di Sara Parravicini (decima - e ultima - parte)
Io volevo solo dire che io lo so cosa sono i partigiani perché mia nonna Vera mi racconta sempre le storie della guerra, perché adesso sono grande e le storie dei piccoli, con quelle femmine che strillano dalle torri aiuto! aiuto! e poi arriva il principe e le salva, mi hanno un po’ stufato.
Io adesso sono grande e le storie della guerra posso ascoltarle.
E lo dico sempre a mia nonna: nonna, me la racconti una storia? Dai, raccontami una storia da grandi (che vuol dire una di quelle storie vere, che un po’ fanno paura e un po’ schifo, anche perché, di solito, sono piene di morti e di ammazzamenti, ma sono vere).
E lei, di solito, me la racconta.
“Sì, certo che te la racconto, stellina, anche se un po’ mi viene la paura ancora adesso quando racconto le storie della guerra, perché ero una bambina come te quando la guerra è iniziata e io l’ho capito subito che non era una bella roba, la guerra.
Quando Mussolini ha annunciato alla radio che entravamo in guerra era il 10 giugno 1940 e io me lo ricordo ancora: ero in cortile a giocare alla corda e mio padre, che era monarchico e non gli piaceva Mussolini, mio padre mi chiama ed è arrabbiato e spaventato e io dico sì sì arrivo, ma continuo a saltare la corda, allora mio padre scende e mi fa salire in casa, quattro piani di scale, a pedate nel culo. Eh eh eh! Ché si era innervosito, ché lui lo sapeva che la guerra era una cosa brutta, ché aveva uno fratello che era morto nella guerra del ’15-’18. È stata l’unica volta che mi ha toccato. Ho capito subito che la guerra era una cosa brutta. Ma comunque...
Te l’ho raccontata quella di quando c’era la ritirata e i nostri soldati saltavano tutti sui camion, ma siccome non ci stavano tutti, da dentro i loro compagni gli tagliavano le dita con la baionetta per farli scendere se no il camion non riusciva a partire?”.
“Sì, nonna, quella la so già.”
“E quella del fratello piccolo che salva il fratello grande caricandoselo in spalla?”
“Sì anche quella. Una nuova, nonna.”
“Quella del soldato che aveva male al piede?”
“No, quella no! Dai nonna racconta!”
“Eh… Questa me l’ha raccontata mio cugino Galdo, lui ha fatto la guerra in Russia e dice che è stata una cosa terribile, che i nostri soldati non erano pronti… Mussolini li ha mandati là con le uniformi invernali, ma i nostri soldati avevano giusto un maglione di lana e delle scarpe che erano come di cartone, e in Russia faceva freddo per davvero, anche quaranta gradi sotto lo zero! Tu ce li avresti mandati dei ragazzi in Russia vestiti solo con la camicia e un maglione di lana? No! Ma quello lì non capiva mica niente! I russi ci avevano dei cappelloni di pelo, era come averci un gatto sulla testa, e degli stivali, di pelle, pesanti… Ai nostri, ci gelavano le mani che dicono che neanche quelli che erano abituati al clima delle nostre montagne potevano sopportare un freddo simile!
Insomma, per farla breve, c’era questo soldato che era un po’ che si lamentava che diceva che aveva male a un piede. A un certo punto gridano la ritirata, che vuol dire che hanno perso la battaglia e che devono tornare indietro, altrimenti i russi arrivavano e li ammazzavano tutti. E allora via! Tutti indietro di corsa! Di corsa per modo di dire, perché c’erano poi dei metri di neve e non è che si potesse proprio correre…
Insomma, questo soldato non ce la fa più e dice ai suoi compagni Lasciatemi qui, io non riesco più a camminare. Voi andate, così, se arrivano, i russi ammazzano solo me. Ma i suoi compagni non gli danno retta e fruc! Uno lo tira su per un braccio e fruc! Uno lo tira su dall’altro e così come volando il soldato riesce a rimanere col gruppo. Quando alla sera si fermano che preparano un po’ di zuppa calda, il soldato si slaccia la scarpa, la allarga piano piano, ahia che male ahiahiahiahiahi! Toglie la calza e nella calza ci sente un duro, ma un duro! E allora ci guarda dentro e dentro c’era rimasto un dito! Che lui non si era accorto ma gli si era congelato e gli si era staccato e adesso era lì dentro! E dicevano che era proprio duro come un turacciolo. Allora il soldato prende in mano il suo dito, lo guarda ben bene, lo avvolge in un fazzoletto e dice ai suoi compagni Questo me lo metto in tasca che lo porto alla mia mamma che mi dice sempre che sono uno smemorato e che perdo sempre tutto! Ah, ah, ah!”
***
La mia vita è un anelare a un equilibrio di cui alla fine non mi importa un granché.
