giovedì 3 giugno 2010

Pensieri in apnea: Naufraghi

Diciottesima puntata

Quando cambia la marea se stai attento te ne accorgi. La linea delle onde sale sempre un po’ di più, una corrente più in basso delle altre le spinge sempre più avanti. Deve essere la messaggera, la ruffiana che corre per avvisare i pesci e tutto ciò che vive nel mare che il tramonto sta per dare spazio alla notte e che il buio cullerà le onde sotto lo sguardo della luna.

In piscina sensazioni del genere non le avverti, i brividi che percepisci e accogli sono solitamente autoindotti, frammenti inquietanti o eccitanti del flusso di coscienza che si libera nel fluido amniotico clorato. Quella sera invece le ombre sui lastroni di pietra prima della spiaggia erano già profonde e il rosso del sole si mescolava al blu dell’acqua in un violaceo poco raccomandabile. Dovevamo tornare alla svelta.

Decidiamo di non lasciare nulla lì sulla spiaggia e crediamo che il materassino non ci abbandonerà. Per una legge fisica che riconosco e ammiro ma non so nominare, l’aria del materassino non fuoriesce se dall’altra parte della tela trova l’acqua. O almeno esce molto, molto lentamente. Mentre muoviamo i primi incerti passi sui lastroni il vento si alza: qualche folata di accoglienza per assicurarci che anche Eolo ci fa fretta. Sotto di noi i lastroni sdruccioli e spezza caviglie cedono il posto alla sabbia bianca che alla fine scompare: blu senza fondo.

La manovra non concordata ma intuitivamente attuata da entrambi prevede un avanzamento in rettilineo fino a superare la perpendicolare degli scogli adunchi, repentina torsione a sinistra, superamento in tutta sicurezza della zona critica, rilassante ritorno verso la costa di partenza dove i nostri amici forse ci staranno già cercando. La prima azione raggiunge l’obbiettivo seppur con sforzi maggiori a quelli previsti: non abbiamo considerato che la marea ci sta respingendo verso la terra. La seconda fase rivela tutta la nostra fallace schematicità da terrestri. Con la marea contro solo i granchi ancorati al fondale riescono a muoversi di lato. Le onde ti colpiscono di fianco e ti spingono indietro di due metri come ridere. E se sei stanco ti senti ancora più leggero, inutile, un pezzo di carne e cervello appoggiato sulla superficie più vasta del pianeta. Andiamo a sinistra di un metro e le onde ci buttano indietro di due: non ci vuole un ragioniere per capire che tempo tre minuti andremo a schienarci contro gli scogli artiglios come piccoli graffiti o quelle conchigliett che usano per datare le montagne. Ci ricomponiamo e cerchiamo di ripristinare la distanza dal pericolo. Ripetiamo la manovra di spostamento. Le onde ci colpiscono nuovamente d’infilata. Torniamo al punto della fase uno. Così due o tre volte.

Le energie scemano, il caldo ci ha infiacchito, i muscoli cominciano a far male. Fil, ancora non so se per sfiducia o per spossatezza s’inerpica momentaneamente sul materassino. Non è poi questo gran peso Fil, anche se sotto un fisico e una statura minuta a volte sfoggia un carapace da mangiatore e bevitore di tutto rispetto. Troppo stanco per spingere ancora confida nell’intervento di qualche barca in entrata o uscita dalla costa turistica dalla quale ci siamo allontanati. E la sorte sembra dargli ragione, un motoscafo ci passa vicino, anche se in mare le distanze si modificano e diventano chilometri. Urliamo e ci sbracciamo, ma siam pur sempre bagnanti intorno a un materassino, non siamo certo i naufraghi sulla zattera di Delacroix. Il rumore del motore copre i nostri rantoli, se poi hai un coso che si può riassumere in una punta triangolare di lamine e un motore da quattrocento chili, posso anche immaginare che quando lo porti al massimo non stai troppo a badare alla visuale periferica. La disperazione coglie Fil che comincia a maledire il materassino e rannicchiarcisi sopra in posizione fetale.

Le ombre continuano la loro corsa e il sole sta già per incontrare la linea dell’orizzonte. La solitudine e il vuoto che ci circonda cominciano a soffiarci attorno. Ma è davvero tutto vuoto? Non è il momento migliore per pensare alle piacevoli e tenebrose letture sul ciclo di Chtulhu e dei Grandi Antichi, divinità aliene che dormono nelle viscere della terra e che potrebbero risvegliarsi da un giorno all’altro inghiottendo tutto ciò che noi chiamiamo vita. Dopo la paura irrazionale il fatalismo compare giusto in questi momenti. Se deve succedere che succeda. Noi in quel momento, in quel posto, meglio di così non riusciamo a fare. Se compare pure il mostro quando saliremo dall’amministratore celeste avremo i nostri bei reclami sulla vacanza-premio firmati e bollati in triplice copia.

Oltre al comprensibile scoramento psichico arriva il cedimento fisico: crampo al polpaccio destro. Qui posso solo dire che i luoghi comuni funzionano a rovescio. Non so chi abbia detto che l’umanità si pone solo le domande che riesce a risolvere, in realtà dopo quell’esperienza credo che l’umanità trovi prima soluzioni che poi casualmente trovano applicazione. Anche perché ho capito che come tutti son pieno di domande ma che raramente sto ad ascoltare la risposta. L’enigma e l’ignoto ci piacciono di più. Come quest’assurda traversata. Anni fa in bicicletta, sempre per noia e per complicarmi un po’ le regole del gioco, passavo il tempo ad usare un solo pedale a turno, così, come per vedere se ci riuscivo, per vedere l’effetto che fa. Ci fu infine una volta che il pedale si ruppe davvero e così un abilità imparata col gioco divenne una necessità per tornare a casa. La stessa abilità la usai quella volta in mare, stendendo la gamba destra e rilassandola mentre quella sinistra mulinava per entrambe.

Alla fine gli amici comparvero, quando ormai stavamo pensando di mollare tutto in fondo al mare e improvvisare una planata d’emergenza contro gli scogli aguzzi. Tornati a riva, la terra sulla quale camminavamo ci è sembrata instabile e storta per almeno un giorno intero.

1 commento:

  1. Anonimo3:15 PM

    mi pare che ci salvò un bagnino in pedalò..un finale non molto epico

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