mercoledì 12 settembre 2012

Nel nome del padre (11) - Mio padre faceva il fabbro

Mio padre faceva il fabbro.
In questi giorni ho parecchio tempo libero. E il pensiero mi cade su mio padre.
Era il 2000 quando è morto. Più o meno in questo periodo. Faccio molta fatica a ricordare le date legate alle persone che mi sono care. Ho chiesto a mia madre. Era il 14 agosto. Per ricordarmi alcuni passaggi importanti della mia vita, li ho annodato ad eventi importanti e che si ricordano per forza. Tipo l’11 settembre 2001. Ecco: il settembre 2001, il mese e l’anno del crollo delle due torri, sono anche il mese e l’anno in cui morì mio fratello. Uno degli ultimi ricordi che ho di lui è proprio dell’11 settembre, il suo ingresso in cantina, mentre mi toglievo i vestiti della vendemmia, mentre dice: “Scoppia la terza guerra mondiale”. Quello è anche l’anno in cui mi sono messo con Agnese, che ora è mia moglie. L’anno dopo invece fu l’anno in cui morì mio nonno. Sempre tra Agosto e Settembre; la data precisa non la ricordo. E non mi va di chiederla a mia madre. Di conseguenza l’anno prima del 2001 fu l’anno in cui morì mio padre. Una roba così, più o meno. Tre anni di allegria a palate, comunque. Del tipo che se io fossi stato il mio vicino di casa avrei traslocato all’istante.
(Ho scritto quest’ultima riga e mi sono venute in mente altre robe pazzesche: nel condominio dove ora vive mia madre, e dove vivevamo tutti, qualche anno dopo che me n’ero andato di casa, un tizio nell’appartamento di fianco si è buttato dal balcone ed è morto; la moglie del tizio dell’appartamento di sotto è morta pure lei e suo marito, il vedovo, è morto tempo dopo per un infarto mentre era in auto in compagnia a fare le galanterie. Chiamala come vuoi…)

Ho capito che mio padre aveva qualcosa di serio quando trovai le pagine dell’enciclopedia medica di mia madre, infermiera da sempre, aperte sul tavolo della sala al lessema CERVELLO.
Ricordo che in ospedale facevo i quiz per la patente mentre lui era sul lettino. E che dopo una degenza abbastanza breve lo rimandarono a casa. Quell’estate non lavorai, avevo il compito di badare a lui. Era anche la stessa estate del mio primo concerto. Il gruppo si chiamava Mind the gap. Il primo concerto era in una festa parrocchiale. Alcuni pezzi nostri e delle cover (una era sicuramente dei Fun Love’n Criminal). Arriva il giorno, saluto papà, esco e vado a San Martino per il sound check. Dopo qualche ora mi telefona qualcuno. Ora non ricordo se era mia madre o la vicina di casa. Non ricordo neppure come fece a telefonarmi, forse avevo già un cellulare. Mio padre aveva avuto un altro ictus, era crollato a terra, e batteva coi pugni sul pavimento, la vicina ci aveva messo un po’ a capire che c’era qualcuno che chiedeva aiuto, io non c’ero, ero a suonare, al mio primo concerto, poi sono in ospedale, e c’è mia madre che mi dice una cosa decisamente americana del tipo: “Va a suonare, sono sicuro che lui vorrebbe così”, e io vado, con l’animo più o meno in pace, ma molto convinto che a mio padre gliene sarebbe fregato il giusto.

Ecco, ho cominciato a suonare così. E va avanti da una dozzina d’anni. Ancora non so se vantarmene o vergognarmene. Probabilmente nessuno dei due. È andata così, punto.

Agnese ogni tanto mi chiede com’era mio padre, dice che le spiace non averlo conosciuto. Io non so mai bene cosa dire. Mio padre faceva il fabbro. Per un certo aspetto dell’arte fabbrile mio padre era uno specialista, quasi unico. Continuò a lavorare anche dopo la pensione. Anzi, ricordo che per un certo periodo non lavorò una volta ottenuta la pensione. Poi la cosa lo prendeva malissimo e riprese a fare il fabbro. Era uno di quei tizi manuali, con il piano di lavoro in garage con la morsa stabile, le cassettiere piene, che con un trapano in mano ti appendeva di tutto. Non usciva spesso. Credo che uscisse solo una sera alla settimana. Andava alla bocciofila, in centro, a Correggio. Andava quasi sempre in bici. Non amava i guanti. Ho quest’immagine di mio padre in bici che pedala senza tenere il manubrio e si soffia sulle mani, lo sbruffo di fiato che prende forma nel gelo, e in testa quel cappello à la russa, con i due copriorecchie che si abbottonano sopra. Quel cappello è l’unica cosa che mi resta di mio padre. Si chiamava Italo. Il cappello invece si chiamava Slobodan. Ogni tanto d’inverno lo metto anche se mi va stretto.