Cerco di mettere insieme i pezzi, ma è inutile: un vaso rabberciato fa cacare, lo sappiamo tutti, è infantile stare a raccontarsela, anche se faccio tanto l’ecologista e provo a riparare tutto, anche se mi impegno a trovare dei sinonomi per definirne l’effetto, una manciata di cocci tenuti insieme dall’attak fa cacare e basta, mi spiace. Io ci provo a tenere tutti i pezzi insieme, e forse è umano, ma forse più vitale sarebbe cercare di guardarli dall’alto tutti 'sti pezzi, tutti 'sti isolotti, 'sti momenti felici e infelici e poi, dopo che li hai visti, dirsi pure: “minchia, che bordello la mia vita!” Poi però basta così, accontentarsi della visione di questo insieme sgangherato, rassegnarsi alla mancanza di un senso logico e trovarne uno proprio, parziale e imperfetto quanto vuoi, ma il più possibile sincero.
Tenere insieme i miei pezzi non è facile. Devo prendere per mano la mia me bambina e la mia me adolescente e giovane donna e, con le loro paure, le loro ferite, le loro umiliazioni, continuare a camminare.
No, Maria, non piangere, è solo un sogno, non c’è la piovra sotto il letto, è morta, non viene più, vieni qua tra le mie braccia, torna a dormire… ssst…
Hanno bisogno di attenzioni e cure, ma come piante grasse sono ricoperte di spine e come gatti neri soffiano, se ti avvicini troppo.
Selvaggia, no, non fare così, sei bella, ti giuro, aggrappati a me, io ti vedo, sei vera, non sei di vetro, no, non farti scivolare nel nero…
Ma sono ragazze difficili e i loro ricordi sono come lividi che fanno voltare la gente, che fanno spalancare occhi e bocche, che attraggono e respingono.
E poi hanno addosso questa bava di lumaca, che per tanto tempo mi ha disgustata, ma che ora… beh, ora non più, anzi. Che se inclini un po’ la testa, se la guardi un po’ in obliquo, quella bava ti racconta di strade sempre in salita, di vittorie quotidiane, della conquista dell’orgoglio di essere donna, sempre, nonostante le umiliazioni.
In fondo, in quella bava, si riflette pur sempre la luce del sole.
*
“I serpenti cambiano periodicamente la loro pelle. Lo scopo della muta è la crescita delle dimensioni del serpente, dunque è indispensabile per il miglioramento del movimento.”
Confesso: questo l’ho copiato uguale uguale dal Libro delle Ricerche, ma la maestra non se ne è accorta.
Questa cosa vuol dire che il serpente ogni anno cambia guardaroba. Fa la muta, appunto: si sfila la pelle vecchia come un calzino e tira fuori quella nuova.
A me piace questa cosa che ho copiato, cioè che se vuole crescere, se vuole muoversi meglio, il serpente DEVE cambiare pelle; anche se quella che ha magari gli piace tanto, anche se ormai gli stava comoda comoda: la deve cambiare.
Io una volta l’ho vista, la muta dei serpenti. Si toglievano la pelle sopra gli alberi. Non so perché non rimanessero per terra, a spogliarsi: forse si vergognavano o forse boh, non l’ho trovato in nessun libro il perché.
Per me era un modo per sentirsi un po’ meno schifi, per dimenticare per un pochettino la fatica di strisciare per terra, per ricordarsi di quando erano un po’ di cielo, di quando avevano le ali.
***
Certo che è pieno di tagli: è un tagliere, direte voi.
Sì, però non è che nascere tagliere sia facile da accettare, secondo me. Tutta la vita a sopportare peso di lame e odore di aglio e di pesce e di cipolla. Odori che ti rimangono dentro anche se stai in ammollo in acqua e aceto.
C’è modo e modo di essere tagliere. Il tagliere di Casa Nocina secondo me è un tagliere che si è riappacificato con il suo essere tagliere. Quando sbuccio le patate, ci parliamo in silenzio, io e il tagliere.
E lui mi dice che non è stufo di triti di aglio, no.
Mi dice che quei tagli, quella spaccatura, quel nero di fuoco, sono ciò che fa di lui un signor tagliere.
Senza quei tagli, senza quella crepa, senza quel nero di fiamme, non sarebbe quello che è:
un oggetto resistente.
In tutti i sensi.
***
La mia ricerca è quasi finita.
Io qui potrei parlare ancora del serpente, dell’Uroboro, per far chiudere il cerchio.
E invece io lo frego, l’Uroboro, e di lui non vi dico più niente.
Cioè, non è che ho iniziato a parlare del serpente che si mangia la coda e con quello devo finire, no.
Perché non è che l’Uroboro vuol dire tempo che torna uguale. Vuol dire il tempo che gira. Vuol dire vita, poi morte, poi ancora vita.
Ma è inutile che ve lo spieghi, questa è una di quelle cose semplici che i grandi non riescono a capire.
Però per chiudere il cerchio vi racconto un’ultima storia, sempre di un serpente, ma più simpatico. Vi racconto la storia del serpente Dinkidanko.
