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Mi vergognavo che mio padre fosse
un fabbro.
Non che i miei amici avessero genitori scrittori, o politici, o
sportivi o che altro potesse far ingelosire un preadolescente. Però quando si
doveva tirar fuori il mestiere dei propri genitori dicevo sempre prima quello
di mia madre, che era infermiera in sala operatoria, e quindi salvava le vite,
aveva una divisa, poi, se proprio si insisteva, anche quello di mio padre.
Durante il liceo ho conosciuto una tipa che frequentava un altro giro rispetto al mio, era in classe con amici
che andavano alle magistrali, e ho scoperto che era la figlia del capo di mio
padre. Sapevo che si chiamava Narcisi di cognome, come la ditta dove lavorava
mio padre, così ho chiesto a papà se il suo capo aveva una figlia. Ce l’aveva
ed aveva la mia età. Sapere che questa era la figlia del capo di mio padre mi
ha sempre tenuto alla larga da lei. Che poi, anche di starle vicino, non me ne
fregava granché. Aveva pure l’apparecchio sia sopra che sotto. Questa parte della tipa figlia del capo
di mio padre magari la togliamo in editing.
Non ho imparato nulla del suo lavoro. Non ho imparato granché in generale da
lui, mi verrebbe da dire. O per lo meno non saprei decifrarlo ora. I primi
buchi col trapano li ho fatti a 23 anni. Non ho mai saldato nulla, e
probabilmente mai lo farò. Non ho neppure una morsa. Se potessi tornare
indietro ora. “Se potessi tornare indietro” non andrebbe detto mai.
Ricordo che per un certo periodo fumava di nascosto. Non saprei collocare
questo frangente storicamente. Sicuramente prima che si scoprisse del tumore.
Magari in seguito ad alcune analisi sballate, che so. Faceva esami regolari
perché era un donatore di sangue all’Avis. Ecco, questa cosa mio padre me l’ha
lasciata, perché anch’io sono diventato donatore di sangue per un certo
periodo. Mia madre comunque lo
beccava sempre, o sentendo l’odore di fumo sui vestiti, o trovando pacchetti
nascosti. E le scenate in cucina, quelle fatte a bassa voce per non farsi
sentire dai figli. In quel periodo facevo questo gioco: di nascondermi in
qualche punto della casa e trascrivere cosa dicevano i miei famigliari, poi
leggere a tutti, dopo cena, i loro dialoghi. Risate a palate. Quella cosa del
fatto che mio padre fumasse di nascosto non la lessi dopo cena. Bruciai il
foglio il pomeriggio seguente con la lente d’ingrandimento nel balcone che dà
sul retro.
Il tumore fu causato da un
melanoma, che è una specie di neo, che aveva sul collo.
Prese il cervello, e poi i polmoni. Ogni due anni faccio una visita
dermatologica per controllare i miei nei. Ne avrò più di 200 su tutto il corpo.
Quando vado dal dermatologo devo sempre specificare che ho una familiarità con
melanoma maligno, e a quel punto il dottore cambia faccia e mi visita con uno
zelo diverso. Non ci penso mai che uno dei nei potrebbe essere foriero di
sventure. Ci penso solo una volta ogni due anni, mentre sono svestito, sul
lettino del dermatologo, e quello indugia su un neo un po’ più del solito. Poi
ci fa una foto, scrive due robe al computer, e mi dice che posso tornare tra
due anni. In questo biennio però ci ho pensato una volta in più, questa in cui
sto scrivendo. Ne avrei anche fatto a meno.
Quando sono venuto a vivere in
montagna mia madre mi ha regalato una cassetta degli attrezzi nuova. Dentro
c’erano alcuni dei pezzi storici che ricordo in mano sua: il cacciavite a
taglio piccolo dal manico giallo; la cagna rossa con tutta la vernice
scrostata; la scatolina di latta blu per le candele con due candele unte
dentro. E il trapano a filo. Quanto l’ho maledetto. Quando usai per la prima
volta quel trapano feci 4 buchi nel muro per appendere una cornice. La punta
non entrava per più di 1 centimetro. Pensavo di aver colpito per quattro volte
un tondino di ferro, o un tubo, o che so. Poi mi accorsi che il trapano non era
sulla selezione giusta: c’era uno switch con il simbolo della vite – per
avvitare -, e il simbolo del martello – per forare. Ritentai switchando sul
martello ed entrai nel muro per 2 cm scarsi. Altri buchi a caso. Poi mi
spiegarono che dovevo usare una punta da muro. Grazie. Quando abbiamo
traslocato nella casa da cui scrivo, si ripresentò il medesimo problema.
Stavolta serviva una punta da pietra. Grazie.
Mio padre mi avrebbe sputato su un piede se m’avesse visto.
