangiare i gatti. Al Màgnagàt però non si limitava al pasto, lui era un sadico. Li prendeva e li bolliva vivi. Ci toglieva magari la pelle che loro erano ancora in vita e poi li lasciava correre per casa, e alla fine li buttava nella pignatta bollente così come capitava. Mia bisnonna, la Bionda, gli diceva sempre Te sé c’at faré ‘na bruta fein, cajoun (Te sì che farai una brutta fine, coglione).
Al Màgnagàt non gliene fregava niente di quello che gli dicevano, era un sadico. Gli piaceva ogni tanto prendere un topino e scuoiarlo dal collo in giù. E il topino dolorante si dibatteva senza pelle nel corpo, rimaneva solo un po’ di pellicina sulla testa a mo’ di criniera. E infatti Al Màgnagàt metteva il topino sul tavolo e diceva Biònda, veh chè, veh che bel liunsein (Bionda, guarda qua, guarda che bel leoncino). E mia bisnonna, la Bionda, esausta gli gridava sempre Guerda c’at faré ‘na brota fein, te, cajoun d’un cajoun (Guarda che farai una brutta fine, te, coglione d’un coglione).
Lo zio di mio nonno, Al Màgnagàt, l’han mandato in Jugoslavia a combattere. Solo che sul finire della guerra gli jugoslavi non volevano un granché bene agli italiani, erano anche un po’ dei sadici. Così lo zio di mio nonno, il mangiagatti, stava morendo di fame e di freddo da solo in mezzo alla Jugoslavia. E mi hanno raccontato che ha tagliato in due la pancia del suo cavallo per scaldarcisi dentro, come Luke Skywalker sul pianeta Hoth, solo che il cavallo era anche lui denutrito e talmente malato che non serviva nemmeno più per quello scopo. Allora lui, a piedi, bussava di porta in porta chiedendo un po’ d’acqua, magari del cibo, ma niente, gli jugoslavi con gli italiani ce l’avevano proprio a morte, eran dei sadici.
Lo zio di mio nonno, Al Màgnagàt, il mangiagatti, è morto di fame, così, da solo in mezzo alla Jugoslavia, non si sa neanche dove l’hanno sepolto. Quando mia bisnonna l’ha saputo, che gliel’avrà comunicato un appuntato dell’esercito o non so chi, quando l’ha saputo ha detto Ecco mo, al saijva me, al saijva c’al fèva na bruta fein, c’al cajoun d'un cajoun d'un cajoun (Ecco, lo sapevo io, lo sapevo che faceva una brutta fine, quel coglione d'un coglione d'un coglione). E non ha versato una lacrima.
A quel tempo, prima e durante la guerra, non è che fosse così insolito mangiare i gatti. Al Màgnagàt però non si limitava al pasto, lui era un sadico. Li prendeva e li bolliva vivi. Ci toglieva magari la pelle che loro erano ancora in vita e poi li lasciava correre per casa, e alla fine li buttava nella pignatta bollente così come capitava. Mia bisnonna, la Bionda, gli diceva sempre Te sé c’at faré ‘na bruta fein, cajoun (Te sì che farai una brutta fine, coglione).
Al Màgnagàt non gliene fregava niente di quello che gli dicevano, era un sadico. Gli piaceva ogni tanto prendere un topino e scuoiarlo dal collo in giù. E il topino dolorante si dibatteva senza pelle nel corpo, rimaneva solo un po’ di pellicina sulla testa a mo’ di criniera. E infatti Al Màgnagàt metteva il topino sul tavolo e diceva Biònda, veh chè, veh che bel liunsein (Bionda, guarda qua, guarda che bel leoncino). E mia bisnonna, la Bionda, esausta gli gridava sempre Guerda c’at faré ‘na brota fein, te, cajoun d’un cajoun (Guarda che farai una brutta fine, te, coglione d’un coglione).
Lo zio di mio nonno, Al Màgnagàt, l’han mandato in Jugoslavia a combattere. Solo che sul finire della guerra gli jugoslavi non volevano un granché bene agli italiani, erano anche un po’ dei sadici. Così lo zio di mio nonno, il mangiagatti, stava morendo di fame e di freddo da solo in mezzo alla Jugoslavia. E mi hanno raccontato che ha tagliato in due la pancia del suo cavallo per scaldarcisi dentro, come Luke Skywalker sul pianeta Hoth, solo che il cavallo era anche lui denutrito e talmente malato che non serviva nemmeno più per quello scopo. Allora lui, a piedi, bussava di porta in porta chiedendo un po’ d’acqua, magari del cibo, ma niente, gli jugoslavi con gli italiani ce l’avevano proprio a morte, eran dei sadici.
Lo zio di mio nonno, Al Màgnagàt, il mangiagatti, è morto di fame, così, da solo in mezzo alla Jugoslavia, non si sa neanche dove l’hanno sepolto. Quando mia bisnonna l’ha saputo, che gliel’avrà comunicato un appuntato dell’esercito o non so chi, quando l’ha saputo ha detto Ecco mo, al saijva me, al saijva c’al fèva na bruta fein, c’al cajoun d'un cajoun d'un cajoun (Ecco, lo sapevo io, lo sapevo che faceva una brutta fine, quel coglione d'un coglione d'un coglione). E non ha versato una lacrima.
lunedì 15 febbraio 2010
Biografie essenziali (4)
Nicolaj Gogol ha scritto racconti su un naso e un cappotto smarriti, poi voleva scrivere la divina commedia in prosa e intanto incitava la moglie a frustare i servi. Alla fine è morto.
Biografie essenziali (3)
Marcel Proust era un precisino. Una volta ha scritto la parola Fin, poi è morto.
Biografie essenziali (2)
Jack Kerouac viveva con la madre. Gli piaceva da matti il Bebpop. Beveva un casino e per questo è morto.
domenica 14 febbraio 2010
Pensieri in apnea: come un pesce fuor d'acqua
Sesta Puntata
E niente. Questa settimana, per un motivo o per l'altro, non son riuscito ad andare in piscina fino a giovedì. Sarà stata la frustrazione dell'incontro sempre posticipato o una serie di piccole disavventure che mi stanno lasciando il fiato corto ma questa settimana io e l'acqua non siamo andati d'accordo. A dirla tutta devo essere stato io a non andare d'accordo con lei, salvo interpretazioni animistiche. Si è rivelata un ottimo barometro umorale. E basta. No, anzi:
E niente. Questa settimana, per un motivo o per l'altro, non son riuscito ad andare in piscina fino a giovedì. Sarà stata la frustrazione dell'incontro sempre posticipato o una serie di piccole disavventure che mi stanno lasciando il fiato corto ma questa settimana io e l'acqua non siamo andati d'accordo. A dirla tutta devo essere stato io a non andare d'accordo con lei, salvo interpretazioni animistiche. Si è rivelata un ottimo barometro umorale. E basta. No, anzi:
"Quando finisci ti sembra di aver capito tutto ma quando ci torni devi ricominciare tutto da capo. La piscina è come la vita." Nina StiparicE domani ci torno.
si parla di:
feuilleton,
pensieri in apnea
venerdì 12 febbraio 2010
Le luci del quartiere
Sera. In automobile. Sto riaccompagnando mio fratello a casa dopo una giornata all'università.
