L'oro femminile dei 100 metri di Sydney 2000 non è ufficialmente stato assegnato. In quella gara vinse Marion Jones che però venne trovata positiva all'antidoping anni dopo e ammise di essere dopata anche ai tempi di Sydney 2000. A quel punto, l'oro sarebbe dovuto andare alla greca Ekythanou che però era stata sospesa per doping nel periodo nel quale si dibatteva la faccenda. Il titolo venne mantenuto vacante. Se volete un bel libro sul doping scaricatevi in rete "Campioni senza valore" di Sandro Donati.
Le olimpiadi di Mosca non furono le prime olimpiadi boicottate da alcuni paesi. La Cina Popolare da anni disertava la kermesse olimpica, ma vi fece ritorno proprio a Mosca. Tuttavia, per protestare contro l'invasione Sovietica dell'Afghanistan, 61 squadre su 142 disertarono la manifestazione, un numero enorme. Altri paesi adottarono soluzioni differenti e talvolta di facciata o di comodo. L'Italia partecipò sotto la bandiera dei cinque cerchi e senza inno di Mameli dopo le vittorie. La Nuova Zelanda mandò alla sfilata una bandiera nera. Curiosamente, l'Afghanistan pertecipò ai giochi, con una delegazione di 11 atleti.
Le gare di nuoto e pallanuoto alle olimpiadi del 1900 a Parigi si tennero nella Senna. Le partite di pallanuoto si trasformarono spesso in autentiche risse visto che le regole erano diverse da paese a paese. In particolare, nella semifinale tra Francia e Germania la squadra tedesca giocò secondo le proprie regole, la squadra francese idem, il tutto diretto da un arbitro britannico con regole ancora differenti. Finì a pugni.
A Città del Messico nel 1968 Dick Fosbury stupì tutti saltando con la schiena rivolta verso l'asticella e vincendo l'oro con 2,24 m. Il sovietico Valery Brummel, campionissimo dello stile ventrale predominante fino a quel momento, disse "È uno stile particolare ed efficace, ma va bene solo per Fosbury. Non prenderà mai piede su larga scala".
La prima medaglia delle olimpiadi venne assegnata ad Atene, lo stesso giorno dell'inaugurazione dei giochi, il 6 aprile 1896. La vinse l'americano James Brendan Connolly, oro nel salto triplo con la misura di 13,71 m. Si presentò a sue spese visto che l'università di Harvard (che frequentava) aveva definito la kermesse olimpica "una frivolezza".
La squadra di doppio Jugoslava di tennis tavolo che si aggiudicò il bronzo a Seoul 1988 era composta da Jasna Fazlic e Gordana Perkucin. Quattro anni dopo le due parteciparono a Barcellona facendo coppia, nonostante il disfacimento dello stato Jugoslavo ora le vedesse contrapposte (una serba, l'altra bosniaca). "Non vedo perché dovremmo smettere di giocare insieme" fu la reazione in un'intervista che si trascinò dietro non poche polemiche.
La disgregazione dello stato Jugoslavo portò anche altre storie incredibili all'edizione di Barcellona 1992. Il sollevatore di pesi bosniaco Mehmed Skander, impiegato da mesi in una postazione da cecchino dall'esercito del suo paese, partì per Barcellona grazie a un ponte aereo organizzato e coordinato dall'ONU e dal CIO assieme ad altri venti atleti. In Spagna gareggiò, nonostante fosse da tempo in condizioni nutrizionali pessime. Dopo la gara (per la cronaca, finì al ventesimo posto) rivolse un appello al mondo per la risoluzione della crisi bosniaca e poi tornò in patria, per continuare a combattere. L'atleta bosniaca Mirsada Buric disputò una batteria di qualificazione dei 300 metri dove arrivò ultima, a più di un minuto di distacco dall'irlandese O'Sullivan, in testa. La Buric, anch'essa giunta in Spagna grazie al ponte aereo di cui sopra, era stata imprigionata due mesi prima assieme a tutta la sua famiglia in un lager, dove rimase per tredici giorni. Raccontò al mondo di quel che succedeva a Sarajevo e riferì di essersi allenata rifugiandosi nei parchi, dove la vegetazione la copriva dai colpi delle postazioni serbe, che comunque non mancarono di farle sentire vicino le loro pallottole durante gli "allenamenti".
Il francese Jean Bouin, secondo dietro al Finlandese Kolehmainen nei 5000 metri a Stoccolma 1912 scrisse a un amico nei giorni seguenti: "Queste storie qui, che io consideravo soltanto come dei passatempi, sono molto importanti per la gente. Ora voglio riposarmi per qualche mese e poi comincerò ad allenarmi seriamente, come fanno gli altri. Ritornerò vittorioso, te lo prometto." Due anni dopo morì nella battaglia della Marna.
Nelle olimpiadi di St.Louis del 1904 vennero indetti gli "Anthropological days", con gare riservate a "uomini di pelle nera, filippini, pigmei, turchi e siriani". Alla faccia di chi oggi esclude una triplista greca per una battutaccia su Twitter tirando in ballo lo "spirito olimpico".
Alle olimpiadi di Parigi 1900 la maratona venne vinta da Michel Theato, garzone di fornaio parigino. Secondo Emile Champion (ancora Francia) e terzo lo svedese Ernst Fast. Al quinto posto si piazzò l'americano Newton che entrò nello stadio, arrivò entusiasta e alzò le braccia al cielo. Quando i giudici gli spiegarono che era arrivato quinto sostenne (e lo ribadì nel corso degli anni) che i 4 che lo avevano preceduto dovevano giocoforza aver imbrogliato tagliando il percorso, visto che lui vi si trovava davanti e non li aveva visti superarlo. Il suo reclamo venne dichiarato nullo, ma lo stesso De Coubertin ammise che i controlli dei commissari in quell'occasione furono "carenti".
La maratona di St.Louis vide invece arrivare in solitaria un certo Fred Lorz. Lo stadio lo accolse festante, venne portato in trionfo e gli venne fatta la foto con la figlia del presidente. Dopo circa 15 minuti arrivò nello stadio un certo Tom Hicks che reclamò la vittoria. Si venne infatti a sapere che Lorz, intorno al 15 km, aveva percorso una quindicina di Km in automobile per poi riprendere la corsa. Lorz sostenne che si trattava di un equivoco e che in realtà non c'era volontà di frode, soltanto "non aveva fatto in tempo a spiegarsi", ipotesi decisamente poco credibile. La medaglia d'oro a Hicks, dunque. Quest'ultimo aveva percorso gli ultimi dieci chilometri in stato semicatatonico, ingerendo ad ogni 2/3 km un uovo, della stricnina, del brandy. (Primo caso di doping non perseguito nella storia dei Giochi.)
La nazionale svizzera di calcio che eliminò l'Italia nel 1924 era una formazione notevole sia in campo che fuori. Mentre la squadra festeggiava negli spogliatoi e gli italiani erano affranti per la sconfitta il mediano Schmidlin incrociò il nostro commissario tecnico, Vittorio Pozzo. Dopo avergli fatto i complimenti entrò nello spogliatoio e ordinò con un urlo perentorio ai compagni "Nicht mehr singen. Daneben sind die Italiener." (Basta cantare. A fianco ci sono gli italiani) in segno di rispetto per l'avversario. Pozzo, che di lì a qualche anno avrebbe dominato il calcio mondiale con due Coppe Rimet, una Coppa internazionale, e un titolo olimpico disse "Non lo dimenticherò mai."
Qualche partita prima, contro il Lussemburgo, l'ala destra Levratto lasciò partire un tiro micidiale che prese in faccia il portiere Bausch che dovette essere medicato, dopo che per qualche minuto si temette addirittura per la sua vita. Bausch tornò in campo, ma dopo qualche minuto, quando Levratto gli si ripresentò con la palla al piede davanti, scattò fuori dalla porta con la testa tra le mani. Levratto si mise a ridere in maniera talmente forte che incespicò sul pallone, il quale finì fuori di fronte alla porta vuota.
Parigi 1924 mostrò al mondo anche il nuotatore Johhny Weissmuller, statunitense. Fece incetta di medaglie e fu il primo uomo a correre i cento metri stile libero sotto al minuto. Diventò in seguito celebre come il primo "Tarzan" del cinema. Curiosamente, il primo nuotatore italiano a correre i 100 stile libero sotto il minuto è stato Carlo Pedersoli, meglio noto come Bud Spencer.
Le olimpiadi si sono svolte sempre ogni quattro anni con due interruzioni a causa delle due guerre mondiali. Tuttavia nel conto delle edizioni si contano anche quelle "fantasma" del 1916, del 1940 e del 1944.
Nonostante la divisione della Germania in due blocchi sia durata sin dalla fine della seconda guerra mondiale, soltanto dal 1968 ci furono due rappresentative olimpiche (DDR e BRD). La divisione divenne solo un ricordo nel 1992 a Barcellona, essendo i due stati riunificati dalla "Wiedervereinigung" del 3 ottobre 1990.
De Coubertin non pronunciò MAI la famosa frase "L'importante non è vincere, ma partecipare" e del resto non se ne attribuì mai il merito. Stando alle parole del nobile francese la frase venne pronunciata, durante un convitto, da un uomo di chiesa britannico.
domenica 29 luglio 2012
sabato 28 luglio 2012
Gli antieroi - speciale olimpiadi: Jim Thorpe, il più grande atleta del mondo
Se andate a Shawnee, nell'Oklahoma, vi diranno che in quella città è nato Brad Pitt, uno degli attori più famosi del mondo. Se fate una quarantina di miglia, potreste vedere due tribù indiane chiamate Meskwaki e Thakiwaki. Queste due tribù si sono unite in una nazione indiana che in inglese si chiama "Sac and Fox Nation". La nazione indiana, riconosciuta dal governo federale, conta circa 3800 cittadini e ha un'economia basata principalmente sul turismo, sugli introiti di un paio di casinò, di un locale notturno e di alcuni negozi collegati. Inutile dire che una volta qui era tutta "nazione indiana". Sulle rive del North Canadian River, vicino alla città di Shawnee, nel maggio del 1888 (presumibilmente, visto che nessun certificato di nascita è mai stato trovato) nacque un bambino da una famiglia le cui radici vedevano padre e madre entrambi figli di coppie miste di indiani e bianchi caucasici, con buona pace dei razzisti di turno. Il bambino si chiamava Wa-Tho-Huk, che nel linguaggio Sac significa "sentiero luminoso". Venne anche battezzato dalla chiesa cristiana con il nome di James Francis Thorpe.
Quel bambino si fece immediatamente notare per la grande prestanza fisica, accompagnando il padre in numerose battute di caccia e pesca. Alla tenerà età di 9 anni dovette affrontare la morte del fratello per una brutta polmonite e due anni più tardi quella della madre, per complicazioni durante una nuova gravidanza. Il ragazzo si allontanò da casa dopo un rapporto burrascoso con il padre e tornò solo alcuni anni dopo per terminare gli studi interrotti bruscamente.
Frequentando la "scuola industriale indiana di Carlisle", qualche professore si accorse della sua grande abilità negli sport. Non c'era infatti specialità che non vedesse il giovane "sentiero luminoso" primeggiare. Ogni singola gara di atletica, e persino football e baseball. Narrano le cronache che Thorpe si aggiudicasse addirittura le gare di ballo. Folklore a parte, i risultati del giovane indiano dell'Oklahoma erano così entusiasmanti che venne invitato a partecipare ai Trials per le Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Thorpe primeggiò in salti, lanci, asta, giavellotto, disco, sollevamento pesi. La sua versatilità era una cosa mai vista prima e così si decise di schierarlo in due nuove specialità multi-disciplina presenti nel programma olimpico. Il pentathlon (salto in lungo, 200 m, giavellotto, disco, 1500 metri) e il decathlon, oltre a schierarlo nel salto in alto e nel salto in lungo.
