martedì 8 marzo 2011

Cicatrici: Neo

[riceviamo e pubblichiamo con gioia, in questa giornata speciale, la cicatrice di Roberta Ragona, meglio conosciuta come tostoini; potete accompagnare la lettura con un piatto di quei gnocchetti sardi suggeriti proprio ieri dal Fiorveluti]

(Posizione)
Pianta del piede sinistro.

(Cause)
"Che cos'è quello che hai sulla pianta del piede, un neo?"
"No. È una cicatrice."

A dare la forma ai giorni della settimana, d'estate, c'è una cosa che è l'innaffiatura.
Annaffiare bisogna per forza, perché d'estate, in Sardegna, di caldo ne fa parecchio. Si annaffia con l'acqua del pozzo però, che quella potabile è razionata, perché di acqua, in Sardegna, d'estate - si sa - ce n'è pochina.
Si annaffia un giorno sì e uno no. Nelle estati della mia infanzia c'era un sacco da annaffiare: si annaffiava da Nella e Pietro, da Ennio e Antonietta e si annaffiava a casa nostra quando noi eravamo ad Arzana, a Marsala o a Lumezzane.
La mia casa e quella di Ennio e Antonietta avevano un sacco di punti in comune. Entrambe grandi abbastanza per ospitare famiglie con un discreto numero di membri, entrambe piene di stanze interessanti, anfratti e pertugi. Entrambe costruite in un quartiere in piena espansione edilizia, di quelli che sarebbero diventati frondosi distretti suburbani di piccole villette con giardino, ma che durante la mia infanzia erano piuttosto un unico esteso cantiere aperto in cui mi sono procurata buona parte delle mie cicatrici. Entrambe avevano un enorme giardino popolato di animali. Nella mia mancavano i cani, che abbondavano invece da Ennio e Antonietta.
Di questo enorme giardino solo una piccola parte era ornamentale. La maggior parte dello spazio era occupata da un enorme disordinatissimo orto. A casa mia, come a casa di Ennio e Antonietta, lì dove l'orto finiva, vicino al muro di confine, cominciava una terra di nessuno in cui cresceva una collinetta, deposito di materiali edili di varia natura, legname, mattoni, blocchetti e sacchi di cemento. Perché non solo il quartiere, ma anche le nostre case in quel periodo erano un cantiere aperto in continua evoluzione.
La collinetta di casa mia era un oggetto misterioso, patria di una colonia di gatti forastici e inavvicinabili, pericolosamente vicina a una buganvillea dalle spine lunghe come pugnali.
Quella di casa di Ennio e Antonietta invece, era lì, accessibile. Pronta per l'esplorazione.
Mentre papà innaffiava, io davo la scalata al monte, arrampicandomi - novella Tenzing - su travi, pallet, rami potati e mezze cassettiere. Non so quanto tempo fosse passato da quando arrivammo a quando papà mi chiamò perché stava facendo buio, aveva finito di innaffiare ed era ora di tornare a casa. So che ero in cima alla collina e che portavo quelle scarpette gommose chiamate scheletrini, tipiche di un'infanzia nei primi anni '80.
Quello che mi ricordo è che sono saltata giù dalla collinetta, che non era alta. Ai piedi della collinetta, una trave. In mezzo alla trave, un chiodo da muratore lungo svariati centimetri.
Quello che mi ricordo è che sono andata da mio padre con il passo un po' goffo dei sub quando stanno per entrare in acqua, o degli sciatori da fermi. Solo che lo sci era la trave ed era unita al mio piede non da appositi attacchi, ma da un chiodo da muratore lungo svariati centimetri che attraversava il mio piede da una parte all'altra.

(Conseguenze)
Un'altra cosa che mi ricordo della mia infanzia è che ho fatto l'antitetanica tutti gli anni.


di Roberta Ragona "tostoini"

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