Abitiamo in un quartiere di Carpi quasi residenziale e certamente gerontocratico: Cibeno.
Quando dal centro ci trasferimmo qui avevo 10 anni ed ero abituato a una via chiusa con 1 condominio, 9 case e 23 bambini. A Cibeno, nella mia via di 28 ville e villette a schiera, ho trovato una simpaticissima sedicenne (troppo grande per me) e un coetaneo invisibile alla fine della via che non ho mai visto. Le sue notizie mi giungevano dalla nonna o dalla mamma quando incontravano la mia. - Dovremmo farli giocare insieme, prima o poi... ma le mura delle villette sono mura di castello. Chissà dov'è andato a finire, non ricordo nemmeno come si chiamava...
Quando qualche anno dopo da ragazzini ci dividevamo il quartiere in territori tra due bande per scontrarci, eravamo talmente pochi e disseminati tra le vie che c'impiegavamo il pomeriggio a radunarci e quando era ora di fare a botte, ormai era buio e la cena era pronta.
Matteo: Hai visto? hanno cambiato le luci, prima erano bianche, ora son tutte arancioni.
Io: Hai ragione! sai che non mi ricordo quando l'han fatto?
Matteo: Boh, non lo so. Ma mi piacciono.
Io: Credo che centri qualcosa col risparmio energetico e tutte quelle storie lì. Non cambi migliaia di lampioni tutti in un colpo...
Matteo: Prima, con tutto quel bianco, si notava solo l'asfalto grigio, adesso il verde degli alberi è più forte, si vede di più.
Io: A me sembra di essere in un film noir anni '30. Tipo gangster, proibizionismo, fumo e mitragliatrici.
Matteo: Sarebbe bello se fosse tutto buio...
Io: Sei sicuro?
Nella mente mi si affollarono le classiche immagini di caos legate al buio nelle città: danneggiamenti, paura, saccheggi, impunità per i criminali, istinti nocivi che si risvegliano. Poi scacciai tutte queste immagini hollywoodiane, mi voltai un secondo. Mio fratello era sorridente, allegro ma serissimo. Allora ho capito.
L'umanità al buio dovrebbe dare il meglio di sé, senza il timore o la speranza di essere visti e riconosciuti.
Decisamente la prova del nove di ogni utopia.
Siamo pronti?
Abitiamo in un quartiere di Carpi quasi residenziale e certamente gerontocratico: Cibeno.
Quando dal centro ci trasferimmo qui avevo 10 anni ed ero abituato a una via chiusa con 1 condominio, 9 case e 23 bambini. A Cibeno, nella mia via di 28 ville e villette a schiera, ho trovato una simpaticissima sedicenne (troppo grande per me) e un coetaneo invisibile alla fine della via che non ho mai visto. Le sue notizie mi giungevano dalla nonna o dalla mamma quando incontravano la mia. - Dovremmo farli giocare insieme, prima o poi... ma le mura delle villette sono mura di castello. Chissà dov'è andato a finire, non ricordo nemmeno come si chiamava...
Quando qualche anno dopo da ragazzini ci dividevamo il quartiere in territori tra due bande per scontrarci, eravamo talmente pochi e disseminati tra le vie che c'impiegavamo il pomeriggio a radunarci e quando era ora di fare a botte, ormai era buio e la cena era pronta.
Matteo: Hai visto? hanno cambiato le luci, prima erano bianche, ora son tutte arancioni.
Io: Hai ragione! sai che non mi ricordo quando l'han fatto?
Matteo: Boh, non lo so. Ma mi piacciono.
Io: Credo che centri qualcosa col risparmio energetico e tutte quelle storie lì. Non cambi migliaia di lampioni tutti in un colpo...
Matteo: Prima, con tutto quel bianco, si notava solo l'asfalto grigio, adesso il verde degli alberi è più forte, si vede di più.
Io: A me sembra di essere in un film noir anni '30. Tipo gangster, proibizionismo, fumo e mitragliatrici.
Matteo: Sarebbe bello se fosse tutto buio...
Io: Sei sicuro?
Nella mente mi si affollarono le classiche immagini di caos legate al buio nelle città: danneggiamenti, paura, saccheggi, impunità per i criminali, istinti nocivi che si risvegliano. Poi scacciai tutte queste immagini hollywoodiane, mi voltai un secondo. Mio fratello era sorridente, allegro ma serissimo. Allora ho capito.
L'umanità al buio dovrebbe dare il meglio di sé, senza il timore o la speranza di essere visti e riconosciuti.
Decisamente la prova del nove di ogni utopia.
Siamo pronti?
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energia,
m'illumino di meno,
pensieri in provincia
mercoledì 10 febbraio 2010
La Musica del Mondo
Ultimamente mi sento un po' accerchiato da un personaggio e dai suoi effimeri o concreti segnali di rimando, un po' come Wile E. Coyote quando lancia una freccia esplosiva firmata ACME e dopo esser uscita dallo schermo se la ritrova alle spalle.
Più di un mese fa, alla radio, radio 2, trasmissione Dispenser, tanto per esser precisi, ascoltavo la vita di Nikola Tesla. Tra le scoperte e le meraviglie, ho sentito, e m'è rimasto impresso, che odiava il suo illustre collega e datore di lavoro Thomas Edison, che, incapace di senso dell'umorismo, si licenziò per una battuta infelice dell'illustre americano e che si ritrovò a scavare fossati sempre per l'azienda di Edison prima di crearsi una società in proprio.
Nella mia mente, alquanto ingenua in questo filone agiografico, per tutto il programma Tesla continuava ad avere le sembianze di David Bowie, come s'era visto nel film The Prestige, magari più brutto e senza occhi bicolori, ma pur sempre slavo nella pelle, nei capelli e negli occhi.
Qualche sera dopo Micamat, un amico di Sant'Arcangelo di Romagna, mi regala 100 dinari serbi e immaginate la mia sorpresa: eccolo lì. Nikola Tesla, in tutto il suo splendore. Moro, baffi e occhi scuri, giacca grigia e camicia bianca, in posa aristocratica da pensatore. Sembrava lo zio di Kafka.
Più di un mese fa, alla radio, radio 2, trasmissione Dispenser, tanto per esser precisi, ascoltavo la vita di Nikola Tesla. Tra le scoperte e le meraviglie, ho sentito, e m'è rimasto impresso, che odiava il suo illustre collega e datore di lavoro Thomas Edison, che, incapace di senso dell'umorismo, si licenziò per una battuta infelice dell'illustre americano e che si ritrovò a scavare fossati sempre per l'azienda di Edison prima di crearsi una società in proprio.
Nella mia mente, alquanto ingenua in questo filone agiografico, per tutto il programma Tesla continuava ad avere le sembianze di David Bowie, come s'era visto nel film The Prestige, magari più brutto e senza occhi bicolori, ma pur sempre slavo nella pelle, nei capelli e negli occhi.