A Stoccolma fu un trionfo. "Sentiero Luminoso" stracciò tutti gli avversari in entrambe le competizioni e vinse agevolmente con grandi distacchi le due medaglie d'oro. Nel salto in alto si piazzò quarto e nel salto in lungo soltanto settimo, visto che qualcuno che forse lo temeva troppo pensò bene di rubargli le scarpe prima della gara. Nelle foto d'epoca si può vedere Thorpe che posa con scarpe diverse, parecchio più larghe della sua taglia.
Nel 1912 iniziò l'usanza delle premiazioni effettuate da dignitari e notabili. Thorpe venne premiato dallo Zar Nicola II di Russia per la medaglia del pentathlon e, al momento della premiazione del decathlon, quando era già il protagonista indiscusso dei giochi, a incoronarlo fu il Re Gustavo V di Svezia. Nell'infilargli la medaglia al collo, il dignitario padrone di casa si rivolse al nativo americano della tribù Sauk dicendogli "Signore, voi siete il più grande atleta del mondo". Thorpe, evidentemente frastornato da tanto onore, rispose con un grottesco "Thank you, King" (Grazie, Re).
***
Quando si toccano vertici così alti è inevitabile cadere e farsi molto male, a volte. Il febbraio del 1913 l'Amatheur Atletic Union degli USA comunicò che Thorpe, l'anno prima, aveva giocato in una squadra di Baseball nella Carolina del Sud percependo uno stipendio di 60 dollari al mese. Questo entrava in conflitto con la celeberrima (e famigerata) regola del dilettantismo olimpico, al quale non interessava che un giovane orfano (nel frattempo anche di padre) dovesse comunque in qualche modo sbarcare il lunario. A Thorpe vennero tolte le medaglie, senza possibilità di appello.
"Sentiero luminoso" seppe distinguersi a quel punto nello sport professionistico a stelle e strisce. Diventò un giocatore professionista di Baseball, Football e Basket (!!!). Guadagnò anche qualche bella somma, ma quando si ritirò a 40 anni non gli rimaneva molto. Thorpe continuava a protestare per quelle medaglie tolte (a suo dire) ingustamente, per le quali lo stesso De Coubertin spezzò una lancia a suo favore, ma inutilmente.
Thorpe cominciò ad attaccarsi alla bottiglia e non di rado venne trovato a fare qualsiasi lavoro per sopravvivere. Sollevatore di pesi, guardiano notturno, operaio nei cantieri. Nel 1932 si presentò fuori dallo stadio olimpico di Los Angeles, venne riconosciuto e per lui ci fu una standing ovation. Ma niente medaglie. Ebbe un paio di matrimoni che crollarono a picco e nel 1950 venne operato al labbro per un cancro, poi fu accolto in una casa di riposo, dato che non riusciva a provvedere alla propria sussistenza. Morì di attacco cardiaco nel 1953.
***
(Nel 1983 il comitato olimpico internazionale provò a metterci una pezza. A seguito di una domanda fatta direttamente dal Congresso degli Stati Uniti d'America, che provava che il reclamo per il professionismo di Thorpe era stato presentato dopo i 30 giorni regolamentari per questo tipo di proposte, il CIO restituì i titoli olimpici a Thorpe, in una cerimonia commemorativa dove vennero consegnate due medaglie commemorative ai figli Bill e Gale. Le medaglie originali vennero infatti rubate e non si trovarono mai più. Oggi in Pennsylvania c'è una città chiamata JIM THORPE, con una statua commemorativa al "Più grande atleta del mondo".)
Quel bambino si fece immediatamente notare per la grande prestanza fisica, accompagnando il padre in numerose battute di caccia e pesca. Alla tenerà età di 9 anni dovette affrontare la morte del fratello per una brutta polmonite e due anni più tardi quella della madre, per complicazioni durante una nuova gravidanza. Il ragazzo si allontanò da casa dopo un rapporto burrascoso con il padre e tornò solo alcuni anni dopo per terminare gli studi interrotti bruscamente.
Frequentando la "scuola industriale indiana di Carlisle", qualche professore si accorse della sua grande abilità negli sport. Non c'era infatti specialità che non vedesse il giovane "sentiero luminoso" primeggiare. Ogni singola gara di atletica, e persino football e baseball. Narrano le cronache che Thorpe si aggiudicasse addirittura le gare di ballo. Folklore a parte, i risultati del giovane indiano dell'Oklahoma erano così entusiasmanti che venne invitato a partecipare ai Trials per le Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Thorpe primeggiò in salti, lanci, asta, giavellotto, disco, sollevamento pesi. La sua versatilità era una cosa mai vista prima e così si decise di schierarlo in due nuove specialità multi-disciplina presenti nel programma olimpico. Il pentathlon (salto in lungo, 200 m, giavellotto, disco, 1500 metri) e il decathlon, oltre a schierarlo nel salto in alto e nel salto in lungo.
A Stoccolma fu un trionfo. "Sentiero Luminoso" stracciò tutti gli avversari in entrambe le competizioni e vinse agevolmente con grandi distacchi le due medaglie d'oro. Nel salto in alto si piazzò quarto e nel salto in lungo soltanto settimo, visto che qualcuno che forse lo temeva troppo pensò bene di rubargli le scarpe prima della gara. Nelle foto d'epoca si può vedere Thorpe che posa con scarpe diverse, parecchio più larghe della sua taglia.
Nel 1912 iniziò l'usanza delle premiazioni effettuate da dignitari e notabili. Thorpe venne premiato dallo Zar Nicola II di Russia per la medaglia del pentathlon e, al momento della premiazione del decathlon, quando era già il protagonista indiscusso dei giochi, a incoronarlo fu il Re Gustavo V di Svezia. Nell'infilargli la medaglia al collo, il dignitario padrone di casa si rivolse al nativo americano della tribù Sauk dicendogli "Signore, voi siete il più grande atleta del mondo". Thorpe, evidentemente frastornato da tanto onore, rispose con un grottesco "Thank you, King" (Grazie, Re).
***
Quando si toccano vertici così alti è inevitabile cadere e farsi molto male, a volte. Il febbraio del 1913 l'Amatheur Atletic Union degli USA comunicò che Thorpe, l'anno prima, aveva giocato in una squadra di Baseball nella Carolina del Sud percependo uno stipendio di 60 dollari al mese. Questo entrava in conflitto con la celeberrima (e famigerata) regola del dilettantismo olimpico, al quale non interessava che un giovane orfano (nel frattempo anche di padre) dovesse comunque in qualche modo sbarcare il lunario. A Thorpe vennero tolte le medaglie, senza possibilità di appello.
"Sentiero luminoso" seppe distinguersi a quel punto nello sport professionistico a stelle e strisce. Diventò un giocatore professionista di Baseball, Football e Basket (!!!). Guadagnò anche qualche bella somma, ma quando si ritirò a 40 anni non gli rimaneva molto. Thorpe continuava a protestare per quelle medaglie tolte (a suo dire) ingustamente, per le quali lo stesso De Coubertin spezzò una lancia a suo favore, ma inutilmente.
Thorpe cominciò ad attaccarsi alla bottiglia e non di rado venne trovato a fare qualsiasi lavoro per sopravvivere. Sollevatore di pesi, guardiano notturno, operaio nei cantieri. Nel 1932 si presentò fuori dallo stadio olimpico di Los Angeles, venne riconosciuto e per lui ci fu una standing ovation. Ma niente medaglie. Ebbe un paio di matrimoni che crollarono a picco e nel 1950 venne operato al labbro per un cancro, poi fu accolto in una casa di riposo, dato che non riusciva a provvedere alla propria sussistenza. Morì di attacco cardiaco nel 1953.
***
(Nel 1983 il comitato olimpico internazionale provò a metterci una pezza. A seguito di una domanda fatta direttamente dal Congresso degli Stati Uniti d'America, che provava che il reclamo per il professionismo di Thorpe era stato presentato dopo i 30 giorni regolamentari per questo tipo di proposte, il CIO restituì i titoli olimpici a Thorpe, in una cerimonia commemorativa dove vennero consegnate due medaglie commemorative ai figli Bill e Gale. Le medaglie originali vennero infatti rubate e non si trovarono mai più. Oggi in Pennsylvania c'è una città chiamata JIM THORPE, con una statua commemorativa al "Più grande atleta del mondo".)
si parla di:
antieroi,
eroi,
Jim Thorpe,
lamerica,
olimpiadi,
vita morte e miracoli
venerdì 27 luglio 2012
Gli antieroi - speciale olimpiadi: Etienne Gailly, il combattente
La storia di Dorando Petri la conoscono tutti, chi più chi meno. Le olimpiadi di Londra 1908 furono caratterizzate dall'impresa del fornaio di Mandrio di Correggio e dal suo "fallimento di successo", per prendere a prestito un'espressione usata dalla NASA per la missione Apollo 13. In pochi conoscono le vicende dell'altra maratona di Londra, quella del 1948. In pochi conoscono la vicenda di Etienne Gailly.
Etienne Gailly era un ragazzo belga nato a Beringen nel 1922. Poco più che ventenne si trovò impiegato come paramilitare nella seconda guerra mondiale e rimase profondamente turbato dall'esperienza, in particolare dalle terribili devastazioni subite dal suo paese. La guerra è un affare terribile che sconvolge gli uomini. Un affare fatto di lunghi silenzi e di assalti esplosivi che ti assordano in un attimo. Di vite spezzate, di visioni e alterazioni nella percezione della realtà. In molti tra quelli che tornano vivi dalla guerra, di vita ce n'è poca se non quella espressa dai documenti di identità. Etienne Gailly era un corridore più che discreto, ma non in grado di impensierire i grandi nomi dell'Atletica mondiale. Dopo la guerra decise che avrebbe vinto una medaglia olimpica per onorare il suo paese. Impresa ardua e quasi impossibile, ma non lo era stato anche sopravvivere alla più atroce carneficina della storia d'Europa?
Arrivò a Londra nel 1948 come outsider e si iscrisse alla maratona, gara che non aveva MAI disputato in vita sua. Nessuno si occupò troppo di lui, inizialmente, ma a un certo punto il signor Gailly prese la testa della gara. In quei giorni Londra era preda di un forte caldo e di una inaspettata umidità, e Gailly fece l'errore di non preoccuparsene. A un certo punto rintuzzò persino gli attacchi del favorito, l'argentino Delfo Cabrera, poi resistette a un altro attacco da parte del coreano Choi. A quel punto era chiaro che il ragazzo faceva sul serio e rischiava di infilare la corsa della vita. Anche gli altri cominciarono ad avere paura.
La stanchezza aveva però indurito le gambe del belga, che cominciava a correre piuttosto scomposto e in maniera poco ortodossa. Un paio di rifornimenti saltati sottovalutando l'umidità e il caldo fecero il resto. Gailly arriva vicino allo stadio in evidente stato confusionale, ma ancora davanti a tutti. Lo stadio è tutto con lui ed esplode in un boato assordante.
