La tristezza si faceva particolarmente viva e dolorosa, alla mattina del ventisei d'ottobre, a Teano, quando Garibaldi e il Re Vittorio Emanuele II si incontrarono.
Si videro passare begli squadroni di cavalleria, elmi lucenti, artiglieri coi pezzi trainati, e la coda di crine pendente dal chepì. Poi, all'improvviso, in fondo alla strada rullio di tamburi, squillar di trombe, luccichio di corazze, di elmi argentati, e gran polverone: arriva il Re. Garibaldi si levò di capo il berrettuccio tondo e gli andò incontro con la mano tesa:
«Salute al Re d'Italia».
Una scena così, tra poco verrà affrescata dentro al palazzo comunale di Siena, dal pittore Pietro Aldi, e tutti i ragazzi delle scuole elementari la vedranno e si convinceranno che le cose siano andate proprio così.
Invece non è vero, le cose si svolsero in maniera diversa, fu piuttosto una scena goffa e impacciata. Il Re carezzava il collo del suo storno bellissimo e non sapeva cosa rispondere al saluto. La cavalla di Garibaldi, frastornata dal chiasso e dai colori, scartava. Si misero a fianco, in testa al corteo. Certi contadini che erano usciti dalle casupole a guardare tendevano il dito verso Vittorio Emanuele e gridavano «viva Garibaldi», convinti che don Peppino fosse il più lustro dei due, quello coi gran baffoni e il viso rosso. Vittorio Emanuele diventò anche più rosso per lo scorno e spinse al galoppo. Per un momento gli uomini del seguito, camicie rosse e spalline argentate, si confusero, ma presto furono separati, come due liquidi di diversa intensità dopo essere stati agitati in un vaso.
La cavalcata raggiunse un ponticello, senza che nessuno scambiasse una parola, poi i due liquidi incompatibili si divisero per sempre. Vittorio Emanuele ritornò verso Teano.
Garibaldi scese a un'osteriola, lì sul ciglio della strada, entrò sotto il portico, sedette su una panca, dinanzi a un barile ritto. Gli misero sopra un pane, una fetta di cacio e un boccale d'acqua. Ne prese un sorso e la sputò:
«Dev'esserci nel pozzo una bestia morta da tempo» disse.
Il giorno dopo scrisse una lettera al Re, deponendo il potere nelle sue mani. Concludeva con una preghiera:
«Io Vi imploro... che accogliate nel Vostro esercito i miei commilitoni che hanno ben meritato di Voi e della Patria».
Da dieci giorni - ma noi ancora non lo sapevamo - Garibaldi non era più a capo dell'esercito meridionale: aveva ceduto i poteri a Giuseppe Sirtori, «abbisognando di alcuni giorni di riposo».
(Luciano Bianciardi, Ai miei cari compagni - diario inedito di un neo-garibaldino, Stampa Alternativa, 2007; pagg. 135-136)
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