Qualche sera dopo Micamat, un amico di Sant'Arcangelo di Romagna, mi regala 100 dinari serbi e immaginate la mia sorpresa: eccolo lì. Nikola Tesla, in tutto il suo splendore. Moro, baffi e occhi scuri, giacca grigia e camicia bianca, in posa aristocratica da pensatore. Sembrava lo zio di Kafka.
Quella sera stessa mi son ricordato di Coffee & Cigarettes dove Meg e Jack White (mio sosia - o io il suo) parlano di Tesla e di una bobina costruita dal mio doppelgänger.
Finalmente oggi ho avuto modo di rivedere quell'episodio e di rifletterci un po' su. Il pianeta terra come cassa di risonanza acustica. Ecco cosa pensava Tesla. Il mondo come un'immensa struttura in grado di amplificare e condurre, riverberare e disperdere i suoni che la vita produce. Un'immagine seducente, certo affascinante ma forse non così amabile.
Poi non stupitevi se certe mattine avete mal di testa e non sapete perché.
Finalmente oggi ho avuto modo di rivedere quell'episodio e di rifletterci un po' su. Il pianeta terra come cassa di risonanza acustica. Ecco cosa pensava Tesla. Il mondo come un'immensa struttura in grado di amplificare e condurre, riverberare e disperdere i suoni che la vita produce. Un'immagine seducente, certo affascinante ma forse non così amabile.
Poi non stupitevi se certe mattine avete mal di testa e non sapete perché.
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lunedì 8 febbraio 2010
Nero, il primo
Negli anni in cui cadeva il muro di Berlino, a Modena cominciavano a vedersi i primi marocchini veri e propri. Nel senso che venivano dal Marocco. Il Resto del Carlino lo aveva anche messo in un articolo "4 marocchini veri e propri" per segnalare che venivano dal Marocco. Perchè altrimenti venivano dal Sud, dalla "bassitalia" come si diceva in Emilia, che era al Nord perché ancora non c'era la Lega Nord. Noi facevamo sempre i cruciverba del Resto del Carlino. Li facevamo in bar e una volta Giulio Capelli vide scritto "Per alcuni danno la felicità", 5 lettere. Scrisse "CANNE" e lasciammo lì il resto del cruciverba, dopo aver riso un bel po'. Una volta una definizione del cruciverba del Carlino diceva "Polvere per il bucato" e aveva 6 lettere. Rimanemmo a pensare per un sacco di tempo. "Detersivo" non poteva essere e arrivammo a suggerire marche di detergenti piuttosto che riempire quelle 6 caselle. Non poteva essere... e invece risolvendo il resto arrivammo a vedere che "polvere per il bucato" era EROINA. Sempre il Carlino intitolò una volta "Un uomo e un marocchino uccisi a Bologna". Insomma, roba da far impallidire i manifesti delle truppe neonazi di Saja, e il tutto fatto senza malizia, con emiliana bonarietà.
Al Circolo 25 Aprile una sera si fece vivo un tipo piuttosto strano. Era NERO. Un NERO al quartiere Spada non si era mai visto. Non nel 1990. Magari di giorno, con le coperte in spalla e che suonava i campanelli. Ma di sera, un nero girare vestito normale non si era mai visto, non era neppure immaginabile. Gli avventori del bar si divisero subito in tre fazioni. A fianco di quelli che guardavano il fenomeno curiosamente ma tenendosi fuori da ogni possibile reazione, ci furono quelli che iniziarono a guardare allo straniero come nei film western si guarda agli stranieri (Ehi tu, straniero!) e quelli che iniziarono a guardarlo come se fosse entrata una rockstar, un qualcuno che avrebbe dato un po' di pepe alle loro miserevoli vite. Io facevo parte, manco a dirlo, di questi ultimi.
Andai dunque a scambiare quattro chiacchiere col. Si chiamava Hassan, veniva da Marrakech in Marocco e parlava un italiano di trenta vocaboli, più o meno. Lo straniero iniziò a conversare con me in francese e, stupito che qualcuno conoscesse una lingua che anch'egli potesse parlare fluentemente, scelse me come interlocutore privilegiato in tutta la compagnia, dove altre persone iniziarono a chiacchierare con lui facendosi raccontare la sua storia. Gli offrimmo da bere, incuranti che la sua legge coranica lo proibisse e lui d'altra parte bevve con gioia. Da lontano vedevamo gli sguardi in cagnesco di chi aveva fissato lo straniero con odio tipicamente razziale. Vedevamo gli sguardi e sentivamo i mugugni.
Lo straniero se ne andò a fine serata, ci salutammo con un "Au revoir" che lasciava intendere che aveva trovato un posto dove stare quando si sentiva solo. Tanto che qualche sera dopo lo straniero tornò e NON ERA SOLO, ma era con due suoi amici NERI COME LUI. Un nero al quartiere Spada ormai si era visto, ma TRE NERI MAI. E comunque non erano in tanti quelli che avevano visto un nero. TRE NERI mai. Li salutammo, parlammo un poco in francese e un poco in italiano, ci divertimmo parecchio tutta sera.
Un paio di sere dopo Hassan tornò al Circolo. Per il gruppo dei vecchi razzistoni era troppo da sopportare. Dopo 2 sere di mugugni partirono all'attacco. A guidare la cordata c'erano due individui che posso con sicurezza annoverare tra i più grandi fiaccamaroni della storia dell'umanità. Caliumi Ettore detto Calli, ancora oggi da me usato per antonomasia quando uno mi rompe i coglioni (Oh, ma chi sei? Caliumi Ettore?) L'altro, per ironia della sorte, era chiamato IL NEGRO. Ma pronunciato dicendo la E e la O velocissimamente, come se bruciassero.
I due individui cominciarono dicendo che Hassan doveva andare fuori. Noi chiedemmo perché e loro tirarono fuori il sempre valido argomento della tessera ARCI. Quotidianamente entravano personaggi che non facevano la tessera. Alcuni erano ormai stanziali e frequentavano il circolo 25 Aprile come avventori abituali, ma senza tessera. L'argomento però era valido, per cui io e altri quattro ragazzi ci guardammo negli occhi e scucimmo 2000 lire a testa per pagare la tessera al Signor Hassan. A quel punto il gruppo dei vecchioni, dei Caliumi Ettore, dei Negro (sempre pronunciato come se la E e la O scottassero) non aveva più un argomento.
Impreparati a una mossa del genere dissero dunque "NO, la deve pagare lui sennò non vale" come se quella fosse una maratona e il povero Hassan fosse il Dorando nazionale e noi il giudice che ne garantiva la squalifica davanti alla regina. Obbiettammo, ma loro insistettero come se la nostra obiezione avesse dato senso alla loro aberrante logica.
A quel punto, il sempre pratico Giulio Capelli chiuse il discorso. "Va bene, queste cose le ripetete davanti ai carabinieri" e chiamò Bowie, l'appellativo che davamo a Davide Bovi all'epoca gestore del Circolo, dicendogli che voleva un gettone del telefono (c'erano i gettoni, fatevi spiegare da un vecchio) per telefonare in caserma e segnalare un episodio di razzismo.