Dinkidanko era un serpente giallo con due corna luuunghe così. Ed era grosso, Dinkidanko, e fortissimo. E si mangiava tutto quello che trovava nel villaggio: vitelli grassi, galline spennate, capretti con gli zoccoli, bambini con le ciabatte… Tutto si mangiava, Dinkidanko.
Un giorno però la gente del villaggio si stufa di Dinkidanko e vanno tutti dal Re a protestare:
“Sua Maestà, faccia qualcosa, Dinkidanko mi ha mangiato otto pecore!”
“Sua Maestà, mi aiuti, Dinkidanko mi ha mangiato la vacca!”
“Sua Maestà, ci salvi, Dinkidanko spaventa i vecchi!” (che non si dice vecchi, ma anziani, ma se la favola dice così, non è colpa mia).
Il Re ci pensa un po’ su e decide che bisogna andare dal vecchio Saggio a chiedere consiglio. Una mattina presto il Re si sveglia e tutto solo raggiunge l’albero maestro, il baobab. Lì sotto incontra il Saggio e gli spiega dei capretti mangiati e dei bambini terrorizzati e della gente che grida che ha paura di Dinkidanko.
Pensa che ci ripensa, il Saggio trova una soluzione e, dopo due giorni, torna dal Re e gli dice:
“Il villaggio ha bisogno di coraggio. Ci servono dei giovani coraggiosi che trovino Dinkidanko e ci liberino dalla paura”.
Allora il Re manda in giro per il villaggio il griot, il cantastorie, a cantare che c’è bisogno di giovani coraggiosi.
Il giorno dopo si presentano in tre. Il Re li manda dal Mago della grotta sul fiume e, dopo un lungo cammino, i tre giovani arrivano a destinazione. Il Mago dà loro acqua da bere e una tazza di miglio da mangiare per ritrovare le forze poi i tre si addormentano intorno al fuoco.
Il giorno dopo, il Mago fa loro tre doni: al primo un bastone, al secondo un tappeto e al terzo una pietra rossa e tonda. Però il Mago non dice a cosa servono, dice solo di aspettare.
I tre bevono ancora l’acqua, mangiano il miglio e si addormentano di nuovo intorno al fuoco. Nella notte però si svegliano tutti e tre nello stesso momento: avevano fatto tutti lo stesso sogno! Nel sogno, scoprono che il bastone indicherà loro la tana di Dinkidanko e che con il tappeto, che è un tappeto volante, ci arriveranno in un battibaleno. Il sogno però non dice a cosa serve la pietra.
I tre giovani sono tutti contenti, si alzano, ballano e cantano una canzone di coraggio, si siedono sul tappeto e volano via guidati dal bastone.
In uno sbatter di ciglia arrivano davanti alla tana del serpente giallo. E da lì esce, esce Dinkidanko, ed è enorme, con queste corna lunghe e grosse, e ha gli occhi rossi e muggisce come un toro. A quel punto il terzo giovane fa per lanciargli la pietra rossa per ucciderlo, ma la pietra si illumina tutta e Dinkidanko urla e cade per terra e poi dice:
“Non mi ammazzate! Non sono cattivo! È che ci ho una spina nella pancia da tanti anni e questo dolore mi fa matto. Non mi uccidete, per favore.”
I tre capiscono che quella era la pietra della verità e allora con tutte le loro forze tirano tirano finchè la spina non esce dalla pancia del serpente.
Dinkidanko allora è felice e balla e salta e promette che proteggerà per sempre il loro villaggio.
Quando i tre giovani tornano con Dinkidanko, la gente però urla, che in quel villaggio si vede che ci avevano tutti l’ophidiofobia e si capisce, ché Dinkidanko gli aveva mangiato pure i bambini con le ciabatte.
Allora i giovani raccontano tutta la storia, e la gente si avvicina piano piano a Dinkidanko, e quando vedono che non è cattivo, ma che si lascia anche accarezzare allora fanno una grande festa e tutti bevono e mangiano come dei maiali e cantano e ballano e sono felici.
Poi la storia finisce con la parte dove il Re dà ai giovani le sue figlie in sposa, ma a me questa parte delle favole mi annoia e quindi non ve la racconto neanche, che tanto è sempre uguale.
Ecco, la mia ricerca è finita. Adesso sapete perché mi piacciono gli anfibi e i rettili e perché non è giusto trattarli da schifi. E se ci avevate l’ophidiofobia, anche se siete grandi e non capite le cose semplici, spero che adesso vi sia passata.
Ah: se incontrate la mia maestra, non diteglielo che ho copiato.
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NOTA: la favola del serpente Dinkidanko appartiene alla tradizione senegalese ed è stata da me liberamente reinterpretata.
(La decima parte è anche la fine di Hanno ucciso Barbapapà o Io per me vorrei essere una rana. Qui ci sono le altre parti, dalla prima alla nona. Poi, appena abbiamo un po' di tempo, ci facciamo un ebook.)
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