In seguito, nel non lentissimo fluire degli anni del dopoguerra, furono i tempi dei cessi denominati 00 (doppio zero come il fior di farina) e dei numero 100, pochi i water closet, diffusissimi quelli alla turca con o senza rialzo all’altezza dei ginocchi, taluni dei quali muniti di salvanatiche in legno (per sedersi?) sorta di seggette ottocentesche che pochi, se non stremati dalla stanchezza o anziani orrorosi, osavano adoperare secondo le istruzioni implicite nel design dei progettisti. Questi impianti li trovavi nei cinematografi e nelle trattorie, ma lì le istruzioni erano apertamente graffite sul muro: “Qui la faccio e qui la lascio, metà al duce e metà al fascio”, un po’ antica o, più moderna: “Non dico fate centro, ma almeno cagate dentro”. Ovvero: “Chi col dito il cul si netta / tosto in bocca se lo metta / così resterà pulito / muro, culo, carta e dito”. E qui c’è l’aggancio per tornare all’argomento di cui trattasi.
In bagno bisognava cavarsela proprio à la carte. Come in amore. Cioè come sognano di fare ancora oggi, per l’appunto in amore, i putti, i celibi, i malmaritati, i timidi colpevoli, i casanova da circoscrizione n° 1, i “tangheri afficati”, gli astemi maledetti, gli stitici di cuore e di scarsella, o i post pci, pds e via siglando. Vale a dire usando la carta che c’era dentro il gabinetto pubblico-privato appesa a un chiodo, carta di quotidiano ritagliata a rettangoli, la prima forma storica di riciclo ecologico. La carta del giornale L’Unità, quella del quotidiano più morbido e poroso d’Italia perché passato per molte mani e letto e amato, veniva per ciò (per questa ragione) denominata in vernacolo dai nemici di classe (pardon, dagli avversari con i quali stiamo veltronianamente collaborando) la cartàza, la cartaccia.
Ho visto, ho conosciuto (biblicamente non già, poffarbacco!) ragazze delle quali neanche il mio collega Durante o Ariodante potrebbe mai cantare la grazia, l’incedere onesto benigno e lieto, le ho viste umiliate dalla schiuma di sapone come le schedine da Totocalcio in mano a un barbitonsore sulle quali egli, come suole, asperge nettandolo il suo impavido, sapiente rasoio. Queste ragazze, nel giudizio della nostra scalcinata borghesia, subivano in medesimo apprezzamento della carta nazionalpopolare di cui sopra: ragazze godibilmente consumabili, si pensava, belle, sì, ma di una bellezza “della sinistra”, venustà di conio inferiore, moneta spendibile ma non “forte”, non “pregiata”. Come i rubli sovietici o i marchi della Ddr: nessun banco di cambiavalute le avrebbe accettate.
Ma ho rivisto anche il mio alto medioevo. E ho risognato i miei 5 anni su quel lontano water closet del ricovero Marchi. Mi hai fatto rimembrare, o Barabba, la mia infanzia da Odi barbare carducciane: il cuore non poteva “fuggir sul Tirreno”, non ci ero mai stato, non mi ero mai mosso da qui. Tranquillo, cioè trasognante e un po’ grassoccio, dalla tazza del wc non arrivavo a terra con i piedi, dovetti fare un saltino. La Teresina, quella prozia monarchica che non si fidava di nessuno (tantomeno dell’Italia che avrebbe di lì a poco proclamato la Repubblica) mi voleva nonpertanto un po’ di bene, però quando defunse era ancora persuasa che io non fossi altro che un essere molliccio. Dalle finestre della sua stanza-dominio che dava (dominava) sul prato e giardino e orti del Ricovero ammiravo i vecchi che giocavano a bocce.
All’età di sette anni (era il 1945) mi fu concesso di far comunella con loro. Mi insegnarono niente. Erano dei vecchi autentici, poveri ma non invalidi o stremati come quelli che il “Marchi” ospita adesso. Da loro imparai soltanto a fare un aquilone con le pagine del Corriere della Sera o con quelle del quaderno di scuola, piegando i margini e attaccandoli a una funicella, e a correre come un matto per fargli prendere quota. Correvo dentro l’ampia corte dell’ospizio, circondata da orti profumati, arrivavo fino alla statua biancoceleste della madonna di Lourdes, là in fondo a un verziere vertice del roseto, tra via Catellani e via San Bernardino da Siena.
Conciononsiacosacchè, come dice Totò, assai presto giunse l’età dell’adolescenza, con le sue esigenze nutrizionali. Cominciarono a non bastarci più, a me e ad altri ragazzi carpensi del quartiere, i pezzi di manzo già sfruttato, consustanziato, con cosce di cappone, al brodo del pingue Camerlengo, frattaglie residue che egli cristianamente ci elargiva. Nella saggezza delle zirudèle del dialetto carpigiano c’è un canonico che dice: “I puvrètt in n‘in mai a pòst , i vòlen la zigòla (cipolla), i la vòlen pulida e arpunsèda (una notte di ristoro dentro un’acqua sorgiva), po’ i pretènden anch l’oli e l’azé (aceto forte non balsamico, ohibò). Me invece am cuntèint: du gran ed sèl e un pùi (pollo) aròst, e a sun apòst!” (il pollo del Camerlengo vs. la cipolla dell’affamato).
Per fare la cacca bisogna avere mangiato. E in questo mondo dolorante e immedicabile assai spesso la stitichezza e la pellagra generano da assenza di cibo ruminato nell’epigastrio.
Infine: la carta assorbente. Era molto spessa quella in dotazione al camerlengo direttore unico del Ricovero, ma la usava solo come estrema ratio. Quel prelato, che a onor del vero ricordiamo riconoscenti anche come omileta colto e realista (e come pacioso vangelista in Duomo) preferiva usare al suo posto una finissima sabbietta che aveva il potere di asciugare le righe pulsanti dell’inchiostro nero e di quello rosso che adoperava per vergare le sue bolle motu proprio. Il risultato ero uno scintillio, un fulgore da firmamento che distoglieva dal contenuto e alleviava per un istante i morsi della coscienza e quelli della fame.
Cum servata sint omnia quae servanda erant, nihil obstat quominus imprimatur.
Il vecchio malvissuto e malnutrito
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