I tipi rimasero di sasso, davanti a tutti. Hassan venne altre volte al circolo, a volte portando degli amici. Che entravano tranquillamente. Senza tessera, tanto nessuno diceva niente.
E poi scoprimmo che il fratello del Negro (sempre pronunciato con la E e la O che scottavano) non odiava i neri. Anzi... ma questa è un'altra storia. La storia del vescovo. Che prima o poi racconterò.
(da un racconto di Tiziano Fiorveluti)
Al Circolo 25 Aprile una sera si fece vivo un tipo piuttosto strano. Era NERO. Un NERO al quartiere Spada non si era mai visto. Non nel 1990. Magari di giorno, con le coperte in spalla e che suonava i campanelli. Ma di sera, un nero girare vestito normale non si era mai visto, non era neppure immaginabile. Gli avventori del bar si divisero subito in tre fazioni. A fianco di quelli che guardavano il fenomeno curiosamente ma tenendosi fuori da ogni possibile reazione, ci furono quelli che iniziarono a guardare allo straniero come nei film western si guarda agli stranieri (Ehi tu, straniero!) e quelli che iniziarono a guardarlo come se fosse entrata una rockstar, un qualcuno che avrebbe dato un po' di pepe alle loro miserevoli vite. Io facevo parte, manco a dirlo, di questi ultimi.
Andai dunque a scambiare quattro chiacchiere col. Si chiamava Hassan, veniva da Marrakech in Marocco e parlava un italiano di trenta vocaboli, più o meno. Lo straniero iniziò a conversare con me in francese e, stupito che qualcuno conoscesse una lingua che anch'egli potesse parlare fluentemente, scelse me come interlocutore privilegiato in tutta la compagnia, dove altre persone iniziarono a chiacchierare con lui facendosi raccontare la sua storia. Gli offrimmo da bere, incuranti che la sua legge coranica lo proibisse e lui d'altra parte bevve con gioia. Da lontano vedevamo gli sguardi in cagnesco di chi aveva fissato lo straniero con odio tipicamente razziale. Vedevamo gli sguardi e sentivamo i mugugni.
Lo straniero se ne andò a fine serata, ci salutammo con un "Au revoir" che lasciava intendere che aveva trovato un posto dove stare quando si sentiva solo. Tanto che qualche sera dopo lo straniero tornò e NON ERA SOLO, ma era con due suoi amici NERI COME LUI. Un nero al quartiere Spada ormai si era visto, ma TRE NERI MAI. E comunque non erano in tanti quelli che avevano visto un nero. TRE NERI mai. Li salutammo, parlammo un poco in francese e un poco in italiano, ci divertimmo parecchio tutta sera.
Un paio di sere dopo Hassan tornò al Circolo. Per il gruppo dei vecchi razzistoni era troppo da sopportare. Dopo 2 sere di mugugni partirono all'attacco. A guidare la cordata c'erano due individui che posso con sicurezza annoverare tra i più grandi fiaccamaroni della storia dell'umanità. Caliumi Ettore detto Calli, ancora oggi da me usato per antonomasia quando uno mi rompe i coglioni (Oh, ma chi sei? Caliumi Ettore?) L'altro, per ironia della sorte, era chiamato IL NEGRO. Ma pronunciato dicendo la E e la O velocissimamente, come se bruciassero.
I due individui cominciarono dicendo che Hassan doveva andare fuori. Noi chiedemmo perché e loro tirarono fuori il sempre valido argomento della tessera ARCI. Quotidianamente entravano personaggi che non facevano la tessera. Alcuni erano ormai stanziali e frequentavano il circolo 25 Aprile come avventori abituali, ma senza tessera. L'argomento però era valido, per cui io e altri quattro ragazzi ci guardammo negli occhi e scucimmo 2000 lire a testa per pagare la tessera al Signor Hassan. A quel punto il gruppo dei vecchioni, dei Caliumi Ettore, dei Negro (sempre pronunciato come se la E e la O scottassero) non aveva più un argomento.
Impreparati a una mossa del genere dissero dunque "NO, la deve pagare lui sennò non vale" come se quella fosse una maratona e il povero Hassan fosse il Dorando nazionale e noi il giudice che ne garantiva la squalifica davanti alla regina. Obbiettammo, ma loro insistettero come se la nostra obiezione avesse dato senso alla loro aberrante logica.
A quel punto, il sempre pratico Giulio Capelli chiuse il discorso. "Va bene, queste cose le ripetete davanti ai carabinieri" e chiamò Bowie, l'appellativo che davamo a Davide Bovi all'epoca gestore del Circolo, dicendogli che voleva un gettone del telefono (c'erano i gettoni, fatevi spiegare da un vecchio) per telefonare in caserma e segnalare un episodio di razzismo.
I tipi rimasero di sasso, davanti a tutti. Hassan venne altre volte al circolo, a volte portando degli amici. Che entravano tranquillamente. Senza tessera, tanto nessuno diceva niente.
E poi scoprimmo che il fratello del Negro (sempre pronunciato con la E e la O che scottavano) non odiava i neri. Anzi... ma questa è un'altra storia. La storia del vescovo. Che prima o poi racconterò.
(da un racconto di Tiziano Fiorveluti)
domenica 7 febbraio 2010
Pensieri in apnea: un flusso clorato d'incoscienza
quinta puntata
Inspiro, conto una bracciata, due e tre, giro la testa, respiro, spingo il braccio e ancora conto, uno due e tre, giro la testa dall'altra parte, respiro e via...perché sono qui? a volte me lo chiedo, forse è la ricerca di una "consapevolezza" del corpo, dai...figurati...lo saprò bene dove finisce e dove inizia il mio corpo, Ahia! maledetti galleggianti di merda, c'infili il mignolo e trac! s'interrompe tutto, tiro su la testa, improvviso un recupero e riparto, bestemmiando tra le bolle (che Nina non approverebbe)... Dedalus nell'Ulisse non è consapevole del proprio corpo, ma come si fa a capirlo?...Lo vedi camminare storto? lo vedi sbagliare la distanza tra gomito e bancone in un pub? Tocco, tocco il muro, piego le gambe, spingo col braccio per girarmi e poi via, un'altro giro...effetto pin-ball, se lo fai bene sfrutti l'energia cinetica e non perdi il ritmo. Ma io lo faccio male, c'è pure un anello murato alla fine delle corsia, giusto in mezzo. da piccolo m'han sempre detto di non toccarlo perché un ragazzo grande, nella foga della gara ci si è aggrappato e nello slancio della ripartenza si son spezzate le dita, o forse ce le ha lasciate lì. Un crampetto sotto il piede, va bene, ecco qui un segnale dal mio corpo, un segnale molto rozzo ma efficace, fermati o cambia altrimenti non ti aiuto più, prossima vasca a rana che ci rilassiamo, ok?...ma tanto, se non riesco a ripartire bene normalmente cosa mi viene da provare la capriola, che poi non ci riesco e faccio tutte quelle mosse, che agli asciutti devo sembrare un delfino impazzito o uno del nuoto sincronizzato fuori orario. Eppure ci provo, conto le bracciate che mancano, sei e cinque, quattro e tre, due e uno, e... non ci riesco, dovrei buttare giù la spalla, ranicchiarmi e ruotare su un asse ma bevo, lo so che se faccio così bevo, l'acqua mi entra nel naso, bruciando, e mi piglia un balordone che passo cinque minuti sul bordo vasca a riprendermi. Ma perché voglio far la capriola? voglio sfidare i veterani della quarta corsia? dimostrargli che anch'io ce la posso fare? No, credo che sia perché adoro la lontra. Non scherzo. Ho visto una lontra all'acquario gigante di Lisbona qualche anno fa. Faceva capriole su capriole e continuo a credere che sia l'essere più felice che abbia mai visto. Forse voglio essere una lontra...braccio alto, mano in planata, appena sotto il livello giro il palmo, spingo l'acqua indietro, verso le gambe, le gambe dritte! le gambe dettano la direzione, non devono contro bilanciare le braccia, importante! La capriola però non la faccio perché ho paura di rompermi di nuovo la testa, era un tuffo ma cambia poco, anzi, poco ci mancava che ci rimanevo secco, ecco cos'è la consapevolezza del corpo...c'è un'altra cosa che un po' mi stranisce, a stile libero, quando le braccia sono indietro, una sotto, l'altra che sta uscendo e giro la testa per respirare, ecco, quello è un momento in cui mi sento completamente indifeso, credo che basterebbe niente da fuori per affossarmi. Non è un bel momento né una bella sensazione, che sottilmente sento ogni volta ma è molto vicino a un altro momento che è piccolo, infinitesimale, che forse, a starci attento, accade due, massimo tre volte al giorno: sono quei millesimi di secondo in cui ho esaurito un movimento e sto per ripartire, ogni cosa e persona intorno a me si muove mentre io sono leggero, sospeso nell'acqua, bloccato e consapevole. In quel momento voglio essere acqua. In quel momento lo sono.
