lunedì 30 gennaio 2012
Biografie essenziali (129)
Massimo Bontempelli fu borghese quando tutti erano futuristi, futurista quando tutti tornavano all'ordine, fascista espulso quando tutti marciavano compatti e fu eletto senatore per il fronte popolare quando tutti votavano D.C. Tutti gli dicono che è morto impazzito nel 1961 ma lui è realmente e magicamente convinto di essere ancora tra noi. Non troppo a torto.
domenica 29 gennaio 2012
sabato 28 gennaio 2012
venerdì 27 gennaio 2012
Il bambino con il pigiama a righe
La mia ossessione per i film sull'Olocausto e sui Campi di concentramento è di vecchia data, affonda nelle pagine di Storia e arriva fino alla fine dell'Università. Più di tutto, mi hanno sempre interessato le tecniche, i modi e le capacità di rappresentare un momento storico che, lo so, non sarà mai completo nella mente di un individuo senza l'esperienza fisica di aver calpestato quell'erba. Rappresentazioni di ogni ordine e grado: di tedeschi, di ebrei, di polacchi, di francesi, di italiani. Chiunque in qualunque modo e il cinema è quel modo che si è cimentata molto spesso per muovere le maglie della finzione affinché lo spettatore ne esca distrutto o incattivito o impazzito o commosso.
Una delle cose principali che non mi interessano quando guardo un film con questo tema è la trama: ovvio. La seconda cosa che non mi affascina è l'ambientazione, poiché i colori sono sempre gli stessi, l'immaginario è sempre molto simile a quello del film precedente e il crollo emotivo, ovvero il contrasto fra il dentro e il fuori o il prima e il dopo, è sempre evidente. La terza cosa a cui non faccio caso è la presenza di bambini, malati e cattivi.
In sostanza, i film sull'Olocausto sono quel terreno in cui gli estremi sono di troppo e fanno parte del normale; forse è sbagliato chiamarli estremi proprio perché sono normali.
I bambini, nei film sull'Olocausto, hanno sempre lo sguardo intelligente, silente, critico, forte e marmorizzato in una ingenuità che, un certo punto nel film, inizia a vivere su un binario parallelo che scorre accanto a loro. Gli autori, i registi mettono i bambini in un limbo e sulle loro bocche vive il passaggio principale tra il prima e il dopo e il dentro e fuori. Loro rappresentano l'ambiente e quindi il futuro e sono spesso quelli che come un testimone prendono in mano quello che verrà, diventando registratori moventi della Storia e degli adulti, impegnati, invece, a capire, a inorridire, a soffrire. I bambini vivono sempre un pezzo di vita per gli adulti, mentre sono in quel limbo e tentano di mettersi a loro pari, ma con strumenti totalmente diversi.
Il film Il bambino con il pigiama a righe l'ho visto da poco e non l'avevo visto al cinema, perché il tema Olocausto abbinato a due protagonisti bambini mi pareva usuale.
E infatti il film è normale. È orrido, cupo, freddo, critico, spaventoso; lo spazio è abitato dai due bambini e per questo si ridimensiona: è il loro punto di vista che comanda e quindi lo spazio o si allarga, se la testa è in movimento, o si restringe, se le urla, i toni, gli stivali dei militari dettano il tempo.
I due bambini protagonisti sono diversi, sono opposti: il bambino tedesco contro il bambino ebreo. La recinsione che li separa, lo spazio attraversato dalla parola attraverso un buco, lo scambiarsi i vestiti, alla fine, ma non la sorte.
La sorte, nel film Il bambino con il pigiama a righe, è la fine.
E la fine, si sa, è data, è storica ma è proprio la normalità della fine che fa la differenza: te la aspetti ma ti scompone; il cinema e la sua rappresentazione non ti aiutano, la finzione della possibilità della memoria non esiste, non ti soccorre.
Semplicemente, non c'è futuro in questo film, non c'è Storia che sarà avvalorata. Il consumo della tragedia umana che si tiene per mano ingenua e nascosta con addosso un pigiama a righe avviene, eccome se avviene: non c'è sogno che tenga.
L'ingenuità è massacrata e nessun bambino sarà salvato.