Un urlo del genere dovrebbe, nelle intenzioni del pubblico, galvanizzare l'atleta e fargli ritrovare la forza perduta. È per questo che si fa il tifo, per aiutare. Gailly, stando alle cronache dell'Epoca, viene travolto da quell'urlo e il suo correre scomposto diventa uno zigzagare in diagonale, gli occhi fuori dalle orbite, lo sguardo assente. Il corpo di Gailly comincia a muoversi in maniera sempre più casuale e tutto lo stadio si immagina che debba cadere da un momento all'altro. Il belga finisce sul prato e veiene reindirizzato sulla pista, poi quando arriva sulla linea del traguardo, la mazzata finale, la campanella dell'ultimo giro. Non è finita. Un altro giro. 400 metri ancora. 400 metri di sofferenza pura, con il corpo che prosegue incurante di quel che la testa vorrebbe, mentre tutto lo stadio accompagna la scena esattamente come i rumori di una guerra. Silenzi interminabili di angoscia alternati a boati improvvisi. 400 metri che sembrano durare un'eternità. Alla prima curva Gailly va dritto, quasi uscendo di pista. I commissari si sbracciano dandogli la direzione e lui, miracolosamente si rimette in carreggiata. Intanto arrivano l'argentino Delfo Cabrera e il britannico Tom Richards che si affacciano sulla porta dello stadio, con una corsa stanca ma efficace. Gailly viene sorpassato prima da uno e poi dall'altro, ma non accenna a smettere il suo claudicante calvario. Lo stadio ora è ammutolito, in un'atmosfera irreale. Gailly avanza, si ferma, sembra cadere, no... avanza ancora, cammina a zig zag. Intanto da dietro si guarda la porta di Maratona per capire chi sta arrivando. Gailly prosegue imperterrito, combatte contro ogni suo demone e persino contro il suo stesso corpo, che vorrebbe fermarsi. Dopo un giro di pista che sembra durare un secolo, taglia il traguardo camminando e crolla a terra, completamente esausto. Lo stadio tira un unico grande sospiro di sollievo e poi si produce in una delle più grandi standig ovation che la storia olimpica ricordi. Medaglia di bronzo.
***
(Etienne Gailly non parteciperà alla premiazione della maratona, perché ancora in ospedale in condizioni gravi. Si arruolerà nell'esercito Belga e combatterà nella guerra di Corea con un commando delle Nazioni Unite insieme al fratello Pierre, che verrà ucciso in battaglia. Etienne, invece, perderà una gamba a causa di una granata. E non correrà mai più fino alla morte, nel 1971.)
Etienne Gailly era un ragazzo belga nato a Beringen nel 1922. Poco più che ventenne si trovò impiegato come paramilitare nella seconda guerra mondiale e rimase profondamente turbato dall'esperienza, in particolare dalle terribili devastazioni subite dal suo paese. La guerra è un affare terribile che sconvolge gli uomini. Un affare fatto di lunghi silenzi e di assalti esplosivi che ti assordano in un attimo. Di vite spezzate, di visioni e alterazioni nella percezione della realtà. In molti tra quelli che tornano vivi dalla guerra, di vita ce n'è poca se non quella espressa dai documenti di identità. Etienne Gailly era un corridore più che discreto, ma non in grado di impensierire i grandi nomi dell'Atletica mondiale. Dopo la guerra decise che avrebbe vinto una medaglia olimpica per onorare il suo paese. Impresa ardua e quasi impossibile, ma non lo era stato anche sopravvivere alla più atroce carneficina della storia d'Europa?
Arrivò a Londra nel 1948 come outsider e si iscrisse alla maratona, gara che non aveva MAI disputato in vita sua. Nessuno si occupò troppo di lui, inizialmente, ma a un certo punto il signor Gailly prese la testa della gara. In quei giorni Londra era preda di un forte caldo e di una inaspettata umidità, e Gailly fece l'errore di non preoccuparsene. A un certo punto rintuzzò persino gli attacchi del favorito, l'argentino Delfo Cabrera, poi resistette a un altro attacco da parte del coreano Choi. A quel punto era chiaro che il ragazzo faceva sul serio e rischiava di infilare la corsa della vita. Anche gli altri cominciarono ad avere paura.
La stanchezza aveva però indurito le gambe del belga, che cominciava a correre piuttosto scomposto e in maniera poco ortodossa. Un paio di rifornimenti saltati sottovalutando l'umidità e il caldo fecero il resto. Gailly arriva vicino allo stadio in evidente stato confusionale, ma ancora davanti a tutti. Lo stadio è tutto con lui ed esplode in un boato assordante.
Un urlo del genere dovrebbe, nelle intenzioni del pubblico, galvanizzare l'atleta e fargli ritrovare la forza perduta. È per questo che si fa il tifo, per aiutare. Gailly, stando alle cronache dell'Epoca, viene travolto da quell'urlo e il suo correre scomposto diventa uno zigzagare in diagonale, gli occhi fuori dalle orbite, lo sguardo assente. Il corpo di Gailly comincia a muoversi in maniera sempre più casuale e tutto lo stadio si immagina che debba cadere da un momento all'altro. Il belga finisce sul prato e veiene reindirizzato sulla pista, poi quando arriva sulla linea del traguardo, la mazzata finale, la campanella dell'ultimo giro. Non è finita. Un altro giro. 400 metri ancora. 400 metri di sofferenza pura, con il corpo che prosegue incurante di quel che la testa vorrebbe, mentre tutto lo stadio accompagna la scena esattamente come i rumori di una guerra. Silenzi interminabili di angoscia alternati a boati improvvisi. 400 metri che sembrano durare un'eternità. Alla prima curva Gailly va dritto, quasi uscendo di pista. I commissari si sbracciano dandogli la direzione e lui, miracolosamente si rimette in carreggiata. Intanto arrivano l'argentino Delfo Cabrera e il britannico Tom Richards che si affacciano sulla porta dello stadio, con una corsa stanca ma efficace. Gailly viene sorpassato prima da uno e poi dall'altro, ma non accenna a smettere il suo claudicante calvario. Lo stadio ora è ammutolito, in un'atmosfera irreale. Gailly avanza, si ferma, sembra cadere, no... avanza ancora, cammina a zig zag. Intanto da dietro si guarda la porta di Maratona per capire chi sta arrivando. Gailly prosegue imperterrito, combatte contro ogni suo demone e persino contro il suo stesso corpo, che vorrebbe fermarsi. Dopo un giro di pista che sembra durare un secolo, taglia il traguardo camminando e crolla a terra, completamente esausto. Lo stadio tira un unico grande sospiro di sollievo e poi si produce in una delle più grandi standig ovation che la storia olimpica ricordi. Medaglia di bronzo.
***
(Etienne Gailly non parteciperà alla premiazione della maratona, perché ancora in ospedale in condizioni gravi. Si arruolerà nell'esercito Belga e combatterà nella guerra di Corea con un commando delle Nazioni Unite insieme al fratello Pierre, che verrà ucciso in battaglia. Etienne, invece, perderà una gamba a causa di una granata. E non correrà mai più fino alla morte, nel 1971.)
si parla di:
antieroi,
eroi,
Etienne Gailly,
olimpiadi,
vita morte e miracoli
giovedì 26 luglio 2012
Gli antieroi - speciale olimpiadi: Ingemar Johansson, il coniglio nel cilindro
Ingemar Johannson è stato il quinto campione del mondo dei pesi massimi a non essere nato negli USA. Vinse il titolo battendo il grandissimo Floyd Patterson nel 1959. Vinse per KO tecnico al terzo round e in quel terzo round Patterson venne messo al tappeto sette (SETTE) volte. Uno schiacciasassi, una macchina infernale di potenza e agilità, un destro micidiale. Ingemar Johannson venne dichiarato "sportivo dell'anno" e finì sulla copertina di "Sports Illustrated". Recitò anche in alcuni film di Hollywood, poi tornò a combattere contro Patterson che questa volta vinse. Negli incontri di allenamento ebbe come sparring partner anche un certo Cassius Clay e gli fu offerto di combattere contro di lui per 100.000 dollari, ma Ingemar rifiutò dicendo che il futuro Mohammed Alì non era in grado di combattere con lui, all'epoca.
Johannsonn venne soprannominato "INGO" per la ovvia abbreviazione del suo nome e "IL MARTELLO DI THOR" per la potenza del suo destro. Si ritirò dalla boxe nel nel 1962. Ingo aveva aperto un bar con lo stesso nome, così come una barca da pesca ne perpetuava le gesta. Per qualche tempo andò a vivere in Florida e corse addirittura alcune maratone. Divenne amico di Patterson e con l'ex rivale si scambiarono visite di cortesia ogni anno sin quando entrambi non furono colpiti dal morbo di Alzheimer. Nel 2000 l'accademia dello sport svedese lo nominò "Terzo miglior atleta svedese del ventesimo secolo" dietro al tennista Bjorn Borg e allo sciatore Ingemar Stenmark. Ingo Johannson trascorse gli ultimi anni della sua vita in preda alla demenza senile e all'Alzheimer in una clinica svedese accanto alla sua seconda moglie Birgit. Quando morì, nel 2009, lasciò cinque figli.
***
Olimpiadi di Helsinki, 1952. Nella finale per la medaglia d'oro dei pesi massimi c'è un americano di nome Ed Sanders. Ha vinto tutti gli incontri eliminatori per KO mostrando una furia cieca e una forza devastante, e si è meritato una serie di soprannomi paurosi, di quelli da far prendere paura agli avversari. Il suo contendente invece è arrivato a combattere per l'oro grazie a due vittorie ai punti e un abbandono. Quando comincia l'incontro, Sanders avanza minaccioso tanto che l'avversario inizia letteralmente a fuggire intorno al ring. L'arbitro lo richiama invitandolo al combattimento, ma il ragazzo SCAPPA. I giudici lo squalificano per "scarsa combattività" e arrivano a negargli persino la medaglia d'argento, tanto che la bandiera della sua nazione resta ai piedi del pennone durante la premiazione, con un gradino del podio vuoto. I giornali si scatenano e nei giorni seguenti quel ragazzo diventa la vergogna nazionale, l'incarnazione stessa della vigliaccheria. Il ragazzo medita il ritiro definitivo dalla boxe, cade in depressione, arriva persino a sostenere che quel suo scappare fosse una tattica di gara, ma nessuno gli crede. Nessuno, tranne un allenatore che lo prende sotto la sua ala protettrice, convinto che il ragazzo sia un campione. Il mago si chiama Edwin Ahlquist, il coniglio Ingemar Johannson. La magia del "Martello di Thor" ha appena avuto inizio, il mondo intero si prepari a rimanere a bocca aperta.
Johannsonn venne soprannominato "INGO" per la ovvia abbreviazione del suo nome e "IL MARTELLO DI THOR" per la potenza del suo destro. Si ritirò dalla boxe nel nel 1962. Ingo aveva aperto un bar con lo stesso nome, così come una barca da pesca ne perpetuava le gesta. Per qualche tempo andò a vivere in Florida e corse addirittura alcune maratone. Divenne amico di Patterson e con l'ex rivale si scambiarono visite di cortesia ogni anno sin quando entrambi non furono colpiti dal morbo di Alzheimer. Nel 2000 l'accademia dello sport svedese lo nominò "Terzo miglior atleta svedese del ventesimo secolo" dietro al tennista Bjorn Borg e allo sciatore Ingemar Stenmark. Ingo Johannson trascorse gli ultimi anni della sua vita in preda alla demenza senile e all'Alzheimer in una clinica svedese accanto alla sua seconda moglie Birgit. Quando morì, nel 2009, lasciò cinque figli.