Inspiro, conto una bracciata, due e tre, giro la testa, respiro, spingo il braccio e ancora conto, uno due e tre, giro la testa dall'altra parte, respiro e via...perché sono qui? a volte me lo chiedo, forse è la ricerca di una "consapevolezza" del corpo, dai...figurati...lo saprò bene dove finisce e dove inizia il mio corpo, Ahia! maledetti galleggianti di merda, c'infili il mignolo e trac! s'interrompe tutto, tiro su la testa, improvviso un recupero e riparto, bestemmiando tra le bolle (che Nina non approverebbe)... Dedalus nell'Ulisse non è consapevole del proprio corpo, ma come si fa a capirlo?...Lo vedi camminare storto? lo vedi sbagliare la distanza tra gomito e bancone in un pub? Tocco, tocco il muro, piego le gambe, spingo col braccio per girarmi e poi via, un'altro giro...effetto pin-ball, se lo fai bene sfrutti l'energia cinetica e non perdi il ritmo. Ma io lo faccio male, c'è pure un anello murato alla fine delle corsia, giusto in mezzo. da piccolo m'han sempre detto di non toccarlo perché un ragazzo grande, nella foga della gara ci si è aggrappato e nello slancio della ripartenza si son spezzate le dita, o forse ce le ha lasciate lì. Un crampetto sotto il piede, va bene, ecco qui un segnale dal mio corpo, un segnale molto rozzo ma efficace, fermati o cambia altrimenti non ti aiuto più, prossima vasca a rana che ci rilassiamo, ok?...ma tanto, se non riesco a ripartire bene normalmente cosa mi viene da provare la capriola, che poi non ci riesco e faccio tutte quelle mosse, che agli asciutti devo sembrare un delfino impazzito o uno del nuoto sincronizzato fuori orario. Eppure ci provo, conto le bracciate che mancano, sei e cinque, quattro e tre, due e uno, e... non ci riesco, dovrei buttare giù la spalla, ranicchiarmi e ruotare su un asse ma bevo, lo so che se faccio così bevo, l'acqua mi entra nel naso, bruciando, e mi piglia un balordone che passo cinque minuti sul bordo vasca a riprendermi. Ma perché voglio far la capriola? voglio sfidare i veterani della quarta corsia? dimostrargli che anch'io ce la posso fare? No, credo che sia perché adoro la lontra. Non scherzo. Ho visto una lontra all'acquario gigante di Lisbona qualche anno fa. Faceva capriole su capriole e continuo a credere che sia l'essere più felice che abbia mai visto. Forse voglio essere una lontra...braccio alto, mano in planata, appena sotto il livello giro il palmo, spingo l'acqua indietro, verso le gambe, le gambe dritte! le gambe dettano la direzione, non devono contro bilanciare le braccia, importante! La capriola però non la faccio perché ho paura di rompermi di nuovo la testa, era un tuffo ma cambia poco, anzi, poco ci mancava che ci rimanevo secco, ecco cos'è la consapevolezza del corpo...c'è un'altra cosa che un po' mi stranisce, a stile libero, quando le braccia sono indietro, una sotto, l'altra che sta uscendo e giro la testa per respirare, ecco, quello è un momento in cui mi sento completamente indifeso, credo che basterebbe niente da fuori per affossarmi. Non è un bel momento né una bella sensazione, che sottilmente sento ogni volta ma è molto vicino a un altro momento che è piccolo, infinitesimale, che forse, a starci attento, accade due, massimo tre volte al giorno: sono quei millesimi di secondo in cui ho esaurito un movimento e sto per ripartire, ogni cosa e persona intorno a me si muove mentre io sono leggero, sospeso nell'acqua, bloccato e consapevole. In quel momento voglio essere acqua. In quel momento lo sono.