Una delle cose principali che non mi interessano quando guardo un film con questo tema è la trama: ovvio. La seconda cosa che non mi affascina è l'ambientazione, poiché i colori sono sempre gli stessi, l'immaginario è sempre molto simile a quello del film precedente e il crollo emotivo, ovvero il contrasto fra il dentro e il fuori o il prima e il dopo, è sempre evidente. La terza cosa a cui non faccio caso è la presenza di bambini, malati e cattivi.
In sostanza, i film sull'Olocausto sono quel terreno in cui gli estremi sono di troppo e fanno parte del normale; forse è sbagliato chiamarli estremi proprio perché sono normali.
I bambini, nei film sull'Olocausto, hanno sempre lo sguardo intelligente, silente, critico, forte e marmorizzato in una ingenuità che, un certo punto nel film, inizia a vivere su un binario parallelo che scorre accanto a loro. Gli autori, i registi mettono i bambini in un limbo e sulle loro bocche vive il passaggio principale tra il prima e il dopo e il dentro e fuori. Loro rappresentano l'ambiente e quindi il futuro e sono spesso quelli che come un testimone prendono in mano quello che verrà, diventando registratori moventi della Storia e degli adulti, impegnati, invece, a capire, a inorridire, a soffrire. I bambini vivono sempre un pezzo di vita per gli adulti, mentre sono in quel limbo e tentano di mettersi a loro pari, ma con strumenti totalmente diversi.
Il film Il bambino con il pigiama a righe l'ho visto da poco e non l'avevo visto al cinema, perché il tema Olocausto abbinato a due protagonisti bambini mi pareva usuale.
E infatti il film è normale. È orrido, cupo, freddo, critico, spaventoso; lo spazio è abitato dai due bambini e per questo si ridimensiona: è il loro punto di vista che comanda e quindi lo spazio o si allarga, se la testa è in movimento, o si restringe, se le urla, i toni, gli stivali dei militari dettano il tempo.
I due bambini protagonisti sono diversi, sono opposti: il bambino tedesco contro il bambino ebreo. La recinsione che li separa, lo spazio attraversato dalla parola attraverso un buco, lo scambiarsi i vestiti, alla fine, ma non la sorte.
La sorte, nel film Il bambino con il pigiama a righe, è la fine.
E la fine, si sa, è data, è storica ma è proprio la normalità della fine che fa la differenza: te la aspetti ma ti scompone; il cinema e la sua rappresentazione non ti aiutano, la finzione della possibilità della memoria non esiste, non ti soccorre.
Semplicemente, non c'è futuro in questo film, non c'è Storia che sarà avvalorata. Il consumo della tragedia umana che si tiene per mano ingenua e nascosta con addosso un pigiama a righe avviene, eccome se avviene: non c'è sogno che tenga.
L'ingenuità è massacrata e nessun bambino sarà salvato.
martedì 24 gennaio 2012
Fossòli-Birkenau
Da domani a lunedì 30, due baldi barabbisti (carlo dulinizo e il sottoscritto), cercando di resistere in tutti i modi alla tentazione di cantare robe tristi di Guccini, saltan sul treno per Auschwitz insieme agli studenti delle scuole superiori di Carpi, a Paolo Nori, Carlo Lucarelli, Fabrizio Tavernelli e i Giardini di Mirò. Alla domanda, lecitissima, su cosa ci vadano a fare lassù in Polonia, i due baldi barabbisti (carlo dulinizo e il sottoscritto) non sanno mica rispondervi. Gli han chiesto di andar là, guardasi un po' intorno, vedere cosa succede e poi preparare qualcosa ad hoc durante l'anno e magari per il treno della memoria del 2013, se ci sarà un treno della memoria nel 2013, e soprattutto se ci sarà un 2013.
Intanto, da domattina, il blog passa provvisoriamente sotto il governo tecnico di osvaldo, cioè l'elena. Vedete di non fare o farle fare colpi di Stato o di testa, ché i due baldi barabbisti (carlo dulinizo e il sottoscritto) tornano presto e con degli anticorpi grossi come aeroplani.
Fate i bravi. Ciao.
Intanto, da domattina, il blog passa provvisoriamente sotto il governo tecnico di osvaldo, cioè l'elena. Vedete di non fare o farle fare colpi di Stato o di testa, ché i due baldi barabbisti (carlo dulinizo e il sottoscritto) tornano presto e con degli anticorpi grossi come aeroplani.