Poi sono migliorato. Ad oggi
penso che sarebbe fiero di come ho imparato a fare il cemento, a stuccare le
crepe nel muro, ad accendere il fuoco nelle stufe, ad usare il decespugliatore, ad
accatastare la legna. Di come vado liscio quando c’è da passare del ferro al
flessibile (“sgromellare”) o piallare delle assi. Di come ho installato
l’irrigazione a goccia nell’orto o accomodato la serratura del portone
d’ingresso. Chissà se sarebbe fiero di vedermi suonare a un concerto dei
Penguins o vedermi al mixer durante uno spettacolo. Una volta ad un concerto
del gruppo che venne dopo i Mind the Gap, alla Festa de l’Unità di Correggio,
vennero a vederci due suoi fratelli. Walter e Romano. Non ricordo cosa dissero
quando mi salutarono per andare a casa.
I miei amici Romano lo chiamavano McGayver: aveva un laboratorio in casa,
riparava elettrodomestici; il primo organetto me lo regalò lui, preso dalla
discarica e rimesso in sesto. Forse non me lo regalò, ma glielo compari. Comunque
fu un affare.
Erano i fratelli che all’ospedale venivano a trovarlo quasi tutti i giorni.
Entravano nella stanza – che grazie agli agganci di mia madre infermiera fu
tipo una singola per tutta la degenza – mi scambiavano un sorriso, si
mettevano a sedere, e io ne approfittavo per staccare una mezz’ora. Oppure ci
trovavano in giardino. Lo portavo là su una sedia a rotelle. Non riusciva più a
camminare. Non riusciva più a fare nulla. Gli davo da mangiare, gli mettevo il
pappagallo, lo lavavo. Per il resto preferiva chiamare un’infermiera, o lasciar
fare a mia madre. Avevo superato l’esame di teoria per la patente. Un errore.
Non mi ha mai visto guidare.
Un paio di volte, verso la fine, penso di aver persino dormito in ospedale,
cosa che mi risulta essere pressoché impossibile agli umani, almeno oggi. Cosa
che, comunque, non auguro a nessuno.
Negli ultimi giorni gli diedero della morfina.
Quando capimmo che stava
per morire c’eravamo io e mia madre. Telefonammo ai miei fratelli. Ecco, sì,
avevo un cellulare. Ricordo anche che era un Siemens e aveva lo schermo arancione.
Ma non ricordo se eravamo tutti dentro quando morì. Ricordo quel respiro, e
l’apnea sempre più lunga tra l’inspirazione e l’espirazione. Ricordo l’ultimo
respiro. L’ultimo respiro fu un’inspirazione. Poi gli occhi spalancati. Mia
madre che gli dice singhiozzando: “No Italo, non guardarmi così”, o qualcosa
del genere. Qualcuno pose il palmo
della mano sugli occhi e fece scendere le palpebre.
Cinque minuti fa non ero
cosciente di ricordare queste cose.
Ma scrivendo ricordo, e ora che ricordo, mi
rendo conto che difficilmente ricordo altre cose di mio padre perché le
immagini più indelebili restano quelle degli ultimi mesi, degli ultimi giorni,
e gli ultimi respiri. Per quanto sia difficile se ci si trova in mezzo, credo sia
meglio che la morte di qualcuno a cui abbiamo voluto bene sia vista solo da
sconosciuti.
Una volta che le si è scritte, ricordate, cancellarle sarebbe
inutile, e impossibile.
A dieci anni di distanza posso dire due cose: che ha
avuto un decorso abbastanza veloce, e che è stato fortunato a morire prima dei
suoi figli.
In questi giorni che ho un po’ di
tempo da perdere mi è tornato in mente mio padre.
Era da tantissimo tempo che non avevo del tempo tecnicamente vuoto.
Negli ultimi 5 anni, o forse sono 6 non ricordo (faccia che ride), ho quasi
sempre fatto spettacoli per lavoro. Panem et circeneses
era la tecnica dei romani per sedare le folle, e far passare il messaggio che
nonostante tutto, tutto andava comunque per il meglio.
Ma questi anni sono anni
di crisi, giusto, e la crisi ad un certo punto deve cominciare a scalfire anche alcune
parti dei circenses. A me, per lo meno, è capitato così, e
per l’autunno si preannuncia periodo di magra (o di rana, come dice il mio ex
capo). Ho sempre lavorato fin da quando facevo l’università. Negli ultimi anni
sono stato un precario con stipendio fisso (anomalia, ne convengo). Ora sono
precario tout court. E forse per un po’ vivrò la strana situazione di non avere
un lavoro da fare, o avere dei periodi senza un lavoro da fare. Scommetto un pieno di benza che se avessi imparato a saldare ora non sarei qua a scrivere. Ma non si torna indietro, già.
In generale, c'è più tempo di ozio.
Lo sapete il contrario di ozio in latino? Negozio, negotium, ovvero nec otium,
niente ozio. L’ozio era la
condizione basilare, soggiacente. Se c’era un lavoro da fare, non era altro che
un’intermittente interruzione dell’ozio. Cosa voglio dire? Non saprei, al
momento non me lo ricordo. Però c’è più ozio per pensare. E ogni tanto non è
così male. Aiuta a mettere le cose in ordine. Fine.
“Ciò che smarrisci ha due verità:
da un lato è nulla – e nulla esiste più;
dall’altro c’è la percezione che
rimanga sempre una tua proprietà”
Dico solo che leggere questi post é meraviglioso
RispondiEliminaUn saluto