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venerdì 5 febbraio 2010
Rivelazioni domestiche
Ecco, domani, tra poche ore, andrò a sentire cosa si dice su un libro che si chiama Silenzio in Emilia, in questo posto qui, e siccome lo so da qualche settimana che c'è questa conferenza e il libro l'ho letto all'inizio dell'anno, ultimamente mi ritrovo a guardare fuori dai finestrini, come a cercare di rubare un'immagine, un dettaglio nascosto, qualcosa. Questo di guardare fuori dai finestrini mentre guido è un bellissimo vizio che mi ha passato mio zio F. contadino (bis-zio in verità, fratello di mia nonna) che c'ha la terra, l'orto e la vite e dai 16 ai 20 anni l'ho aiutato in campagna durante la vendemmia. Prima di allora filavo dritto sul motorino, guai a distrarmi, la strada era l'unica certezza, gli ostacoli entravano nella mia visuale solo per essere superati, aggirati o (caso raro) insultati dopo frenata in extremis. Avevo anche caschi integrali delle dimensioni della zucca magica di Snoopy per la sempiterna tranquillità della madre apprensiva, cosa che certo non favoriva l'allargarsi dei miei orizzonti. Dicevo, mio zio contadino tutte le volte che si finiva la giornata e si riempivano le barchesse (termine tecnico per rimorchi piccoli in grado di passare sotto i filari della vite) di uva, mi tirava su sul trattore e mi portava a casa dove avremmo riempito il rimorchio grande (io) per poi andare alla cantina (lui). E non potete immaginare la goduria che si prova a salire su un rimorchio colmo straripante e rastrellare tutto perché l'uva non cada durante le sbandate. Perché mio zio è così: per lui muoversi nello spazio in un tempo breve non è sufficiente, ci si muove nello spazio in un tempo breve per osservare intorno il piccolo mondo intorno ai suoi campi. Guarda che bella vite a spalliera! Ma com'è venuto bene quel campo! Il canale è quasi secco, è meglio se vado a controllare il pozzo... Eh, qui Ettore ha sbagliato col concime, era meglio dello stallatico... Per mio zio questi tragitti a due metri d'altezza e alla velocità massima di 70 km/h sono una ricognizione quasi militaresca, una perlustrazione sul campo di battaglia ma l'incanto del mondo prende sempre il sopravvento e non riesco a contare le volte in cui abbiam rischiato di finire nei fossi o di andar dritti ad una curva perché lo zio si stupiva dei colori, della disposizione, delle luci, delle sfumature, delle parole non dette ma disegnate dal suo splendido mondo. Ora, questo vizio qui vien pure a me, quasi esclusivamente quando son solo e di notte, come i licantropi. Un vizio innocuo, o quasi, che però ti attanaglia verso il paesaggio e non ti molla più: butti l'occhio, decelleri, t'accosti, guardi, riparti, fai quattrocento metri e sei di nuovo meravigliato, ti sforzi di andare a casa alla veloce, è molto tardi e cominci a sentirti stanco, ma comunque sai che guarderai lo stesso, e magari senza fermarti, rischiando, controsterzando quando finisci di là dalla tua corsia e buttando rapide occhiate verso la direzione della strada. Lunedì sera, da due giorni era passata la luna piena, c'era la nebbia, come al solito, tornavo da Mirandola e il vizio m'ha riassalito. La nebbia era diversa, scintillante, rada, lasciava intuire le cose e le riempiva di luccichii. Tra Rovereto e San Marino ho intravisto, immerso nella neve, nascosto nel mezzo dei campi, inghirlandato dalla nebbia a lustrini, un pioppo coi rami alti verso la notte e ho capito: l'Emilia.
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amarcord,
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pensieri in provincia
Due minuti d’odio
La volontà di potenza alla guida: i furgoni e i furgonati, la golf, la terza e la quarta corsia. Cioè, capito, insomma, dicevo, praticamente. Bondi, Paolo Cento. I gatti al guinzaglio, i cani col cappotto. Assolutamente sì. Assolutamente no. Il decaffeinato e il caffè macchiato freddo in tazza grande, il cornetto con la crema e con l’uvetta insieme. La volontà di potenza alla guida: il suv, i parcheggi sommari, il sorpasso a destra. Le borsette minuscole e quelle senza tracolla. Il parlare con la bocca a cul di gallina: un attimino, tra un pochino. I pacchetti di sigarette sul marciapiede, le merde. La volontà di potenza alla guida: la punto ribassata, il sorpasso. Gli addii che non siano alla stazione dei treni. I compleanni dei trentenni, i compleanni. La pashmina da uomo, le scarpe lucide, il portafogli. La volontà di potenza alla guida. Vamolà.
giovedì 4 febbraio 2010
Cornice Storica (3)
Se tra venti trent'anni mi chiederanno che assolto era questo gli dirò che la gente stava davanti all'assolto come davanti alle vetrine, che già dice tutto secondo me; ecco cosa dirò di quest'assolto.
si parla di:
berlusconi,
cornice storica,
futuro prossimo venturo
Cornice Storica (2)
Se tra venti trent'anni mi chiederanno che epoca era questa gli dirò che era l'epoca dell'assoluto, che già dice tutto secondo me; ecco che cosa dirò di quest'epoca. Assolutamente sì.
mercoledì 3 febbraio 2010
Revisionismo con la penna rossa
La maestra di terza elementare, che in questi giorni va in pensione, ha trovato un quaderno di religione tra le sue cose. Ha pensato bene di consegnarlo al proprietario legittimo, dopo così tanti anni pensava che gli avrebbe fatto piacere; e infatti io, che sono il proprietario legittimo, ho cominciato subito a sfogliarlo con un sorriso sulle labbra che non non vi dico.
Verso la fine del quaderno, in data 4-5-88, si parla del perdono a partire dalla famosissima frase Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Dopo la maestra di religione collega con questo un altro episodio di perdono, quello dove Pietro chiede a Gesù: Signore quante volte dovrò io perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte? (“volte”, nel quaderno, stava sopra il testo in bella calligrafia scritto con la penna rossa. Insomma, me l'ero dimenticato e la maestra ha corretto.) Gesù, a Pietro, gli risponde: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Ora, a pensarci bene, a quasi trentunanni suonati, settanta volte sette è un numero finito, quindi prima o poi si finisce anche di perdonare il fratello che pecca. Ma intanto continuavo a sfogliare il quaderno con una contentezza che non sapete.
Poi la maestra di religione ha voluto darci un compito per casa dal titolo Racconta di quando hai saputo perdonare. Un bel compito, mi vien da pensare, proprio bello. Devo essere arrivato a casa da scuola tutto eccitato e devo averlo scritto d'un fiato. Ho scritto:
Verso la fine del quaderno, in data 4-5-88, si parla del perdono a partire dalla famosissima frase Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Dopo la maestra di religione collega con questo un altro episodio di perdono, quello dove Pietro chiede a Gesù: Signore quante volte dovrò io perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte? (“volte”, nel quaderno, stava sopra il testo in bella calligrafia scritto con la penna rossa. Insomma, me l'ero dimenticato e la maestra ha corretto.) Gesù, a Pietro, gli risponde: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Ora, a pensarci bene, a quasi trentunanni suonati, settanta volte sette è un numero finito, quindi prima o poi si finisce anche di perdonare il fratello che pecca. Ma intanto continuavo a sfogliare il quaderno con una contentezza che non sapete.
Poi la maestra di religione ha voluto darci un compito per casa dal titolo Racconta di quando hai saputo perdonare. Un bel compito, mi vien da pensare, proprio bello. Devo essere arrivato a casa da scuola tutto eccitato e devo averlo scritto d'un fiato. Ho scritto:
Alberto continuava a insultarmi tutti i giorni; io mi arrabbiavo ma era troppo forte. Un giorno decisi di perdonarlo e da quel giorno siamo stati sempre amici.
La seconda parte era palesemente una bugia per prendere Bravo, come voto, e farlo vedere alla mamma. Ma la prima parte è tutta vera. Alberto era troppo forte, mi insultava, ma se rispondevo mi menava. Alla maestra dev'essere sembrato strano quel “era troppo forte” buttato lì alla fine di una frase. Troppo forte in che senso? mi deve aver chiesto, Come mai era troppo forte? E io gli avrò risposto una cosa del tipo Maestra, Alberto mi mena se gli rispondo quando mi insulta. Un impeto di violenza che nell'ora di religione non andava mica bene, secondo lei, non era un bell'esempio per gli altri. Allora ha preso la penna rossa e ha aggiunto delle parole, con la sua calligrafia; parole non mie: io scrivevo in blu. Il compito è diventato:
Alberto continuava a insultarmi tutti i giorni; io mi arrabbiavo ma era troppo forte la sua insistenza. Un giorno decisi di perdonarlo e da quel giorno siamo stati sempre amici.
