martedì 6 luglio 2010

O me o te

Mio nonno, Corrado, quello che una volta ha sporcato la divisa del Balilla, poi ha disertato e si è nascosto in una concimaia, quando andavo o vado in manifestazione, da quelle della scuola contro la Jervolino a quelle della FIOM per il contratto, tutte le volte mi racconta le stesse due storie. Una è la storia delle fonderie e l’ho già raccontata, mesi fa, a suo tempo. L’altra è la storia della sbarra di ferro, e la racconto adesso. Mi è tornata in mente perché domani, cinquant’anni fa, a Reggio Emilia, morivano delle persone.

Mio nonno, Corrado, nel primo dopoguerra e poi negli anni ’50, non aveva più una gran voglia di fare il contadino. C’era l’Italia da ricostruire e da rimettere in piedi e lui, che era un gran lavoratore, prestava le braccia in giro, dove serviva, come per la bonifica del canale. Mi racconta che, mentre bonificavano, ogni tanto c'erano degli scioperi. E quando arrivavano i celerini, loro si mettevano con le pale e i forconi puntati in avanti. La prima fila in ginocchio, la seconda in piedi, le altre file dietro pronte a sostituire i caduti. Non gliel’aveva insegnato nessuno, a fare così, e, visto che erano in gran parte semianalfaberi, non lo sapevano mica che erano disposti come i macedoni di Alessandro Magno. Chissà, forse la tattica militare e la lotta ce le abbiamo tutti in un angolo del cervello, un angolo che pulsa e si risveglia nel caso del bisogno. Come usare la spada o qualsiasi altra cosa contundente per colpire. Lo sai fare, quando è ora, non te lo insegna nessuno.

E infatti, mio nonno, Corrado, dieci anni dopo, negli anni ’60, era già un operaio della cooperativa dei muratori che avevan fondato per rifare l’Italia. Adesso, che l’Italia era rifatta, c’era da modernizzarla. Loro, gli operai, pensa te che ingenuoni, l'Italia la volevano moderna ma senza compromessi etici. E allora scioperavano e scioperavano, continuamente, in tutta l’Italia e anche a Novi di Modena, alla cooperativa dei muratori di mio nonno. Scioperavano e scioperavano ancora, manifestavano, urlavano gli slogan, si tenevano a braccetto per proteggere i rappresentanti sindacali, nei cortei, lungo la piazza del paese, che adesso è un parcheggio, ma allora chissà quante lotte, quante urla, quante rivendicazioni.

Poi arrivava la celere, con le camionette, gli elmetti, le armature, i manganelli, le pistole e tutto il resto.

E via, di corsa, sparpagliati per il paese, una gran foga, un parapiglia, ognuno col suo celerino dietro al culo, il manganello e la pistola puntati alla schiena. Loro, i manifestanti, erano a mani vuote, perché ci credevano ancora che le cose le si potesse cambiare solo alzando la voce. E invece niente, te alzavi la voce e subito arrivava il celerino con l'elmetto, l'armatura, il manganello e la pistola, e tu via, di corsa. Sempre così.

Anche mio nonno, Corrado, correva anche lui. Anche lui col suo celerino dietro al culo.

Mi racconta che mentre correva come un matto per la paura ha visto il cortile di una ferramenta e ci si è infilato dentro, e il celerino dietro, ma un po’ distante dal culo, perché mio nonno correva veloce ed era il figlio di Archimede, l’uomo più forte del paese.

Poi è arrivato anche il celerino, lì, dentro il cortile della ferramenta. È entrato per il cancello e si è fermato di colpo, sudava. Davanti a lui c'era mio nonno, Corrado, che si era fermato con le gambe divaricate e ben piantate, e una sbarra di ferro in mano che sarà stata lunga un metro e mezzo, una di quelle sbarre di ferro piene, che fan male.

O me o te, ha detto mio nonno, Corrado, al celerino.
O me o te. Impugnava la sbarra di ferro come una mazza, come una spada.

Deve essersela vista brutta, il celerino. Tirare fuori la rivoltella e sparare non poteva, o meglio, non se la sentiva, da solo, sai te i casini, dopo. Aveva solo il manganello e l’elmetto e l’armatura. Mio nonno, Corrado, invece, aveva la camicia aperta, sudata, il torso nudo sotto, coi pettorali ereditati da suo padre che pulsavano, le gambe larghe e ben piantate e in mano la sbarra di ferro, come una mazza, come una spada, per far male. O me o te, diceva.

È scappato via, alla fine, il celerino. Mio nonno, Corrado, ha tirato fiato, come si dice, ha messo giù la sbarra di ferro e si è incamminato verso casa. Mentre camminava, con la testa bassa e il fiatone per la gran paura, pensava che non lo sapeva mica se avesse avuto il coraggio di spaccargliela, la testa, al celerino. Però, mi racconta oggi, gli era venuto automatico comportarsi così. Chissà, forse la tattica militare e la lotta ce le abbiamo tutti in un angolo del cervello, un angolo che pulsa e si risveglia nel caso del bisogno. Come usare una sbarra di ferro o qualsiasi altra cosa contundente per colpire. Lo sai fare, quando è ora, non te lo insegna nessuno.

2 commenti:

  1. Non ci sono più gli operai di una volta, ecco perchè alle manifestazioni le prendiamo sempre. Dove son finiti i bei sevizi d'ordine tutti attorno al corteo con le bandierine rosse piccine piccò ma con quel bel manico grosso come un polso? Dove sono i gasisti di Bologna? E la Cooperativa Braccianti?
    Ormai usiamo più tastiere che picconi, non ci resta che sperare che sia vero che ne ferisce più la lingua che la spada.
    Evviva i linguacciuti

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  2. ah, il buon caro vecchio stalin, il bastone.

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