Quando esco dal metrò la piazza si apre con la Cattedrale sullo sfondo e mi sento a disagio. Faccio fatica a cogliere l'essenza delle città perché faccio fatica a guardarle per intero, nelle loro parti più colossali, più sorprendenti, riesco sempre a perdermi un pezzo.
Mi sento a disagio perché mi si piazza in mente l'immagine di una folla mastodontica che corre verso di me e sta per chiedermi qualcosa, tenta di parlare tutta insieme e io non capisco niente. È un pensiero talmente vivido e bislacco che mi sembra vero e mi immagino, credendo che stesse succedendo davvero, ci avrei giurato, di fare il gioco - io e quella folla - di un due tre stella al contrario: io sono al muro e conto, loro si immobilizzano non appena inizio a dire un e corrono quando mi volto.
Abbasso lo sguardo, guardo il selciato, cerco dei piedi amici e prontamente li trovo da un lato, accanto a un muretto.
Piove e me ne accorgo senza guardare in su. Il selciato inizia a tingersi di scuro, vedo i piedi amici, li raggiungo. Respiro.
Bella, eh?
Eh.
Ci spostiamo verso destra, con la coda dell'occhio continuo a guardare la piazza e la sua folla che appena si accorge di me, di nuovo, tenta di corrermi incontro. Allora mi ripeto un due tre stella e cammino.
Cominciamo bene, penso.
Gli altri scelgono una birra a una Brassérie all'angolo, io invece scelgo una libreria, la scelgo a caso, infatti è una libreria inglese a Parigi e entrare in una libreria inglese a Parigi come prima cosa fa ridere, lo so. Entro veloce perché piove, lo faccio solo perché ho bisogno di un rifugio, ho lo zaino sulle spalle e lo spazio è stretto. Le colonne in mezzo rubano tantissimo spazio, gli scaffali sono alti e il mio occhio si perde ad arrivare fino in cima - sono miope - e i titoli in inglese non riesco a capirli tutti. Faccio attenzione a non spostare libri e riviste, quindi mi muovo piano. Non cerco niente, non voglio niente, non mi serve niente: mi metto a guardare il vetro, mi metto a guardare fuori dall'interno e la Cattedrale è ancora lì, non si muove e non si nasconde, allora mi giro io, vado in fondo, mi perdo nei vicoli. È una libreria coi vicoli, la polvere e il legno, la folla mi aspetta fuori, so che è lì fuori ma decido di ignorarla.
Salgo una scala a chiocciola, al piano di sopra ci sono un pianoforte e due letti, c'è un ragazzo che suona, non so che faccia ha. C'è questa cosa che dei pianisti spesso non vedi la faccia, te le puoi immaginare e basta, di solito immagino che abbiano un ciuffo sulla fronte perché la gravità, lo stare piegati sui tasti, nella mia mente fa sempre sì che i pianisti abbiano un ciuffo che scende sulla fronte. Lui invece no, a un certo punto si gira, mi becca a fissarlo, sorride e ricomincia a suonare. Ha una felpa grigio chiaro e gli occhiali neri.
L'altra cosa che noto sempre dei pianisti è la loro arroganza dei gesti, i salti e le evoluzioni e le mani che sembrano sempre più agili di quello che sono, le dita che sembrano sempre molto più lunghe e capaci e la mia attrazione per le mani capaci mi inebetisce sempre.
Rimango ad ascoltare, arrivano persone che sorridono, stupite, o annuiscono e dopo un po' mi allontano, con la musica in sottofondo. C'è una sedia di fronte a una macchina da scrivere, nella sala accanto, protetta da tendine, sembra una cabina telefonica ma molto più colorata. Attorno a me, attaccati alle pareti, accanto alla luce rossa che illumina la macchina da scrivere, ci sono dei pezzi di carta con su scritte le cose più disparate, in un sacco di lingue diverse. Mi siedo e rimango ferma per qualche minuto, poi scrivo:
Se sali la scala c'è un pianoforte verticale dove ci sei tu che suoni e io che ti ascolto, rapita, come quella volta.
Che ore sono?
Le sei meno dieci.
Che giorno è oggi?
Il diciotto giugno duemiladieci.
Duemiladieci?
No, scusa, duemilaundici. Il diciotto giugno duemilaunidici.
Ti amo.
__________
I vicoli della libreria di questo pezzo sono questi.
Nessun commento:
Posta un commento