***
Olimpiadi di Helsinki, 1952. Nella finale per la medaglia d'oro dei pesi massimi c'è un americano di nome Ed Sanders. Ha vinto tutti gli incontri eliminatori per KO mostrando una furia cieca e una forza devastante, e si è meritato una serie di soprannomi paurosi, di quelli da far prendere paura agli avversari. Il suo contendente invece è arrivato a combattere per l'oro grazie a due vittorie ai punti e un abbandono. Quando comincia l'incontro, Sanders avanza minaccioso tanto che l'avversario inizia letteralmente a fuggire intorno al ring. L'arbitro lo richiama invitandolo al combattimento, ma il ragazzo SCAPPA. I giudici lo squalificano per "scarsa combattività" e arrivano a negargli persino la medaglia d'argento, tanto che la bandiera della sua nazione resta ai piedi del pennone durante la premiazione, con un gradino del podio vuoto. I giornali si scatenano e nei giorni seguenti quel ragazzo diventa la vergogna nazionale, l'incarnazione stessa della vigliaccheria. Il ragazzo medita il ritiro definitivo dalla boxe, cade in depressione, arriva persino a sostenere che quel suo scappare fosse una tattica di gara, ma nessuno gli crede. Nessuno, tranne un allenatore che lo prende sotto la sua ala protettrice, convinto che il ragazzo sia un campione. Il mago si chiama Edwin Ahlquist, il coniglio Ingemar Johannson. La magia del "Martello di Thor" ha appena avuto inizio, il mondo intero si prepari a rimanere a bocca aperta.
si parla di:
antieroi,
eroi,
nobile arte,
olimpiadi,
vita morte e miracoli
mercoledì 25 luglio 2012
Gli antieroi - speciale olimpiadi: Alberto Braglia, la ginnastica, mio nonno, il circo, quelle cose lì
Mio nonno, il padre di mio padre, quando era un ragazzo era molto bravo in ginnastica. Andava in una polisportiva dove c'erano tanti ragazzi che facevano ginnastica artistica, anche se lui diceva soltanto "ginnastica". Ho sempre pensato che togliesse l'aggettivo perché dava l'impressione di una cosa un po' da femmine e la virilità, se sei maschio e sei nato negli anni '10 del ventesimo secolo, è una cosa sulla quale non si scherza mica tanto.
Mio nonno mi raccontava che delle volte a vederli fare ginnastica veniva anche Alberto Braglia, e mi raccontava che una volta gli fece i complimenti di persona per come faceva il "quadro svedese". Mi diceva anche che Braglia una volta gli fece vedere come si faceva, il quadro svedese, e mio nonno rimase a bocca aperta, senza parole. Diceva che vederlo fare il quadro svedese era come una poesia. Poi mi diceva che a fare il quadro svedese ci vogliono le braccia forti e quindi mi prendeva il bicipite e lo stringeva, facendomi un male cane. Mio nonno aveva braccia forti, mio padre aveva braccia forti, io no. Infatti, alla fine di questo teatrino, mio nonno concludeva con un sospiro che non capivo mai se era un sospiro nostalgico per i tempi che furono oppure di rammarico perché suo nipote era "un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro". E questa cosa me la sono sempre portata dietro, questa cosa del non essere all'altezza di quello che ci si aspetta da me.
Alberto Braglia era un garzone del fornaio di Campogalliano, dove comincia la Modena-Brennero. Per noi emiliani Campogalliano è la porta per l'Europa, il punto da dove parti se vuoi andare a esplorare il mondo. Campogalliano infatti ha la dogana commerciale. Campogalliano è anche il paese della bilancia e dei bilanciai, e c'è anche il "Museo della bilancia". Insomma, se nasci a Campogalliano e vuoi essere all'altezza devi come minimo essere pronto alla conquista del mondo. E devi avere equilibrio, come una bilancia.
Alberto Braglia aveva entrambe le cose. Cominciò da piccolissimo (era nato nel 1883) a interessarsi alla ginnastica e si allenava da completo autodidatta in un fienile. Iniziò ben presto a farsi notare come atleta di valore e arrivò a disputare le Olimpiadi di Londra 1908. All'epoca le medaglie della ginnastica non erano strutturate per specialità come oggi e quindi Braglia, che fu il migliore in ognuna delle sette specialità, vinse "soltanto" la medaglia d'oro per il concorso individuale (al giorno d'oggi avrebbe un bottino di OTTO medaglie d'oro, una per specialità più il concorso individuale). In particolare, Braglia fece faville al cavallo con maniglie, la specialità a lui più congeniale.
Negli anni seguenti Braglia, per sbarcare il lunario, si vide costretto a esibirsi in pubblico. Un giro di esibizioni pagato che gli costò l'espulsione dalla federazione italiana di ginnastica per la famosa regola del dilettantismo. In quegli anni ebbe un esaurimento nervoso per la morte di suo figlio e si ruppe pure alcune costole e una spalla, durante una sfortunata esibizione. La vita tornò a sorridere al garzone del fornaio di Campogalliano quando nel 1912, ottenuta l'abilitazione da dilettante, partecipò alle olimpiadi di Stoccolma. In quell'edizione si inaugurò l'usanza della sfilata delle nazioni dietro la bandiera del proprio paese e Alberto Braglia fu dunque il primo portabandiera italiano della storia olimpica. In quell'edizione vinse di nuovo il concorso individuale e la scuola italiana riuscì ad imporsi anche nel concorso a squadre. Altre due medaglie d'oro.
Braglia si riconfermò dominatore assoluto non solo per le due medaglie d'oro, ma anche per la straordinaria qualità della sua ginnastica. Il pubblico tributava ovazioni mai sentite alla fine di ogni esercizio e i giudici arrivarono (caso UNICO nella storia della ginnastica olimpica) ad aggiungere degli aggettivi come "Perfetto" e "Stupendo", arricchiti talvolta da superlativi, non sapendo accontentarsi del massimo punteggio disponibile.
Braglia riprese a lavorare al circo e diventò un personaggio, per i tempi. Tanto che vent'anni dopo venne richiamato come allenatore alle Olimpiadi del 1932 a Los Angeles. L'Italia vinse la medaglia d'oro a squadre e in seguito Alberto venne nominato "cavaliere ufficiale per meriti sportivi". Diventò proprietario di un bar di Bologna e di alcune case, ma l'inflazione e la guerra gli portarono via tutto. Sarà in veste di accompagnatore insieme alla nazionale di ginnastica a Londra nel 1948, ma la vita ormai gli riserva ben poche soddisfazioni. Gli viene offerto un posto di bidello nella società sportiva che da lui prende il nome e finisce la sua vita all'ospizio dei vecchi, divorato dall'arteriosclerosi con una piccola pensione che gli viene assegnata dal CONI. Muore a Modena all'età di 71 anni, nel 1954, per una trombosi cerebrale. Lo stadio di calcio di Modena porta il suo nome.
Mio nonno ha fatto il contadino tutta la vita ed è morto nel 1994 di attacco cardiaco. Io non sono credente, ma visto che ogni uomo ha bisogno di volare con la fantasia, a volte me li vedo insieme che, con le loro braccia forti, fanno il quadro svedese, andando su apparentemente senza sforzo alcuno, come due versi di un'unica poesia.
Mio nonno mi raccontava che delle volte a vederli fare ginnastica veniva anche Alberto Braglia, e mi raccontava che una volta gli fece i complimenti di persona per come faceva il "quadro svedese". Mi diceva anche che Braglia una volta gli fece vedere come si faceva, il quadro svedese, e mio nonno rimase a bocca aperta, senza parole. Diceva che vederlo fare il quadro svedese era come una poesia. Poi mi diceva che a fare il quadro svedese ci vogliono le braccia forti e quindi mi prendeva il bicipite e lo stringeva, facendomi un male cane. Mio nonno aveva braccia forti, mio padre aveva braccia forti, io no. Infatti, alla fine di questo teatrino, mio nonno concludeva con un sospiro che non capivo mai se era un sospiro nostalgico per i tempi che furono oppure di rammarico perché suo nipote era "un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro". E questa cosa me la sono sempre portata dietro, questa cosa del non essere all'altezza di quello che ci si aspetta da me.
Alberto Braglia era un garzone del fornaio di Campogalliano, dove comincia la Modena-Brennero. Per noi emiliani Campogalliano è la porta per l'Europa, il punto da dove parti se vuoi andare a esplorare il mondo. Campogalliano infatti ha la dogana commerciale. Campogalliano è anche il paese della bilancia e dei bilanciai, e c'è anche il "Museo della bilancia". Insomma, se nasci a Campogalliano e vuoi essere all'altezza devi come minimo essere pronto alla conquista del mondo. E devi avere equilibrio, come una bilancia.
Alberto Braglia aveva entrambe le cose. Cominciò da piccolissimo (era nato nel 1883) a interessarsi alla ginnastica e si allenava da completo autodidatta in un fienile. Iniziò ben presto a farsi notare come atleta di valore e arrivò a disputare le Olimpiadi di Londra 1908. All'epoca le medaglie della ginnastica non erano strutturate per specialità come oggi e quindi Braglia, che fu il migliore in ognuna delle sette specialità, vinse "soltanto" la medaglia d'oro per il concorso individuale (al giorno d'oggi avrebbe un bottino di OTTO medaglie d'oro, una per specialità più il concorso individuale). In particolare, Braglia fece faville al cavallo con maniglie, la specialità a lui più congeniale.
Negli anni seguenti Braglia, per sbarcare il lunario, si vide costretto a esibirsi in pubblico. Un giro di esibizioni pagato che gli costò l'espulsione dalla federazione italiana di ginnastica per la famosa regola del dilettantismo. In quegli anni ebbe un esaurimento nervoso per la morte di suo figlio e si ruppe pure alcune costole e una spalla, durante una sfortunata esibizione. La vita tornò a sorridere al garzone del fornaio di Campogalliano quando nel 1912, ottenuta l'abilitazione da dilettante, partecipò alle olimpiadi di Stoccolma. In quell'edizione si inaugurò l'usanza della sfilata delle nazioni dietro la bandiera del proprio paese e Alberto Braglia fu dunque il primo portabandiera italiano della storia olimpica. In quell'edizione vinse di nuovo il concorso individuale e la scuola italiana riuscì ad imporsi anche nel concorso a squadre. Altre due medaglie d'oro.
Braglia si riconfermò dominatore assoluto non solo per le due medaglie d'oro, ma anche per la straordinaria qualità della sua ginnastica. Il pubblico tributava ovazioni mai sentite alla fine di ogni esercizio e i giudici arrivarono (caso UNICO nella storia della ginnastica olimpica) ad aggiungere degli aggettivi come "Perfetto" e "Stupendo", arricchiti talvolta da superlativi, non sapendo accontentarsi del massimo punteggio disponibile.
Braglia riprese a lavorare al circo e diventò un personaggio, per i tempi. Tanto che vent'anni dopo venne richiamato come allenatore alle Olimpiadi del 1932 a Los Angeles. L'Italia vinse la medaglia d'oro a squadre e in seguito Alberto venne nominato "cavaliere ufficiale per meriti sportivi". Diventò proprietario di un bar di Bologna e di alcune case, ma l'inflazione e la guerra gli portarono via tutto. Sarà in veste di accompagnatore insieme alla nazionale di ginnastica a Londra nel 1948, ma la vita ormai gli riserva ben poche soddisfazioni. Gli viene offerto un posto di bidello nella società sportiva che da lui prende il nome e finisce la sua vita all'ospizio dei vecchi, divorato dall'arteriosclerosi con una piccola pensione che gli viene assegnata dal CONI. Muore a Modena all'età di 71 anni, nel 1954, per una trombosi cerebrale. Lo stadio di calcio di Modena porta il suo nome.
Mio nonno ha fatto il contadino tutta la vita ed è morto nel 1994 di attacco cardiaco. Io non sono credente, ma visto che ogni uomo ha bisogno di volare con la fantasia, a volte me li vedo insieme che, con le loro braccia forti, fanno il quadro svedese, andando su apparentemente senza sforzo alcuno, come due versi di un'unica poesia.
si parla di:
Alberto Braglia,
antieroi,
eroi,
olimpiadi,
vita morte e miracoli
martedì 24 luglio 2012
Gli antieroi - speciale olimpiadi: Peter Norman, l'invisibile
C'è uno sketch dei Monthy Pyton in cui un uomo entra in una stanza dicendo di essere "l'uomo invisibile". L'uomo in realtà si vede benissimo e già qui partono le risate. Lo sketch prosegue allora con l'intervistatore che chiede al sedicente invisibile come mai si attribuisce questa facoltà. L'uomo risponde che al lavoro nessuno gli rivolge la parola, quando torna a casa sua moglie non si accorge di lui e bla bla bla... fin quando l'immagine dell'uomo che racconta non sparisce dalla nostra visione, mentre si sente soltanto la voce. Le risate diventano amare, ma i Monty Python erano piuttosto bravi a fare queste cose.
