giovedì 5 luglio 2012

Generi di prima necessità

L'altro giorno abbiamo smontato e caricato e spostato letti e armadi dalla casa inagibile dei nonni, poi abbiamo chiuso a chiave per sempre la porta. Ma prima di farlo, prima di girare per l’ultima volta la chiave nella toppa, col cuore che piangeva, io e mio padre siamo andati nel solaio tutto crepato e abbiamo tirato fuori la macchina da cucire della nonna. Quando gliel’abbiamo portata, forse per la prima volta da tantissimo tempo, ho visto gli occhi di mia nonna inumidirsi. Ha sorriso e ha detto «oh, là, questa è proprio la mia». È una vecchia CASER fissata su un tavolino di legno tarlato, con la pedaliera in metallo, che forse è di ghisa, secondo me. L’ha comprata nel ’53 già usata.

«Non l’ho proprio comprata» dice mia nonna dopo qualche minuto di silenzio e contemplazione, «l’avevo vista da una signora, mi piaceva, l’ho scambiata con un una cassetta di mele.»

Dopo, mia sorella ha scritto una cosa su facebook. Una cosa che fa così:
Poi ti ritrovi a svuotare e smontare completamente la camera dei nonni, perché lì, nella loro casina che per loro era come un castello, per niente moderna ma tenuta con tanto amore, piena di ricordi e di abitudini… ahimè, non ci potranno più vivere. Guardo negli occhi la nonna che, per non pensarci, sta a casa mia a cucinare qualsiasi cosa gli sta passando per la testa e poi guardo negli occhi il nonno, che invece è là a guardare il figlio e i nipoti che smontano e caricano sul furgone un pezzo della sua vita. Entro in casa e prendo una M&M’s (che adora), gliela porto, la mangia ma è arrabbiato, il cuore è spezzato. Li vedo, sono abbattuti, delusi, arrabbiati con un nemico invisibile che in pochi secondi (un po’ per volta) gli ha portato via tutto ciò che con fatica e sudore si erano costruiti per poter vivere una vecchiaia serena. Li vedo così, con reazioni diverse, ma entrambi seri e in silenzio. Cercano di farsene una ragione, che in realtà non si faranno mai. Cercano di non far vedere troppo la sofferenza che stanno provando, ma che negli occhi si vede comunque, solo per non far stare peggio noi che gli siamo vicini.

Ci penso e l’unica cosa che mi viene da fare è piangere, ma non mi faccio vedere.

Io, come mio fratello, in quella casa ci sono cresciuta. Se non tutti i giorni, al massimo ogni due giorni, andavo là per fare due risate e soprattutto per fargli fare due risate. Dopo sì che erano felici, dopo sì che anche io ero felice sapendo di averli resi felici.
Da oggi non potrò più dire “vado dai nonni”; da oggi non potrò più fare arrabbiare la nonna presentandomi all’ultimo secondo a casa sua per pranzo o per cena, senza averla avvisata almeno qualche ora prima; da oggi non potrò più andare là e dire “dai nonno, vieni con me! – e lui perplesso: ma indua? – Nonno non preoccuparti, andiamo!” e anche se un po’ nervoso per non averlo avvisato prima, veniva sempre.

Ci ripenso e l’unica cosa che mi viene da fare è piangere, ma non mi faccio vedere.
Ecco, io adesso giro sempre col cane al guinzaglio e una borsina con dentro il computer, il caricabatterie del cellulare, la carta di credito e due o tre libri, anche se è un periodo che leggere è fatica. Son fatto così.

Mio suocero, Gianfranco, che non è mai uscito dalla sua casa piena di crepe, nella zona rossa di Carpi, che non c'è stato proprio verso di farlo uscire, anche se ci abbiam provato, ma niente, quando gli abbiamo chiesto cosa gli serviva, ci ha detto: sigarette e Lambrusco. E noi glieli abbiamo portati. «Siete la mia protezione civile», ci ha detto. È fatto così.

Mia nonna, Ada, sfollata in un camper davanti a casa dei miei, a Novi di Modena, quando siamo andati a recuperare le sue cose col carriolino e lei ha iniziato a capire che forse non sarebbe mai più rientrata nel posto in cui ha abitato per almeno cinquant’anni, ecco, le prime cose che ci ha fatto portar fuori, prima ancora dei vestiti e dei giabanini di valore, sono state: il casco per la permanente (perché le signore son signore in ogni situazione), l’asse per la sfoglia (perché «tua madre ha un tavolo che non va mica bene»), due o tre mattarelli e farina e uova (perché anche se casca il mondo bisogna fare delle torte). È fatta così.

Ed è proprio vero, mi vien da pensare, quello che diceva un mio amico cantautore un paio di giorni dopo la prima scossa del 20 maggio, e cioè che «l’unica cosa positiva di un disastro è che ti fa riconsiderare le priorità, e non so se sia il karma, lo ying e lo yang o chissà che cosa, però è indubbio che ti rimette a posto il cervello per quel che vale la pena di avere e vivere. Poi, piano piano, ti scordi tutto e ritorni un cretino. Chissà quale delle due è la nostra vera indole.» Siam fatti così.

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Questa cosa qui, che è il montaggio di un paio di post che avevo scritto dopo il terremoto (anche se "dopo" non è corretto, che era un periodo, ma l'abbiam capito dopo, che eravamo ancora "durante" il terremoto) sul mio blog personale, l'abbiamo letta al Concertone della Guazza, a Novi di Modena, e forse la leggiamo ancora il 25 luglio a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, insieme al Coro delle Mondine di Novi di Modena, in una serata di raccolta fondi per la ricostruzione del Cinema Lux di Rovereto sul Secchia, frazione di Novi di Modena. Ma poi ve lo diciamo meglio.

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