Fate i bravi. Ciao.
lunedì 23 gennaio 2012
Dawson Leery
Che poi, forse, ma proprio forse, però almeno un pochino, chissà, c'è della gente che ti mette un po' di speranza, ogni tanto, al mondo; della gente come il ragazzino diciottenne di ieri sera, sul treno regionale "veloce" (detto: della speranza) da Milano a Modena; un ragazzino diciottenne che riesce per due ore a reggere una conversazione con dei trentenni, che scrive dei thriller e li tiene nel computer perché non è ancora convinto, ma intanto ne ha già scritti due, che si deve diplomare e poi, dice, andrà a fare il regista; ed ecco, proprio lì, arriva quel momento che non lo fai, perché hai una specie di contegno atavico nella tua testa trentenne, un inibitore che chissà chi ce l'ha messo, ma è uno di quei momenti in cui dovresti alzarti in piedi a braccia tese, come Rocky, e sentirti speranzoso, forse, almeno un pochino, perché quando gli chiedi quale sia il suo regista preferito, lui senza esitare risponde secco: il più grande di tutti, Steven Spielberg.
mercoledì 18 gennaio 2012
Gli antieroi: Kim Collins, l'ultimo velocista
Io allo sport non ci credo più. Da piccolo ci credevo, ciecamente. Credevo che allenandosi duramente ed essendo magari predisposti, si potessero fare dei risultati straordinari e che quindi il più bravo vincesse sempre. Credevo che lo sport trasmettesse dei valori. Ci credevo, insomma.
Poi, pian piano, scoprimmo il doping, le scommesse e tutte quelle robe lì. Ricordo che un amico una sera, mentre discutevamo su quale sport ci piacesse di più, mi disse "Io non seguo lo sport, io guardo solo il wrestling". Sul momento la frase mi fece ridere tantissimo, pensai di avere di fronte uno eccentrico e anche un po' scemo. Oggi, che non credo più a un risultato, guardo anch'io lo sport in quel modo lì, quando capita. Come uno spettacolo, come se fosse un film del quale non conosco la fine e fin quando non conosco il regista, spero sia un bel film. Come il wrestling, appunto.
Il doping, per quelli della mia generazione, aveva la faccia di Ben Johnson. Rimanemmo stupefatti dal record mondiale di Roma, sembrava fantascienza. Rimanemmo stupefatti anche da quello di Seul, quel 9:79 che sembrava portare l'uomo dentro a una nuova dimensione. Poi arrivò la squalifica per doping. Il mondo intero sembrava volesse fare una super pulizia di tutti gli atleti sporchi, ma alle stesse olimpiadi applaudiva con una punta di sospetto Florence Griffith, che correva come un motorino sorridendo, mentre le altre facevano una fatica della madonna.
E via così, ogni anno c'erano una o due squalifiche per doping e c'erano tempi sempre più sospetti. Atleti che facevano i loro record personali a trentacinque anni, finali dei 100 metri dove in semifinale non ce n'era uno che corresse sopra i 10 secondi.
Poi, nel 2003, successe un fatto strano. Probabilmente ci sono dei momenti nella storia nei quali la lotta al doping sembra vincere, per poi dovere arrendersi di nuovo, visto che in tutto il mondo la polizia arriva sempre dopo che è stato commesso il delitto. Fatto sta che, non si sa bene come, ai mondiali di Parigi ci fu un certo Kim Collins che vinse il titolo mondiale. Non era supermuscoloso e pompatissimo come quelli di solo due anni prima, era di un paese chiamato St.Kitts & Nevis, che contava meno abitanti dello stadio dove si stava svolgendo la gara.
Kim Collins correva in prima corsia. Vinse con un tempo di 10:07, un tempo che sembrava ripescato dalla fine degli anni '70.
Tutti si soffermarono sul fatto che veniva da un piccolo arcipelago tropicale, che alcuni dipinsero come una remota isoletta tutta noci di cocco e spiagge e invece è un paradiso fiscale dei più carogna su questa terra. Altri, più tecnici, fecero notare che la prima corsia era quella riservata ai più scarsi, di solito.
Notando il tempo, alcuni parlarono di una fase di stallo nei 100 metri, un momento nel quale evidentemente non si riuscivano a trovare atleti di rilievo e cose così. In pochi andarono a vedere che nei 200 metri maschili si vinse con il tempo di 20:30, nei 400 metri con il tempo di 44:77, che nella staffetta 4x100 il tempo degli USA, medaglia d'oro, fu superiore ai 38 secondi.