Peter Norman è un esempio di come non solo gli uomini insignificanti riescano a diventare invisibili agli occhi del mondo, ma talvolta questo amaro destino possa essere riservato anche agli eroi. Eroe per caso, verrebbe da dire citando il titolo di un vecchio film di Frears. Ma non siamo qui a parlare di cinema.
Peter Norman è un velocista australiano, uno che in Australia corre i 100 e i 200 più forte di chiunque altro e su di lui si hanno grandissime speranze per le olimpiadi che si terranno a Città del Messico. Siamo nel 1968, anno quanto mai travagliato per la storia del mondo. Un anno di disordini sociali in Europa e Stati Uniti, con l'escalation della guerra in Vietnam, il massacro del Biafra, l'assassinio di Bob Kennedy e di Martin Luther King. Ed è anche l'anno dell'introduzione del Tartan, nuova superficie delle piste di atletica della quale si dice un gran bene, soprattutto per le gare di velocità. E in Messico si corre in altura, a più di duemila metri, l'ideale per fare dei gran tempi.
Norman si trova ad arrivare in finale nei 200 metri, in un'edizione dove, nei giorni precedenti, le gare di atletica hanno visto dei record eccezionali, alcuni letteralmente disintegrati grazie a risultati che hanno fatto gridare al miracolo. La finale dei 200 metri vede Norman comportarsi benissimo e, in giorni nei quali inizia lo strapotere dei neri nelle gare di velocità, si piazza al secondo posto in mezzo ai due americani Tommie Smith (oro con il nuovo record mondiale) e John Carlos (bronzo). Un bianco in mezzo a due "negri", come si diceva senza le virgolette una volta.
Al momento della premiazione i due americani hanno deciso di indossare un paio di guanti neri e di salire senza scarpe ma con le calze nere in segno di protesta per il razzismo imperante nel loro paese. Il problema è che uno dei due ha dimenticato i guanti nel dormitorio. Norman allora suggerisce: "indossate un guanto per uno". E poi, visto che i due hanno anche una coccarda dell'OPHR (Olympic Project for Human Rights), un'organizzazione nata nel 1967 per protestare contro la segregazione razziale negli USA, Norman a quel punto dice ai due ragazzi: "io sto con voi, datemi una coccarda e la indosserò durante la premiazione".
***
La premiazione è ben rappresentata da una foto che ormai conoscono tutti ed è diventata un simbolo della protesta in tutto il mondo. Una protesta che avrà strascichi assurdi. Smith e Carlos riceveranno minacce di morte continue, la moglie di uno dei due arriverà a suicidarsi per l'insostenibilità di quella situazione. Smith e Carlos passeranno alla storia come eroi che hanno combattuto per i diritti umani, eroi di un popolo e di una generazione. Nel 2005 l'università di San José erigerà un monumento raffigurante il podio di Messico 1968 con Smith e Carlos che alzano il pugno.
Peter Norman verrà osteggiato per sempre dall'atletica australiana. Nonostante raggiunga il tempo necessario per le olimpiadi di Monaco 1972 per cinque volte nei 100 e per tredici volte nei 200, il comitato olimpico australiano preferirà non mandare NESSUNO a correre gli sprint piuttosto che mandare lui, unico caso nella storia dello sport australiano. Lo stesso comitato olimpico australiano non lo inviterà nemmeno ai giochi olimpici di Sidney, né in qualità di tedoforo né di spettatore, come se non fosse mai esistito. Ogni qualvolta si accennerà alla fotografia del podio di Messico 1968 il suo nome non verrà mai menzionato, a differenza di Carlos e Smith. Vivrà nell'anonimato e cadrà preda della depressione e dell'alcool fino alla sua morte, avvenuta per un attacco di cuore nel 2003. Al funerale saranno proprio Carlos e Smith a reggerne il feretro.
Nel monumento all'università di San José raffigurante il podio, il secondo posto è VUOTO. Il tempo (20:06) ottenuto il 16 Ottobre 1968 a Città del Messico sui 200 da Peter Norman è ancora oggi record australiano.
Peter Norman è un esempio di come non solo gli uomini insignificanti riescano a diventare invisibili agli occhi del mondo, ma talvolta questo amaro destino possa essere riservato anche agli eroi. Eroe per caso, verrebbe da dire citando il titolo di un vecchio film di Frears. Ma non siamo qui a parlare di cinema.
Peter Norman è un velocista australiano, uno che in Australia corre i 100 e i 200 più forte di chiunque altro e su di lui si hanno grandissime speranze per le olimpiadi che si terranno a Città del Messico. Siamo nel 1968, anno quanto mai travagliato per la storia del mondo. Un anno di disordini sociali in Europa e Stati Uniti, con l'escalation della guerra in Vietnam, il massacro del Biafra, l'assassinio di Bob Kennedy e di Martin Luther King. Ed è anche l'anno dell'introduzione del Tartan, nuova superficie delle piste di atletica della quale si dice un gran bene, soprattutto per le gare di velocità. E in Messico si corre in altura, a più di duemila metri, l'ideale per fare dei gran tempi.
Norman si trova ad arrivare in finale nei 200 metri, in un'edizione dove, nei giorni precedenti, le gare di atletica hanno visto dei record eccezionali, alcuni letteralmente disintegrati grazie a risultati che hanno fatto gridare al miracolo. La finale dei 200 metri vede Norman comportarsi benissimo e, in giorni nei quali inizia lo strapotere dei neri nelle gare di velocità, si piazza al secondo posto in mezzo ai due americani Tommie Smith (oro con il nuovo record mondiale) e John Carlos (bronzo). Un bianco in mezzo a due "negri", come si diceva senza le virgolette una volta.
Al momento della premiazione i due americani hanno deciso di indossare un paio di guanti neri e di salire senza scarpe ma con le calze nere in segno di protesta per il razzismo imperante nel loro paese. Il problema è che uno dei due ha dimenticato i guanti nel dormitorio. Norman allora suggerisce: "indossate un guanto per uno". E poi, visto che i due hanno anche una coccarda dell'OPHR (Olympic Project for Human Rights), un'organizzazione nata nel 1967 per protestare contro la segregazione razziale negli USA, Norman a quel punto dice ai due ragazzi: "io sto con voi, datemi una coccarda e la indosserò durante la premiazione".
***
La premiazione è ben rappresentata da una foto che ormai conoscono tutti ed è diventata un simbolo della protesta in tutto il mondo. Una protesta che avrà strascichi assurdi. Smith e Carlos riceveranno minacce di morte continue, la moglie di uno dei due arriverà a suicidarsi per l'insostenibilità di quella situazione. Smith e Carlos passeranno alla storia come eroi che hanno combattuto per i diritti umani, eroi di un popolo e di una generazione. Nel 2005 l'università di San José erigerà un monumento raffigurante il podio di Messico 1968 con Smith e Carlos che alzano il pugno.
Peter Norman verrà osteggiato per sempre dall'atletica australiana. Nonostante raggiunga il tempo necessario per le olimpiadi di Monaco 1972 per cinque volte nei 100 e per tredici volte nei 200, il comitato olimpico australiano preferirà non mandare NESSUNO a correre gli sprint piuttosto che mandare lui, unico caso nella storia dello sport australiano. Lo stesso comitato olimpico australiano non lo inviterà nemmeno ai giochi olimpici di Sidney, né in qualità di tedoforo né di spettatore, come se non fosse mai esistito. Ogni qualvolta si accennerà alla fotografia del podio di Messico 1968 il suo nome non verrà mai menzionato, a differenza di Carlos e Smith. Vivrà nell'anonimato e cadrà preda della depressione e dell'alcool fino alla sua morte, avvenuta per un attacco di cuore nel 2003. Al funerale saranno proprio Carlos e Smith a reggerne il feretro.
Nel monumento all'università di San José raffigurante il podio, il secondo posto è VUOTO. Il tempo (20:06) ottenuto il 16 Ottobre 1968 a Città del Messico sui 200 da Peter Norman è ancora oggi record australiano.
si parla di:
antieroi,
eroi,
olimpiadi,
Peter Norman,
vita morte e miracoli
lunedì 23 luglio 2012
Per un amico vicino
Mercoledì 25 luglio, quello che viene, leggeremo delle cose sul terremoto, credo, in Piazza Unità d'Italia a Novellara (RE). Divideremo il palco con le nostre amiche del Coro delle Mondine di Novi di Modena e i nostri amici Flexus - e con Nevruz (click), Andrea Mingardi (click), Little Taver (click) e i Ridillo (click). Il ricavato della serata servirà, dicono, per ricostruire il Cinema Teatro Lux di Rovereto Sul Secchia, frazione di Novi di Modena.
Qui c'è il volantino della serata e, insomma, diffondete, accorrete, donate, eccetera.
Qui c'è il volantino della serata e, insomma, diffondete, accorrete, donate, eccetera.
venerdì 20 luglio 2012
Se tutto va bene
In fondo, mi viene da dirmi, tra tutti i periodi che uno può immaginarsi, credo, questo è (stato) il più buio e difficile delle nostre vite, nel senso dell'insieme, e d'ora in poi, penso, dovrà esser meglio per forza, se tutto va bene.
giovedì 19 luglio 2012
Biografie essenziali (speciale)
Vincenzo Li Muli, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 42 anni.
Emanuela Loi, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 44 anni.
Claudio Traina, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 47 anni.
Walter Eddie Cosina, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 51 anni.
Agostino Catalano, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 63 anni.
Paolo Borsellino, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 72 anni.
L'Italia, oggi, forse, a quest'ora, sarebbe un posto diverso.
Emanuela Loi, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 44 anni.
Claudio Traina, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 47 anni.
Walter Eddie Cosina, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 51 anni.
Agostino Catalano, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 63 anni.
Paolo Borsellino, oggi, forse, a quest'ora, avrebbe 72 anni.
L'Italia, oggi, forse, a quest'ora, sarebbe un posto diverso.
martedì 17 luglio 2012
L'ennesimo libro della fantascienza: intendiamoci subito
«intendiamoci subito: la letteratura è una nicchia della fantascienza.» (arditodelpopolo in una discussione senza capo né coda su friendfeed)Se non vi siete scordati, noi non ci siamo scordati, facciamo L'ennesimo libro della fantascienza. Avete tempo fino alla data stellare -310316.93992233363 (le 23:59 del 6 settembre 2012) per mandarci un racconto, un saggio, un ragionamento, una foto, una poesia, un disegno o quello che vi pare all'indirizzo marcomncrd [chiocciola] gmail [punto] com. Potete sfruttare la fantascienza in tutte le sue forme e in tutti i suoi sottogeneri, potete anche inventarne dei nuovi, non avete limiti. C'è solo una regola da rispettare: NO FANTASY. Pensate al futuro.