Adesso, che ho quasi trentunanni, a leggere quella correzione con la penna rossa tra le mie verità blu mi son sentito tradito. No, maestra, non è vero, non è l'insistenza: Alberto mi mena. Alberto se vuole mi mena anche adesso, che siamo quasi trentunenni suonati. E penso che in così tanti anni avrò sicuramente già perdonato Alberto almeno settanta volte sette, come minimo. Adesso poi basta. C'ho un nervoso che non potete neanche immaginare.
martedì 2 febbraio 2010
Cornice Storica
Se tra venti trent'anni mi chiederanno che epoca era questa gli dirò che la gente stava davanti alle edicole come davanti alle vetrine, che già dice tutto secondo me; ecco che cosa dirò di quest'epoca.
si parla di:
amarcord,
cornice storica,
futuro prossimo venturo
lunedì 1 febbraio 2010
La cosa più morale del mondo
(sottotitolo) Un amico sincero a volte fa male-malissimo
La Claudia Malavasi era una gran figa. Era una di quelle ragazze che ti ipnotizzavano, almeno a me. Io ne ero cottissimo. La Claudia Malavasi suonava il flauto. Faceva il conservatorio, non so a che anno fosse. Una volta l'avevano chiamata a far finta di suonare nella pubblicità dei Ferrero Rocher, quella dove un lui e una lei sono a teatro e si apre un sipario e c'è della gente che suona e parte la musica cogliona dei Ferrero Rocher. Era prima che Ambrogio si facesse sfruttare dalla riccona capitalista che aveva voglia di qualcosa di buono. La Claudia Malavasi credeva che i dischi di musica pop si registrassero dal vivo, come fanno le orchestre con la classica. Una cosa abbastanza ingenua per una musicista di circa 18/19 anni, ma la Claudia Malavasi era abbastanza ingenua, a volte. Il che non sminuiva il fatto che fosse una gran figa.
La Claudia Malavasi si mise con Buccia. Buccia in realtà si chiamava Marco Silvestri. Giocava a pallone con me, io ero terzino e lui ala. Era veramente forte e faceva un sacco di gol. Andavamo d'accordo, anche se lui era un fighino e io uno sfigato. Non so perché gli venne dato il nome Buccia, non so neanche cosa volesse dire. So solo che se lo chiamavano Buccia i grandi non diceva nulla, se lo chiamavamo Buccia io o gli altri, invece, si incazzava. Buccia aveva un amico del cuore che si chiamava Pietro Cavani. Pietro Cavani era stato in classe con me dalle elementari alle superiori dove le bocciature ci separarono. Pietro Cavani venne chiamato per qualche tempo "gene", non so se come abbreviativo di "genetica" o che. Poi un giorno si cominciò a chiamarlo "il Robboso" o “Robbo” e anche qui il motivo mi è ignoto visto che la droga era un affare decisamente ancora leggero dalle mie parti (sarebbe diventato pesante solo tempo dopo e non certo per lui).
Buccia era un ragazzo felice. Aveva una bella ragazza che lo amava, aveva tanti amici di cui uno preziosissimo. Poi un giorno si decise di andare in quella che si chiamava ancora Cecoslovacchia. Il muro di Berlino era appena caduto e si ironizzava sulle cecoslovacche, ponendo l'accento sulla parte bovina della nazionalità e chiamandole, con virile e codarda ironia, cecosloporche, cecoslozozze, cecoslotroie. Insomma, si andava a fare quello che oggi vien chiamato "turismo sessuale". Alcuni maschi negavano, ma si diceva avessero la coda di paglia. E si scherzava. Robbo scherzava poco sull'argomento. Lui non sarebbe andato a Praga. Ma scherzava poco e nessuno capiva perché. Nessuno se lo chiedeva, a dire il vero.
Comunque, Robbo scherzante o no, le ragazze dei partecipanti alla spedizione cecoslofiga venivano pungolate ogni giorno dai restanti membri (pardon) della compagnia del bar, con allusioni e battute sempre più grevi. Ognuna fingeva indifferenza oppure scommetteva con cieca fiducia sulla fedeltà del proprio ragazzo. Anche la Claudia Malavasi, a dire il vero, scherzava un bel po’ sull'argomento, ma lo faceva con simpatia e una buona dose di senso dell'umorismo.
Poco prima di partire però accadde una cosa strana. Robbo andò da Buccia, lo chiamò in un angolo e gli disse molto candidamente che, secondo lui, la Claudia Malavasi lo stava puntando. Insomma, gli fece capire che forse era il caso di dubitare della fedeltà della sua amata. Buccia ribatté che sicuramente l'amico suo si era fatto un'idea sbagliata e lo ringraziò dell'avvertimento. Robbo però non aveva ancora finito il suo discorso. Disse con Buccia che se la Claudia Malavasi ci avesse provato, lui ci sarebbe stato alla grande. Disse per la precisione che lui non avrebbe fatto nulla per incitarla, ma qualora lei ci avesse provato lui avrebbe fatto quello che ogni uomo avrebbe fatto con una gran bella figa.
Buccia si incazzò non poco. I due discussero animatamente e quella sera si lasciarono con una certa acrimonia. Il giorno seguente Buccia partiva per Praga. Si era appena dopo Natale, il 28 o il 29, una cosa così.
L'ultimo dell'anno, con quelli rimasti a casa, si andò tutti a cena da un amico. Poi a Bondeno di Suzzara, in provincia di Mantova. C'era una festa enorme, si diceva. Eravamo tutti ubriachi. Durante la spedizione a Bondeno di Suzzara, Robbo e la Claudia erano sul sedile posteriore della macchina di nonricordochi. La Claudia, che era una gran figa, quel giorno era in tiro particolare e ricordo che aveva una specie di boa di struzzo e un vestito luccicante che ne esaltava le forme e le tette, delle tette decisamente belle.
Narra la leggenda che disse al Robbo "Marco va con le cecoslovacche e io vado con gli italiani" prima di sprofondare con lui sul sedile posteriore. Non entrarono nel locale dove c'era la megafesta a Bondeno di Suzzara. Rimasero lì a fare quello che un uomo e una donna che si attraggono reciprocamente fanno, senza pudore.
Il giorno dopo qualcuno sapeva già del fattaccio, ma si pensò di non dire nulla o commentare. La faccenda rimase un segreto tra iniziati. Un paio di giorni e i partecipanti alla spedizione oltrecortina ritornarono. Robbo andò SUBITO da Buccia e gli raccontò, per filo e per segno, ogni cosa nei minimi dettagli. Buccia si incazzò non poco, si sentì tradito dalla sua donna e dal suo migliore amico.
Buccia e la Claudia Malavasi si mollarono. La Claudia Malavasi non si mise con Robbo, ma restò sola per un po’ e con la reputazione macchiata.