Insomma, i tempi erano alti. In qualche gara vinse qualcuno che non aveva mai vinto, facendo il record nazionale e battendo nomi più blasonati.
...
Non passò tanto prima che si ritornasse alla "normalità". Due anni dopo Gatlin vinse l'oro ai mondiali con 9:88, i 400 tornarono sotto i 44 secondi e così via.
Collins nel 2005 arrivò terzo ai mondiali con 10:05.
...
Oggi siamo di nuovo agli Usain Bolt, che il tempo non me lo ricordo neanche perché sembra che gli abbiano messo un missile nel sedere. Ma vedrete che prima o poi tornerà ad esserci un'edizione dei mondiali o delle olimpiadi dove si tornerà a vincere una medaglia d'oro intorno ai 10 secondi. Quando vi capiterà, godetevela. State assistendo ad un evento storico, anche se il cronometro vuole farvi credere il contrario.
Poi, pian piano, scoprimmo il doping, le scommesse e tutte quelle robe lì. Ricordo che un amico una sera, mentre discutevamo su quale sport ci piacesse di più, mi disse "Io non seguo lo sport, io guardo solo il wrestling". Sul momento la frase mi fece ridere tantissimo, pensai di avere di fronte uno eccentrico e anche un po' scemo. Oggi, che non credo più a un risultato, guardo anch'io lo sport in quel modo lì, quando capita. Come uno spettacolo, come se fosse un film del quale non conosco la fine e fin quando non conosco il regista, spero sia un bel film. Come il wrestling, appunto.
Il doping, per quelli della mia generazione, aveva la faccia di Ben Johnson. Rimanemmo stupefatti dal record mondiale di Roma, sembrava fantascienza. Rimanemmo stupefatti anche da quello di Seul, quel 9:79 che sembrava portare l'uomo dentro a una nuova dimensione. Poi arrivò la squalifica per doping. Il mondo intero sembrava volesse fare una super pulizia di tutti gli atleti sporchi, ma alle stesse olimpiadi applaudiva con una punta di sospetto Florence Griffith, che correva come un motorino sorridendo, mentre le altre facevano una fatica della madonna.
E via così, ogni anno c'erano una o due squalifiche per doping e c'erano tempi sempre più sospetti. Atleti che facevano i loro record personali a trentacinque anni, finali dei 100 metri dove in semifinale non ce n'era uno che corresse sopra i 10 secondi.
Poi, nel 2003, successe un fatto strano. Probabilmente ci sono dei momenti nella storia nei quali la lotta al doping sembra vincere, per poi dovere arrendersi di nuovo, visto che in tutto il mondo la polizia arriva sempre dopo che è stato commesso il delitto. Fatto sta che, non si sa bene come, ai mondiali di Parigi ci fu un certo Kim Collins che vinse il titolo mondiale. Non era supermuscoloso e pompatissimo come quelli di solo due anni prima, era di un paese chiamato St.Kitts & Nevis, che contava meno abitanti dello stadio dove si stava svolgendo la gara.
Kim Collins correva in prima corsia. Vinse con un tempo di 10:07, un tempo che sembrava ripescato dalla fine degli anni '70.
Tutti si soffermarono sul fatto che veniva da un piccolo arcipelago tropicale, che alcuni dipinsero come una remota isoletta tutta noci di cocco e spiagge e invece è un paradiso fiscale dei più carogna su questa terra. Altri, più tecnici, fecero notare che la prima corsia era quella riservata ai più scarsi, di solito.
Notando il tempo, alcuni parlarono di una fase di stallo nei 100 metri, un momento nel quale evidentemente non si riuscivano a trovare atleti di rilievo e cose così. In pochi andarono a vedere che nei 200 metri maschili si vinse con il tempo di 20:30, nei 400 metri con il tempo di 44:77, che nella staffetta 4x100 il tempo degli USA, medaglia d'oro, fu superiore ai 38 secondi.
Insomma, i tempi erano alti. In qualche gara vinse qualcuno che non aveva mai vinto, facendo il record nazionale e battendo nomi più blasonati.
...
Non passò tanto prima che si ritornasse alla "normalità". Due anni dopo Gatlin vinse l'oro ai mondiali con 9:88, i 400 tornarono sotto i 44 secondi e così via.