__________
(Di solito abbiamo una specie di dogma che ci vieta di postare immagini nei post, qui su Barabba, ma per il dottor thunalab possiamo fare volentierissimo un'eccezione. Grazie, thunalab.)
domenica 15 luglio 2012
Adesso
Adesso, se qualcuno mi chiede com'è che si sta adesso, io gli rispondo che adesso, per dire, se son lì che bevo una birra sul tavolo del salotto come facevo prima, mentre magari ciappino al computer o leggo un libro come facevo prima, e tiro su la bottiglia e ingollo un bel sorsone a collo come facevo prima, e poi la riappoggio contento di fianco al libro o al computer vicino al bordo del tavolo come facevo prima, adesso mi chiedo «oh, e se viene il terremoto?» E allora prendo la birra mezza piena e la sposto al centro del tavolo oppure la metto per terra oppure bevo a collo quella che rimane e «ecco,» mi dico tranquillo, «adesso sì.»
venerdì 13 luglio 2012
Biografie essenziali (144 e 145)
Sir Michael Philip Jagger e il suo amico Keith Richards han compiuto cinquant'anni. Due volte.
martedì 10 luglio 2012
RiScossa Music Festival: 14 e 15 luglio 2012
In breve: taluni barabbisti questa domenica 15 luglio, ma anche questo sabato 14 luglio, andranno a sentire i Camillas, i Mad Pour l'Unheard, per non parlare degli Zambramora, di Na Isna, degli Humus e degli altri ancora, che ancora non conosciamo ma che stimiamo di già. Saremo al circolo Arci Arcobaleno (non ci sarà bisogno della tessera) di Santa Croce, la provincia più south e più californiana di Carpi.
Qui il sito al festival e all'associazione AppenAppena che lo promuove.
Qui il link all'evento su fb, per partecipare e far partecipare.
(Uscendo dall'autostrada, andando verso Correggio, dopo una rotonda, si sale un pezzo di cavalcavia, si volta a sinistra prima di arrivarci in cima, si volta di nuovo due volte a sinistra, eccovi arrivati.)
A leggere cosa e perché: non lo sappiamo ancora bene, anche se il posto a me fa tornare in mente alcune emozioni vivide, certo è che saremo lì per supportare ancora una volta le nostre zone terremotate e le belle genti ancora un po' sotto shock.
A leggere quando e con chi: saremo prima dei concerti della domenica (indicativamente ore 17:30), durante, in mezzo o dopo il reading di un gradissimo poeta che mi fregio di conoscere dai tempi del servizio civile a Bologna: Vate Valerio Grutt.
A leggere secondo chi: i promotori di questa due giorni sono l'associazione culturale AppenAppena che, per chi non lo sapesse, il 19 e 20 maggio scorso tentarono a Carpi di portare a termine un Festival sulla Resistenza, nomato R.esistenze appunto. Con l'attentato di Brindisi e poi la scossa del 20 maggio il festival si era prima temporaneamente procrastinato, poi interrotto.
Alcuni artisti che si erano proposti allora, e tanti altri nuovi, hanno accolto la proposta degli AppenAppena di riprovarci (A GRATISSE!!!), e stavolta i proventi andranno alla ricostruzione di uno spazio culturale reso inagibile dai sismi.
Insomma, se volete venire a vedere un bel pezzo d'Emilia, ci trovate lì, sotto i 40° previsti, armati di gnocco fritto e lambro con ombrellino e cannuccia.
Qui il sito al festival e all'associazione AppenAppena che lo promuove.
Qui il link all'evento su fb, per partecipare e far partecipare.
(Uscendo dall'autostrada, andando verso Correggio, dopo una rotonda, si sale un pezzo di cavalcavia, si volta a sinistra prima di arrivarci in cima, si volta di nuovo due volte a sinistra, eccovi arrivati.)
A leggere cosa e perché: non lo sappiamo ancora bene, anche se il posto a me fa tornare in mente alcune emozioni vivide, certo è che saremo lì per supportare ancora una volta le nostre zone terremotate e le belle genti ancora un po' sotto shock.
A leggere quando e con chi: saremo prima dei concerti della domenica (indicativamente ore 17:30), durante, in mezzo o dopo il reading di un gradissimo poeta che mi fregio di conoscere dai tempi del servizio civile a Bologna: Vate Valerio Grutt.
A leggere secondo chi: i promotori di questa due giorni sono l'associazione culturale AppenAppena che, per chi non lo sapesse, il 19 e 20 maggio scorso tentarono a Carpi di portare a termine un Festival sulla Resistenza, nomato R.esistenze appunto. Con l'attentato di Brindisi e poi la scossa del 20 maggio il festival si era prima temporaneamente procrastinato, poi interrotto.
Alcuni artisti che si erano proposti allora, e tanti altri nuovi, hanno accolto la proposta degli AppenAppena di riprovarci (A GRATISSE!!!), e stavolta i proventi andranno alla ricostruzione di uno spazio culturale reso inagibile dai sismi.
Insomma, se volete venire a vedere un bel pezzo d'Emilia, ci trovate lì, sotto i 40° previsti, armati di gnocco fritto e lambro con ombrellino e cannuccia.
si parla di:
appuntamenti,
barabba o morte,
terremoto in emilia
venerdì 6 luglio 2012
Interviste alla rovescia: Adelchi Battista
Adelchi Battista una volta ci ha regalato un suo monologo teatrale intitolato La vendetta è il racconto per le nostre Schegge di Liberazione (lo trovate qui). Ho sempre avuto un debole per quel monologo e quando è uscito Io sono la guerra, il romanzo di Adelchi, son corso a comprarlo. Appena finito di leggere mi son detto: che figata. Poi mi son detto: che libro strano. Allora l'ho contattato, Adelchi Battista, e gli ho chiesto se avesse voglia di farmi delle domande. Lui me le ha fatte, io ho risposto, e quella che segue è la terza intervista alla rovescia di Barabba.
Adelchi Battista – Odio molto questa cosa delle domande rovesciate, perché è molto più difficile che non rispondere a una normale intervista su un libro che ho scritto – intervista di cui so già quasi tutte le domande a memoria e ho avuto tutta una vita per elaborare le risposte più argute e intellettuali che ci siano. Tu mi chiedi di intervistarti quale lettore del tuo libro, e ti garantisco era meglio offrirti una cena. Purtroppo la mia coscienza di anzyano militare in congedo mi impone di affrontare questa ulteriore sfida e quindi eccomi qua. Io sono la guerra. Complimenti per averlo letto tutto fino alla fine da parte dell'autore, prima di ogni cosa. Non ti ha sfiancato? Non ti è sembrato che l'impersonalità come tratto fondamentale, la mancanza di sostegni narrativi classici, l'anarchia della trama ne abbiano un po' frammentato l'andamento?
Many - Ciao, Adelchi. No, Io sono la guerra non mi ha sfiancato, anzi, me lo son proprio bevuto, come si dice. I motivi sono vari e forse quello principale - a parte l'interesse personale per il periodo storico trattato - è legato strettamente agli eventi: Io sono la guerra è il libro con cui ho ripreso a leggere i libri nei giorni successivi al terremoto (mica poi tanto successivi, visto che la terra continuava a ballare ancora, ogni tanto). Era un periodo che leggere era fatica, c'erano delle cose da fare, dei parenti da sfollare, delle persone da aiutare, c'era il cervello da rimettere in bolla e c'era da decidere, sera per sera, dove dormire. Da questo punto di vista, leggere del bombardamento di San Lorenzo è stata un'esperienza tutta particolare. Anche leggere di quei piccoli scorci di Auschwitz che ci sono nel libro è stato abbastanza coinvolgente, visto che sono stato sul Treno della Memoria a Gennaio di quest'anno e fondere quello che ho visto di persona con quello che hai scritto, ecco, non so come dirlo, ma mi sembrava di esser lì e delle volte ho dovuto alzare gli occhi dal libro per tirare fiato.
Per finire di rispondere alla domanda, parlando dell'impianto narrativo, ammetto di aver avuto delle difficoltà alla partenza, proprio per l'impersonalità e la frammentazione degli episodi narrati e il continuo cambio del soggetto e del luogo. Ma appena ingranata la marcia, non mi sono più fermato. Non è mica vero che la trama è anarchica. Mi è sembrata una trama precisa e in continua ascesa verso il finale. E gli ultimi capitoli li ho letti d'un fiato, sono avvincentissimi.
A.B. – Mi è stato spesso detto che il libro in effetti ha una tale specificità che si rende inclassificabile. Ho cercato di difenderlo, di tenerlo dentro la categoria del romanzo, ma senza riuscirci. C'è chi addirittura vorrebbe metterlo tra i saggi e chi ancora nella storiografia divulgativa, che mi fa particolarmente spavento. Non andava bene romanzo e basta? Che ho fatto di male?
M. – Va benissimo romanzo e basta. Solo che davvero è difficile capire che Io sono la guerra sia un romanzo, di primo acchito. Ci si mette del tempo, almeno metà libro. È che se uno lo legge superficialmente, magari rischia di farti fare la figura del Valerio Massimo Manfredi della Seconda Guerra Mondiale, ma non mi pare il caso. (Mi piace molto la definizione che ha dato del tuo libro un tizio sul tuo profilo di facebook: "Io sono la guerra è un romanzo storico dalla forma di Fuga".)
A.B. – Chi è la guerra? Cioè a dire: chi è la guerra nel mio libro? Chi sta parlando? Chi dice 'io sono la guerra', secondo te?
M. – Questa è una domanda difficile. Per come l'ho capito io, l'autore, cioè Adelchi Battista, cioè tu, è diventato la guerra. Quindi l'autore che nel romanzo si fa Dio, che sa tutto, in questo caso diventa Guerra, la Guerra che in quel periodo era dappertutto, che coinvolgeva in qualche modo tutte le persone del pianeta, tutti i luoghi, nessuno escluso. Ecco, se Dio è in ogni cosa e in ogni luogo, come dicono quelli che ci credono, la Seconda Guerra Mondiale è stata decisamente Dio, con la differenza che non si può non credere alla Seconda Guerra Mondiale. Poi magari non ho capito niente.
A.B. – Secondo te c'è tanto futuro nel libro? Ho voluto parlare dell'oggi? Le cadute dei regimi sono tutte simili?
M. – Sì. Ecco, da questo punto di vista la dicitura "romanzo" è perfetta, perché la storia di Io sono la guerra ha una sua universalità.
A.B. – L'autore continua a sostenere che sia ormai maturo il tempo di una memoria condivisa, unica, per tutto il Paese. Condividi questo pensiero? E se lo condividi, come pensi ci si possa giungere? Se invece non lo condividi, perché?
M. – Vorrei scrivere una risposta, ma hai già detto molto tu con la domanda e con una cosa che avevi scritto su facebook tempo fa. Sì, credo che sia tempo per una memoria condivisa e credo che sia tempo già da tempo. Ultimamente, quando giriamo coi reading sulla Resistenza e cerchiamo di leggere alcuni racconti di Schegge di Liberazione tra quelli meno retorici (speriamo), alla fine degli spettacoli ci son sempre delle persone che ci dicono cose come "bravi, era ora che si leggessero racconti così", e mi vien da pensare che la gente forse è pronta per iniziare il processo di condivisione della memoria. Delle altre volte, invece, magari dopo aver acceso la televisione, mi sembra che abbiamo ancora il Novecento appoggiato sulla spalla come un pappagallo.
A.B. – Tu hai lavorato molto sulla parte finale della Seconda Guerra Mondiale, in particolare su tanti episodi resistenziali. Ti sei fatto un'idea generale su cosa sia stata la Resistenza?
M. – Sì, me la sono fatta, un'idea generale, e non so se riesco a spiegarla, ché con le parole, in questi casi, faccio fatica. Però più si delinea in testa quest'idea generale della e sulla Resistenza, più resto affascinato dai racconti individuali, dai singoli episodi, come a voler rappresentare la Resistenza con una figura molto grande con tantissime piccole sezioni da colorare e una tavolozza molto ma molto ampia.