Si può essere lanciati quanto si vuole, ma se vedi morire un padre o se vedi nascere un figlio, difficilmente vivrai cose più forti, ne sono quasi sicuro.

C’era questo odore di mio padre, che mi viene in mente ogni volta che chiacchiero con dei fumatori seri. E quel ruvido delle guance, quando ancora gliele accarezzavo, quando ancora gli stavo in braccio. Si faceva la barba tutti i giorni. Con un rasoio elettrico. Sempre lo stesso. L’affidabilità degli elettrodomestici di un tempo. Il momento in cui veniva a prendermi a scuola era la summa di queste due cose. Ero quasi sempre uno degli ultimi 3 a restare all’Istituto Contarelli fin verso le 18.00. L’Istituto Contarelli era una scuola di suore. Mio padre staccava attorno alle 17.30, prendeva l’auto e veniva a prendermi. Una fiat 500. Quando facevamo delle curve senza frenare le chiamava “curve a rapanello”.
Ecco una cosa che mi è rimasta di mio padre: le “curve a rapanello”; le faccio anch’io, con mia figlia, anche se le chiamo “curve gatto” e miagolo fortissimo per tutta la sterzata.
Arrivava tra le 17.30 e le 18.00 a prendermi al doposcuola, e immagino che si accendesse una sigaretta appena parcheggiato nel piazzale della scuola, e la gettasse di fianco al portone, prima di suonare il campanello. Noi sentivamo il campanello: o era mio padre, o era il padre di Gerardo, o era un genitore del terzo che restava oltre le 17.30 e che ora non ricordo. Italo entrava, io gli andavo incontro, quelle guance, e quell’odore, resteranno la sinestesia imperitura che sanciva la fine delle mie giornate di scuola a tempo pieno.
Credo di essere passato al lavoro da mio padre giusto un paio di volte, e non saprei dire perché. Era un posto sconveniente per dei bambini: scintille, fluorescenza delle saldature, polvere di ferro, calendari di donne nude. Se Agnese mi chiederà ancora di raccontarle qualcosa di mio padre potrei dire queste robe qui. Se mi chiede che tipo era le direi che era tranquillo, che amava cucinare il sabato mattina degli spaghetti al pomodoro e panna, che amava guarda il Gran Premio ogni domenica pomeriggio, con tanto di prove e qualificazioni nei giorni prima, e la moviola, il campionato, ma senza eccessivo zelo. Amava venirmi a vedere quando giocavo a calcio, e magari portarci in trasferta di tanto in tanto.

A pensarci, mi sale un po’ di dispiacere a pensare alle cose della mia vita che mio padre non ha fatto in tempo a vedere. L’idea che mi sto facendo è che tutte le cose più belle che ho vissuto, o almeno la maggior parte di esse, siano accadute dopo che lui è morto. Sono in grado di parlare e scrivere di mio padre senza piangere. Non so cosa significhi di preciso. Non significa un’assenza di affetto o di amore. Non ricordo nessun episodio in cui l’ho odiato. Ma neppure alcun episodio in cui sono stato estasiato dall’essere suo figlio.
Ricordo però che in certi casi mi sono vergognato, ad esempio del lavoro che faceva.

Perché tutto ciò? Dovrebbe saltare fuori nella seconda parte, se trovo ancora del tempo da perdere.

3 commenti:

  1. Mio padre faceva l'impiegato. Ma mi portava sulla cinquecento, aveva un banco da lavoro in garage, odorava di sigaretta, guardava il Gran Premio e la domenica faceva un sugo divino. E l'11 settembre era il giorno del suo funerale. Niente... era per dire che mi sono commossa un sacco a leggere queste righe.
    I.

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  2. Sei tipo mia sorella.

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  3. Anonimo10:16 AM

    era meglio se non lo leggevo. Ma è bellissimo capra. Laura

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