Collins nel 2005 arrivò terzo ai mondiali con 10:05.
...
Oggi siamo di nuovo agli Usain Bolt, che il tempo non me lo ricordo neanche perché sembra che gli abbiano messo un missile nel sedere. Ma vedrete che prima o poi tornerà ad esserci un'edizione dei mondiali o delle olimpiadi dove si tornerà a vincere una medaglia d'oro intorno ai 10 secondi. Quando vi capiterà, godetevela. State assistendo ad un evento storico, anche se il cronometro vuole farvi credere il contrario.
si parla di:
antieroi,
eroi,
Kim Collins,
vita morte e miracoli
martedì 17 gennaio 2012
Schegge di Liberazione bonus tracks: un ebook
In quasi due anni di Schegge di Liberazione, con tre ebook “ufficiali” e una lista di reading abbastanza lunga, è capitato che ci arrivassero dei post in ritardo perché potessimo metterli nei libri elettrici in uscita; poi ci sono arrivati anche dei documenti, dei disegni, delle foto o degli scritti che qualcuno ci ha mandato così, per poter partecipare al progetto. Tutto questo materiale aggiuntivo, noi l’abbiamo pubblicato sul blog, nelle sezioni “Inediti” e “Documenti”, e adesso ci è venuta voglia di raccoglierlo e di farci un quarto ebook, una specie di album di “bonus tracks”, come fanno le band del rock’n’roll, sperando di fare agli autori e a voi lettori, come si dice, cosa gradita.Si scarica dal blog di Schegge di Liberazione, in pdf (dimensione A5 ecosostenibile per voi che "l'odore della carta"), in epub e in mobi (per quelli coi lettori di libri elettrici).
(Dall'introduzione a Schegge di Liberazione: bonus tracks)
Buona lettura.
__________
update del 17/01 alle 19:33: pdf ed epub in versione 1.1 (abbiamo corretto qualche refuso). Il mobi, adesso arriva anche lui.
lunedì 16 gennaio 2012
Quello che ci fanno le idee semplici e grandi
Kurt Vonnegut, nel 1965, agli autori di fantascienza diceva:
Quindi ciao, Carlo, fai buon viaggio.
E grazie di tutto, figlio di puttana.
Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi, quello che ci fanno gli equivoci tremendi, gli errori, gli incidenti e le catastrofi. Voi siete i soli abbastanza stupidi per tormentarvi al pensiero del tempo e delle distanze senza limiti, dei misteri imperituri, del fatto che stiamo decidendo proprio in questa epoca se il viaggio spaziale del prossimo miliardo di anni o giù di lì sarà il Paradiso o l'Inferno.Ora, io penso che un buon appassionato di fantascienza, anche dopo che ha conosciuto – chessò – I fratelli Karamazov, non possa mai e poi mai diventare un ex appassionato di fantascienza. E quindi oggi è un giorno triste, per ogni buon appassionato di fantascienza che s'affacci sulla metà dei trenta o quarant'anni, almeno. Perché quand'eravamo ragazzini, forse ancor prima di arrivare a Philip K. Dick o a Gibson, cioè a quegli autori che rimangono sullo scaffale del salotto anche dopo che il buon appassionato di fantascienza ha preso altre vie, altre letture, altra letteratura, ancor prima di arrivare lì, forse, c'erano per noi, sì, gli Asimov e i Clarke, ma c'era soprattutto Urania. E Urania aveva, negli anni '80, un famoso direttore coi controcoglioni, uno abbastanza pazzo per capire che la vita è un viaggio spaziale, uno che aveva abbastanza fegato per dire che:
(da Dio la benedica, Signor Rosewater)
basta uno sciopero aeroportuale, un ingorgo sull'autostrada, per far pronunciare da milioni di persone sbigottite la domanda Ma qui dove andremo a finire? È l'anticamera della fantascienza.Anche se non ne ha mai veramente scritta, di fantascienza, quel famoso direttore di Urania, secondo me, entra a pieno titolo nell'olimpo degli autori di fantascienza. Ogni buon appassionato che si rispetti, e che mai e poi mai diventerà un ex appassionato, lo ricorderà, ora e sempre, con gratitudine infinita.
(da I ferri del mestiere. Manuale involontario di scrittura con esercizi svolti, 2004)
Quindi ciao, Carlo, fai buon viaggio.