A.B. – Mi colpisce spesso, trattando di questi temi, l'argomento 'giustizia'. Penso agli episodi di giustizia sommaria nei confronti dei repubblichini, penso alla giustizia del processo di Verona, e penso alla mancata giustizia, ovvero alla mancata consegna di Mussolini agli alleati da parte del governo Badoglio. Fantasticando, mi viene in mente Mussolini in catene portato nei teatri di New York, come una specie di King Kong. Ma mi viene anche in mente quella Norimberga italiana che forse ci avrebbe evitato parecchio spargimento di sangue, inclusi gli anni di piombo. Tu che ne pensi?
M. – Penso che la giustizia sia un concetto molto difficile da universalizzare, credo che dipenda sempre dal tempo e dal luogo. Faccio fatica a pensare a come sarebbero andate le cose se ci fosse stata una Norimberga italiana, perché non c'è stata, o se Mussolini fosse stato consegnato agli americani, perché non è stato consegnato. L'idea di giustizia che abbiamo oggi è calibrata secondo la Storia e secondo quello che è accaduto anche in quell'occasione.
In pratica non ti so rispondere (e la cosa che mi è piaciuta molto di Io sono la guerra è che il tuo libro non dà delle risposte, che poi è quello che deve fare un bel libro, come si dice sempre). Però Mussolini portato nei teatri di New York come una specie di King Kong è già un'idea per un altro romanzo. Se non lo scrivi tu, te la rubo.
M. – Oh, eran domande difficili. La prossima volta facciamo che mi inviti a cena. Allora, adesso, come tradizione delle interviste alla rovescia, rompo lo schema e ti faccio le uniche due domande che penso abbiano senso quando si intervista uno scrittore: Adelchi Battista, perché hai scritto Io sono la guerra?
A.B. – Non c'è mai un motivo preciso per cui uno scrive un libro. Di solito sono dei casi fortuiti. Io ho incominciato a pensare a questa cosa mentre scrivevo un monologo teatrale intitolato 'la vendetta è il racconto', che tu dovresti conoscere perché l'hai pubblicato in uno dei tuoi ebook. Ecco, il monologo aveva qualcosa di non detto, voleva dare delle risposte, ma non erano abbastanza approfondite per mancanza di spazio, e così ho pensato di lavorare in modo più accurato, anzi più accurato di tutto quanto riuscivo a trovare in commercio sull'argomento. Doveva essere talmente accurato da risultare non attaccabile politicamente. Ci sono voluti degli anni, ma il libro si è fatto un po' da solo e forse il motivo principale è proprio questo: voler ottenere un libro di memoria condivisa.
M. – L'altra domanda: è bello?
A.B. – Ah questo io proprio non lo so. Mi dicono che è bello, ma io di certo so solo una cosa. Scriverlo è stato non solo bellissimo, ma proprio esaltante.
Adelchi Battista – Odio molto questa cosa delle domande rovesciate, perché è molto più difficile che non rispondere a una normale intervista su un libro che ho scritto – intervista di cui so già quasi tutte le domande a memoria e ho avuto tutta una vita per elaborare le risposte più argute e intellettuali che ci siano. Tu mi chiedi di intervistarti quale lettore del tuo libro, e ti garantisco era meglio offrirti una cena. Purtroppo la mia coscienza di anzyano militare in congedo mi impone di affrontare questa ulteriore sfida e quindi eccomi qua. Io sono la guerra. Complimenti per averlo letto tutto fino alla fine da parte dell'autore, prima di ogni cosa. Non ti ha sfiancato? Non ti è sembrato che l'impersonalità come tratto fondamentale, la mancanza di sostegni narrativi classici, l'anarchia della trama ne abbiano un po' frammentato l'andamento?
Many - Ciao, Adelchi. No, Io sono la guerra non mi ha sfiancato, anzi, me lo son proprio bevuto, come si dice. I motivi sono vari e forse quello principale - a parte l'interesse personale per il periodo storico trattato - è legato strettamente agli eventi: Io sono la guerra è il libro con cui ho ripreso a leggere i libri nei giorni successivi al terremoto (mica poi tanto successivi, visto che la terra continuava a ballare ancora, ogni tanto). Era un periodo che leggere era fatica, c'erano delle cose da fare, dei parenti da sfollare, delle persone da aiutare, c'era il cervello da rimettere in bolla e c'era da decidere, sera per sera, dove dormire. Da questo punto di vista, leggere del bombardamento di San Lorenzo è stata un'esperienza tutta particolare. Anche leggere di quei piccoli scorci di Auschwitz che ci sono nel libro è stato abbastanza coinvolgente, visto che sono stato sul Treno della Memoria a Gennaio di quest'anno e fondere quello che ho visto di persona con quello che hai scritto, ecco, non so come dirlo, ma mi sembrava di esser lì e delle volte ho dovuto alzare gli occhi dal libro per tirare fiato.
Per finire di rispondere alla domanda, parlando dell'impianto narrativo, ammetto di aver avuto delle difficoltà alla partenza, proprio per l'impersonalità e la frammentazione degli episodi narrati e il continuo cambio del soggetto e del luogo. Ma appena ingranata la marcia, non mi sono più fermato. Non è mica vero che la trama è anarchica. Mi è sembrata una trama precisa e in continua ascesa verso il finale. E gli ultimi capitoli li ho letti d'un fiato, sono avvincentissimi.
A.B. – Mi è stato spesso detto che il libro in effetti ha una tale specificità che si rende inclassificabile. Ho cercato di difenderlo, di tenerlo dentro la categoria del romanzo, ma senza riuscirci. C'è chi addirittura vorrebbe metterlo tra i saggi e chi ancora nella storiografia divulgativa, che mi fa particolarmente spavento. Non andava bene romanzo e basta? Che ho fatto di male?
M. – Va benissimo romanzo e basta. Solo che davvero è difficile capire che Io sono la guerra sia un romanzo, di primo acchito. Ci si mette del tempo, almeno metà libro. È che se uno lo legge superficialmente, magari rischia di farti fare la figura del Valerio Massimo Manfredi della Seconda Guerra Mondiale, ma non mi pare il caso. (Mi piace molto la definizione che ha dato del tuo libro un tizio sul tuo profilo di facebook: "Io sono la guerra è un romanzo storico dalla forma di Fuga".)
A.B. – Chi è la guerra? Cioè a dire: chi è la guerra nel mio libro? Chi sta parlando? Chi dice 'io sono la guerra', secondo te?
M. – Questa è una domanda difficile. Per come l'ho capito io, l'autore, cioè Adelchi Battista, cioè tu, è diventato la guerra. Quindi l'autore che nel romanzo si fa Dio, che sa tutto, in questo caso diventa Guerra, la Guerra che in quel periodo era dappertutto, che coinvolgeva in qualche modo tutte le persone del pianeta, tutti i luoghi, nessuno escluso. Ecco, se Dio è in ogni cosa e in ogni luogo, come dicono quelli che ci credono, la Seconda Guerra Mondiale è stata decisamente Dio, con la differenza che non si può non credere alla Seconda Guerra Mondiale. Poi magari non ho capito niente.
A.B. – Secondo te c'è tanto futuro nel libro? Ho voluto parlare dell'oggi? Le cadute dei regimi sono tutte simili?
M. – Sì. Ecco, da questo punto di vista la dicitura "romanzo" è perfetta, perché la storia di Io sono la guerra ha una sua universalità.
A.B. – L'autore continua a sostenere che sia ormai maturo il tempo di una memoria condivisa, unica, per tutto il Paese. Condividi questo pensiero? E se lo condividi, come pensi ci si possa giungere? Se invece non lo condividi, perché?
M. – Vorrei scrivere una risposta, ma hai già detto molto tu con la domanda e con una cosa che avevi scritto su facebook tempo fa. Sì, credo che sia tempo per una memoria condivisa e credo che sia tempo già da tempo. Ultimamente, quando giriamo coi reading sulla Resistenza e cerchiamo di leggere alcuni racconti di Schegge di Liberazione tra quelli meno retorici (speriamo), alla fine degli spettacoli ci son sempre delle persone che ci dicono cose come "bravi, era ora che si leggessero racconti così", e mi vien da pensare che la gente forse è pronta per iniziare il processo di condivisione della memoria. Delle altre volte, invece, magari dopo aver acceso la televisione, mi sembra che abbiamo ancora il Novecento appoggiato sulla spalla come un pappagallo.
A.B. – Tu hai lavorato molto sulla parte finale della Seconda Guerra Mondiale, in particolare su tanti episodi resistenziali. Ti sei fatto un'idea generale su cosa sia stata la Resistenza?
M. – Sì, me la sono fatta, un'idea generale, e non so se riesco a spiegarla, ché con le parole, in questi casi, faccio fatica. Però più si delinea in testa quest'idea generale della e sulla Resistenza, più resto affascinato dai racconti individuali, dai singoli episodi, come a voler rappresentare la Resistenza con una figura molto grande con tantissime piccole sezioni da colorare e una tavolozza molto ma molto ampia.
A.B. – Mi colpisce spesso, trattando di questi temi, l'argomento 'giustizia'. Penso agli episodi di giustizia sommaria nei confronti dei repubblichini, penso alla giustizia del processo di Verona, e penso alla mancata giustizia, ovvero alla mancata consegna di Mussolini agli alleati da parte del governo Badoglio. Fantasticando, mi viene in mente Mussolini in catene portato nei teatri di New York, come una specie di King Kong. Ma mi viene anche in mente quella Norimberga italiana che forse ci avrebbe evitato parecchio spargimento di sangue, inclusi gli anni di piombo. Tu che ne pensi?
M. – Penso che la giustizia sia un concetto molto difficile da universalizzare, credo che dipenda sempre dal tempo e dal luogo. Faccio fatica a pensare a come sarebbero andate le cose se ci fosse stata una Norimberga italiana, perché non c'è stata, o se Mussolini fosse stato consegnato agli americani, perché non è stato consegnato. L'idea di giustizia che abbiamo oggi è calibrata secondo la Storia e secondo quello che è accaduto anche in quell'occasione.
In pratica non ti so rispondere (e la cosa che mi è piaciuta molto di Io sono la guerra è che il tuo libro non dà delle risposte, che poi è quello che deve fare un bel libro, come si dice sempre). Però Mussolini portato nei teatri di New York come una specie di King Kong è già un'idea per un altro romanzo. Se non lo scrivi tu, te la rubo.
M. – Oh, eran domande difficili. La prossima volta facciamo che mi inviti a cena. Allora, adesso, come tradizione delle interviste alla rovescia, rompo lo schema e ti faccio le uniche due domande che penso abbiano senso quando si intervista uno scrittore: Adelchi Battista, perché hai scritto Io sono la guerra?
A.B. – Non c'è mai un motivo preciso per cui uno scrive un libro. Di solito sono dei casi fortuiti. Io ho incominciato a pensare a questa cosa mentre scrivevo un monologo teatrale intitolato 'la vendetta è il racconto', che tu dovresti conoscere perché l'hai pubblicato in uno dei tuoi ebook. Ecco, il monologo aveva qualcosa di non detto, voleva dare delle risposte, ma non erano abbastanza approfondite per mancanza di spazio, e così ho pensato di lavorare in modo più accurato, anzi più accurato di tutto quanto riuscivo a trovare in commercio sull'argomento. Doveva essere talmente accurato da risultare non attaccabile politicamente. Ci sono voluti degli anni, ma il libro si è fatto un po' da solo e forse il motivo principale è proprio questo: voler ottenere un libro di memoria condivisa.