Tutta la compagnia diede del bastardo a Robbo per quello che aveva fatto. Solo io e mio fratello, ricordo bene questa cosa, dicemmo che Robbo era "un grande, forse il più grande di tutti". Robbo infatti ci disse poi che "tanto lei lo avrebbe fatto comunque o con me o con un altro". Nessuno capì l'estremo rigore morale alla base della sua decisione.
Robbo tempo dopo sparì dalla compagnia. Nessuno lo vide più. Lasciò in bar e in bottega dei conti da pagare enormi che saldò dopo mesi di sacrifici e ristrettezze.
(da un racconto di Tiziano Fiorveluti – storia vera, nomi inventati ma plausibili)
La Claudia Malavasi era una gran figa. Era una di quelle ragazze che ti ipnotizzavano, almeno a me. Io ne ero cottissimo. La Claudia Malavasi suonava il flauto. Faceva il conservatorio, non so a che anno fosse. Una volta l'avevano chiamata a far finta di suonare nella pubblicità dei Ferrero Rocher, quella dove un lui e una lei sono a teatro e si apre un sipario e c'è della gente che suona e parte la musica cogliona dei Ferrero Rocher. Era prima che Ambrogio si facesse sfruttare dalla riccona capitalista che aveva voglia di qualcosa di buono. La Claudia Malavasi credeva che i dischi di musica pop si registrassero dal vivo, come fanno le orchestre con la classica. Una cosa abbastanza ingenua per una musicista di circa 18/19 anni, ma la Claudia Malavasi era abbastanza ingenua, a volte. Il che non sminuiva il fatto che fosse una gran figa.
La Claudia Malavasi si mise con Buccia. Buccia in realtà si chiamava Marco Silvestri. Giocava a pallone con me, io ero terzino e lui ala. Era veramente forte e faceva un sacco di gol. Andavamo d'accordo, anche se lui era un fighino e io uno sfigato. Non so perché gli venne dato il nome Buccia, non so neanche cosa volesse dire. So solo che se lo chiamavano Buccia i grandi non diceva nulla, se lo chiamavamo Buccia io o gli altri, invece, si incazzava. Buccia aveva un amico del cuore che si chiamava Pietro Cavani. Pietro Cavani era stato in classe con me dalle elementari alle superiori dove le bocciature ci separarono. Pietro Cavani venne chiamato per qualche tempo "gene", non so se come abbreviativo di "genetica" o che. Poi un giorno si cominciò a chiamarlo "il Robboso" o “Robbo” e anche qui il motivo mi è ignoto visto che la droga era un affare decisamente ancora leggero dalle mie parti (sarebbe diventato pesante solo tempo dopo e non certo per lui).
Buccia era un ragazzo felice. Aveva una bella ragazza che lo amava, aveva tanti amici di cui uno preziosissimo. Poi un giorno si decise di andare in quella che si chiamava ancora Cecoslovacchia. Il muro di Berlino era appena caduto e si ironizzava sulle cecoslovacche, ponendo l'accento sulla parte bovina della nazionalità e chiamandole, con virile e codarda ironia, cecosloporche, cecoslozozze, cecoslotroie. Insomma, si andava a fare quello che oggi vien chiamato "turismo sessuale". Alcuni maschi negavano, ma si diceva avessero la coda di paglia. E si scherzava. Robbo scherzava poco sull'argomento. Lui non sarebbe andato a Praga. Ma scherzava poco e nessuno capiva perché. Nessuno se lo chiedeva, a dire il vero.
Comunque, Robbo scherzante o no, le ragazze dei partecipanti alla spedizione cecoslofiga venivano pungolate ogni giorno dai restanti membri (pardon) della compagnia del bar, con allusioni e battute sempre più grevi. Ognuna fingeva indifferenza oppure scommetteva con cieca fiducia sulla fedeltà del proprio ragazzo. Anche la Claudia Malavasi, a dire il vero, scherzava un bel po’ sull'argomento, ma lo faceva con simpatia e una buona dose di senso dell'umorismo.
Poco prima di partire però accadde una cosa strana. Robbo andò da Buccia, lo chiamò in un angolo e gli disse molto candidamente che, secondo lui, la Claudia Malavasi lo stava puntando. Insomma, gli fece capire che forse era il caso di dubitare della fedeltà della sua amata. Buccia ribatté che sicuramente l'amico suo si era fatto un'idea sbagliata e lo ringraziò dell'avvertimento. Robbo però non aveva ancora finito il suo discorso. Disse con Buccia che se la Claudia Malavasi ci avesse provato, lui ci sarebbe stato alla grande. Disse per la precisione che lui non avrebbe fatto nulla per incitarla, ma qualora lei ci avesse provato lui avrebbe fatto quello che ogni uomo avrebbe fatto con una gran bella figa.
Buccia si incazzò non poco. I due discussero animatamente e quella sera si lasciarono con una certa acrimonia. Il giorno seguente Buccia partiva per Praga. Si era appena dopo Natale, il 28 o il 29, una cosa così.
L'ultimo dell'anno, con quelli rimasti a casa, si andò tutti a cena da un amico. Poi a Bondeno di Suzzara, in provincia di Mantova. C'era una festa enorme, si diceva. Eravamo tutti ubriachi. Durante la spedizione a Bondeno di Suzzara, Robbo e la Claudia erano sul sedile posteriore della macchina di nonricordochi. La Claudia, che era una gran figa, quel giorno era in tiro particolare e ricordo che aveva una specie di boa di struzzo e un vestito luccicante che ne esaltava le forme e le tette, delle tette decisamente belle.
Narra la leggenda che disse al Robbo "Marco va con le cecoslovacche e io vado con gli italiani" prima di sprofondare con lui sul sedile posteriore. Non entrarono nel locale dove c'era la megafesta a Bondeno di Suzzara. Rimasero lì a fare quello che un uomo e una donna che si attraggono reciprocamente fanno, senza pudore.
Il giorno dopo qualcuno sapeva già del fattaccio, ma si pensò di non dire nulla o commentare. La faccenda rimase un segreto tra iniziati. Un paio di giorni e i partecipanti alla spedizione oltrecortina ritornarono. Robbo andò SUBITO da Buccia e gli raccontò, per filo e per segno, ogni cosa nei minimi dettagli. Buccia si incazzò non poco, si sentì tradito dalla sua donna e dal suo migliore amico.
Buccia e la Claudia Malavasi si mollarono. La Claudia Malavasi non si mise con Robbo, ma restò sola per un po’ e con la reputazione macchiata.
Tutta la compagnia diede del bastardo a Robbo per quello che aveva fatto. Solo io e mio fratello, ricordo bene questa cosa, dicemmo che Robbo era "un grande, forse il più grande di tutti". Robbo infatti ci disse poi che "tanto lei lo avrebbe fatto comunque o con me o con un altro". Nessuno capì l'estremo rigore morale alla base della sua decisione.
Robbo tempo dopo sparì dalla compagnia. Nessuno lo vide più. Lasciò in bar e in bottega dei conti da pagare enormi che saldò dopo mesi di sacrifici e ristrettezze.
(da un racconto di Tiziano Fiorveluti – storia vera, nomi inventati ma plausibili)
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