E grazie di tutto, figlio di puttana.
domenica 15 gennaio 2012
sabato 14 gennaio 2012
Biografie essenziali (128)
Giovanni Papini l'unica cosa leggibile che ha scritto s'intitola Un uomo finito. Aveva trentadue anni.
(da una conversazione notturna col vecchio malvissuto)
(da una conversazione notturna col vecchio malvissuto)
venerdì 13 gennaio 2012
L'articolo (su) IL
Oggi se andate in edicola a comprare il Sole 24 Ore, o se lo leggete in emeroteca, che è una sezione della biblioteca del vostro paese, mica un posto dove si mangia o si beve, trovate nell'inserto IL, verso la fine, un articolo di quel bel personaggio ch'è Alessandro Bonino. Si intitola "E io mi pubblico da solo" e dentro, partendo da Umberto Eco e arrivando al lettore - una filiera molto lunga, credeteci - si parla anche di Schegge di Liberazione, di croccantissima e di Makkox. Click.
giovedì 12 gennaio 2012
Un anno
Adesso ascoltiamo Riders On The Storm, perché oggi, tra qualche minuto, è un anno che non ci sei più. Un anno fa ti abbiamo messa in una vecchia valigia, e il giorno dopo ti abbiamo seppellita sotto un albero, ci siamo accorti dopo che era una vite. Hai fatto un vino buonissimo.
martedì 10 gennaio 2012
Nel mio mondo perfetto (8)
Nel mio mondo perfetto, quando esci dal lavoro ci si vede ancora, tutto l'anno, almeno un po', e nella posta inviata c'è un tastino che, se il destinatario non l'ha ancora letta, te la fa modificare, se la vuoi modificare. Questo, vorrei, nel mio mondo perfetto.
sabato 7 gennaio 2012
Trucchi della borghesia (47)
Tornare da un viaggio all'estero e "oh, finalmente, un caffè" e "oh, finalmente, un cappuccino" e "oh, finalmente, una pizza". (E comunque: oh, finalmente, un caffè; oh, finalmente, un cappuccino; oh, finalmente, una pizza.)
martedì 3 gennaio 2012
Sul finire alla fine dei libri
Ti giuro, Spora, che non mi sono messa, nemmeno per provarle, nessuna delle tue scarpe dai tacchi mirabolanti. Alcune sono davvero sorprendenti, non immaginavo potessero esistere. Però, Spora, una cosa te la devo confessare. Avevo finito Čechov, mi ero portata un'edizione striminzita col monaco nero e altri due racconti, l'avevo finito sulla RER nel raggiungere il tuo loff. Allora, devo confessarti, ho spulciato nella libreria dietro la quale dormiamo, davvero una bella libreria, come tutto il loff, del resto. Ci ho trovato Roth, Joseph Roth, e il suo Fuga senza fine. Io non lo so com'è che non avessi ancora letto Joseph Roth, a trentuno anni compiuti. È la prima cosa che ho pensato. Poi ho pensato anche che era un'edizione comoda, tascabile, di quelle da portarsi dietro per Parigi e leggerle in metro. Cosa vuoi, tutti leggono in metro a Parigi, fa quell'effetto lì. Allora mi sono detta dai lo prendo in prestito, tanto lo finisco andare al sei così glielo rimetto dov'era e nemmeno se ne accorge. Infatti mica te lo volevo dire, di averti preso e portato in giro per Parigi Fuga senza fine di Joseph Roth. Ma è successo che mi è piaciuto da matti, e allora te lo devo dire. Mi è piaciuto dalle prime righe, così tanto che continuavo a ripetermi trentun'anni, Caterina, trentuno anni e te dovevi ancora leggere questa meraviglia. Roba da andarci giù di testa davvero, Spora. L'ho finito ieri, mentre bevevo mezzo litro di Afflingem in un cafè a Montmartre. L'ho finito e sono finita di corsa, con il Many per mano, in metropolitana alla volta di place de la Madeleine. Abbiamo cercato il punto che guarda la Rue Royale. E mi sono seduta lì, alla fine del libro, con la chiesa alle spalle, e superflua come me non c'era nessuno al mondo. Grazie, Spora.
si parla di:
c'è un bel libro,
Joseph Roth,
parigi
lunedì 2 gennaio 2012
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