M. – L'altra domanda: è bello?
A.B. – Ah questo io proprio non lo so. Mi dicono che è bello, ma io di certo so solo una cosa. Scriverlo è stato non solo bellissimo, ma proprio esaltante.
giovedì 5 luglio 2012
Generi di prima necessità
L'altro giorno abbiamo smontato e caricato e spostato letti e armadi dalla casa inagibile dei nonni, poi abbiamo chiuso a chiave per sempre la porta. Ma prima di farlo, prima di girare per l’ultima volta la chiave nella toppa, col cuore che piangeva, io e mio padre siamo andati nel solaio tutto crepato e abbiamo tirato fuori la macchina da cucire della nonna. Quando gliel’abbiamo portata, forse per la prima volta da tantissimo tempo, ho visto gli occhi di mia nonna inumidirsi. Ha sorriso e ha detto «oh, là, questa è proprio la mia». È una vecchia CASER fissata su un tavolino di legno tarlato, con la pedaliera in metallo, che forse è di ghisa, secondo me. L’ha comprata nel ’53 già usata.
«Non l’ho proprio comprata» dice mia nonna dopo qualche minuto di silenzio e contemplazione, «l’avevo vista da una signora, mi piaceva, l’ho scambiata con un una cassetta di mele.»
Dopo, mia sorella ha scritto una cosa su facebook. Una cosa che fa così:
Mio suocero, Gianfranco, che non è mai uscito dalla sua casa piena di crepe, nella zona rossa di Carpi, che non c'è stato proprio verso di farlo uscire, anche se ci abbiam provato, ma niente, quando gli abbiamo chiesto cosa gli serviva, ci ha detto: sigarette e Lambrusco. E noi glieli abbiamo portati. «Siete la mia protezione civile», ci ha detto. È fatto così.
Mia nonna, Ada, sfollata in un camper davanti a casa dei miei, a Novi di Modena, quando siamo andati a recuperare le sue cose col carriolino e lei ha iniziato a capire che forse non sarebbe mai più rientrata nel posto in cui ha abitato per almeno cinquant’anni, ecco, le prime cose che ci ha fatto portar fuori, prima ancora dei vestiti e dei giabanini di valore, sono state: il casco per la permanente (perché le signore son signore in ogni situazione), l’asse per la sfoglia (perché «tua madre ha un tavolo che non va mica bene»), due o tre mattarelli e farina e uova (perché anche se casca il mondo bisogna fare delle torte). È fatta così.
Ed è proprio vero, mi vien da pensare, quello che diceva un mio amico cantautore un paio di giorni dopo la prima scossa del 20 maggio, e cioè che «l’unica cosa positiva di un disastro è che ti fa riconsiderare le priorità, e non so se sia il karma, lo ying e lo yang o chissà che cosa, però è indubbio che ti rimette a posto il cervello per quel che vale la pena di avere e vivere. Poi, piano piano, ti scordi tutto e ritorni un cretino. Chissà quale delle due è la nostra vera indole.» Siam fatti così.
__________
Questa cosa qui, che è il montaggio di un paio di post che avevo scritto dopo il terremoto (anche se "dopo" non è corretto, che era un periodo, ma l'abbiam capito dopo, che eravamo ancora "durante" il terremoto) sul mio blog personale, l'abbiamo letta al Concertone della Guazza, a Novi di Modena, e forse la leggiamo ancora il 25 luglio a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, insieme al Coro delle Mondine di Novi di Modena, in una serata di raccolta fondi per la ricostruzione del Cinema Lux di Rovereto sul Secchia, frazione di Novi di Modena. Ma poi ve lo diciamo meglio.
«Non l’ho proprio comprata» dice mia nonna dopo qualche minuto di silenzio e contemplazione, «l’avevo vista da una signora, mi piaceva, l’ho scambiata con un una cassetta di mele.»
Dopo, mia sorella ha scritto una cosa su facebook. Una cosa che fa così:
Poi ti ritrovi a svuotare e smontare completamente la camera dei nonni, perché lì, nella loro casina che per loro era come un castello, per niente moderna ma tenuta con tanto amore, piena di ricordi e di abitudini… ahimè, non ci potranno più vivere. Guardo negli occhi la nonna che, per non pensarci, sta a casa mia a cucinare qualsiasi cosa gli sta passando per la testa e poi guardo negli occhi il nonno, che invece è là a guardare il figlio e i nipoti che smontano e caricano sul furgone un pezzo della sua vita. Entro in casa e prendo una M&M’s (che adora), gliela porto, la mangia ma è arrabbiato, il cuore è spezzato. Li vedo, sono abbattuti, delusi, arrabbiati con un nemico invisibile che in pochi secondi (un po’ per volta) gli ha portato via tutto ciò che con fatica e sudore si erano costruiti per poter vivere una vecchiaia serena. Li vedo così, con reazioni diverse, ma entrambi seri e in silenzio. Cercano di farsene una ragione, che in realtà non si faranno mai. Cercano di non far vedere troppo la sofferenza che stanno provando, ma che negli occhi si vede comunque, solo per non far stare peggio noi che gli siamo vicini.Ecco, io adesso giro sempre col cane al guinzaglio e una borsina con dentro il computer, il caricabatterie del cellulare, la carta di credito e due o tre libri, anche se è un periodo che leggere è fatica. Son fatto così.
Ci penso e l’unica cosa che mi viene da fare è piangere, ma non mi faccio vedere.
Io, come mio fratello, in quella casa ci sono cresciuta. Se non tutti i giorni, al massimo ogni due giorni, andavo là per fare due risate e soprattutto per fargli fare due risate. Dopo sì che erano felici, dopo sì che anche io ero felice sapendo di averli resi felici.
Da oggi non potrò più dire “vado dai nonni”; da oggi non potrò più fare arrabbiare la nonna presentandomi all’ultimo secondo a casa sua per pranzo o per cena, senza averla avvisata almeno qualche ora prima; da oggi non potrò più andare là e dire “dai nonno, vieni con me! – e lui perplesso: ma indua? – Nonno non preoccuparti, andiamo!” e anche se un po’ nervoso per non averlo avvisato prima, veniva sempre.
Ci ripenso e l’unica cosa che mi viene da fare è piangere, ma non mi faccio vedere.
Mio suocero, Gianfranco, che non è mai uscito dalla sua casa piena di crepe, nella zona rossa di Carpi, che non c'è stato proprio verso di farlo uscire, anche se ci abbiam provato, ma niente, quando gli abbiamo chiesto cosa gli serviva, ci ha detto: sigarette e Lambrusco. E noi glieli abbiamo portati. «Siete la mia protezione civile», ci ha detto. È fatto così.
Mia nonna, Ada, sfollata in un camper davanti a casa dei miei, a Novi di Modena, quando siamo andati a recuperare le sue cose col carriolino e lei ha iniziato a capire che forse non sarebbe mai più rientrata nel posto in cui ha abitato per almeno cinquant’anni, ecco, le prime cose che ci ha fatto portar fuori, prima ancora dei vestiti e dei giabanini di valore, sono state: il casco per la permanente (perché le signore son signore in ogni situazione), l’asse per la sfoglia (perché «tua madre ha un tavolo che non va mica bene»), due o tre mattarelli e farina e uova (perché anche se casca il mondo bisogna fare delle torte). È fatta così.
Ed è proprio vero, mi vien da pensare, quello che diceva un mio amico cantautore un paio di giorni dopo la prima scossa del 20 maggio, e cioè che «l’unica cosa positiva di un disastro è che ti fa riconsiderare le priorità, e non so se sia il karma, lo ying e lo yang o chissà che cosa, però è indubbio che ti rimette a posto il cervello per quel che vale la pena di avere e vivere. Poi, piano piano, ti scordi tutto e ritorni un cretino. Chissà quale delle due è la nostra vera indole.» Siam fatti così.
__________
Questa cosa qui, che è il montaggio di un paio di post che avevo scritto dopo il terremoto (anche se "dopo" non è corretto, che era un periodo, ma l'abbiam capito dopo, che eravamo ancora "durante" il terremoto) sul mio blog personale, l'abbiamo letta al Concertone della Guazza, a Novi di Modena, e forse la leggiamo ancora il 25 luglio a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, insieme al Coro delle Mondine di Novi di Modena, in una serata di raccolta fondi per la ricostruzione del Cinema Lux di Rovereto sul Secchia, frazione di Novi di Modena. Ma poi ve lo diciamo meglio.
Nel nome del padre (9)
Ester sta guardando questa foto appesa alla credenza.
"E io dove sono papà?"
"Tu non c'eri ancora"
"Ero nella pancia della mamma?"
"No... no... non c'eri proprio... cioé, era prima che finissi nella pancia della mamma. Era prima che nascessi... ma ancora prima. Non avevamo ancora pensato di avere una bambina. Era prima... capisci?"
"Sì, ho capito. Ero in un'altra pancia"
"E io dove sono papà?"
"Tu non c'eri ancora"
"Ero nella pancia della mamma?"
"No... no... non c'eri proprio... cioé, era prima che finissi nella pancia della mamma. Era prima che nascessi... ma ancora prima. Non avevamo ancora pensato di avere una bambina. Era prima... capisci?"
"Sì, ho capito. Ero in un'altra pancia"
mercoledì 4 luglio 2012
Dialettica (12)
La comprensione del dialetto, e soprattutto delle espressioni dialettali, è una cosa che s'impara in modo euristico. Per come l'ho capita io, negli anni, che ormai son trentatré, teniamo botta ha un significato del tipo: oh, è così e basta, non ci sono alternative, porta pazienza. Solo che, adesso, dopo il terremoto, mi sembra che teniamo botta venga un po' usata con un significato alterato, quasi deviato, come a voler dire che gli emiliani son gente più forte dell'altra gente, son gente che non molla, come se ci fosse qualcosa da mollare. Che è un po' come dire, per esempio, che i giapponesi tengono botta perché ci sono abituati, come si sente dire spesso, ai terremoti (e con più di tredicimila morti e quindicimila dispersi non mi sembra che ci siano tanto abituati, i giapponesi, ai terremoti). Ecco, quello che volevo dire è che a me questa cosa del teniamo botta, son sincero, mi ha un po' rotto i maroni.
martedì 3 luglio 2012
Biografie essenziali (143)
Muore Sergio Pininfarina. Il corteo funebre durerà ben tre secondi in meno del previsto, grazie allo spoiler sulla bara.
Trucchi della borghesia (66)
Gli orari delle banche.
"Lasciate perdere broletti, palazzi del governo e anche le università, ragazzi, pensate alle banche. Intendiamoci, non sono da sconfessare le occupazioni spontanee di questi edifici, e magari anche delle carceri e dei manicomi. Anzi, esse sono da riguardare con simpatia, ma bisogna in ogni caso riconoscerne l'infantilismo rivoluzionario, l'errata valutazione circa la priorità degli obiettivi [...]
L'occupazione delle banche richiederà l'impiego di squadre specializzatissime. Se anche noi possiamo permettere e anzi approvare quei moti spontanei e repentini della piazza, e potremo persino giungere a sollecitarli, per l'azione risolutiva noi avremo bisogno di altissima funzionalità, perfetta scelta di tempo, fulmineità di manovra e risolutissima decisione. E badiamo bene: occupare le banche non significa entrarci dentro e rimanerci, seduti per terra a tenere assemblee, concioni e bambate simili [...]
Le banche non vanno presidiate. Vanno vuotate."
(Luciano Bianciardi, Aprire il fuoco, Rizzoli, 1969, pp. 173-174.)
lunedì 2 luglio 2012
Nel mio mondo perfetto (16)
Nel mio mondo perfetto la gente va al cinema da sola o, eventualmente, insieme ad altra gente che abbia la comprovata capacità di andare al cinema da sola; e le cibarie da portarsi in sala, oltre a essere essenzialmente gommose, sono dentro a dei sacchetti che, per quanto tu li stropicci e li appallottoli e ci metti le mani dentro a ravanare, non fan rumore. Tutto questo, a parte le gommose, non vale per i film coi supereroi, per i quali è obbligatorio essere accompagnati da dei parenti preadolescenti, ma c'è anche da dire che i film son quasi tutti coi supereroi, nel mio mondo perfetto.
Iscriviti a:
Post (Atom)