martedì 19 febbraio 2013

Galline

La storia delle nostre galline è una storia cruenta. Una di quelle storie piene di sangue, e morti violente, e persone che piangono, e un gallo che pensavamo fosse una gallina che gira attorno a casa alle 5 di mattina urlando in cerca delle proprie compagne. Trucidate poche ore prima.

La storia delle nostre galline comincia con un cane. Il nostro: Gisella. Che le galline non le aveva mai incontrate. E nei primi giorni dopo il trasloco ha cominciato a girare un po’ lontano da casa, e scoprire le galline delle vicine (che comunque stanno a 600 metri da noi). È entrata nel pollaio della signora Alfa e ne ha fatte fuori due. Gisella dice che l’ha fatto per gioco. Ad Alfa abbiamo portato un po’ di roba da mangiare e l’abbiamo fatta patta. Ma il panico ogni volta che Gisella si allontanava ci rimase. A ragione. Un primo pomeriggio di un mese dopo, Gisella comincia ad abbaiare per segnalarci che qualcuno sta venendo verso casa nostra. Esco in cortile e vedo, all’inizio della stradina, una figura rattrappita, appoggiata a un bastone, esageratamente vestita per essere agosto. Gisella abbaia. La figura sembra ferma. Aspetto. Non mi pare si muova, mi pare che vibri, piuttosto. Rientro e metto su una moka. Esco, la figura forse si è spostata di un paio di metri. Il caffè fa in tempo a salire e io faccio in tempo a berlo che la figura è arrivata a metà strada. Agnese mi dice che secondo lei è la vicina. Non Alfa, l’altra. Gisella abbaia. E man mano che quella s’avvicina, Gisella abbaia sempre di più. Dopo altri 5 minuti mi decido ad andarle incontro, giusto per. Quando le sono a 10 metri, la vecchia alza il bastone in direzione del cane, e dice qualcosa che non mi è molto chiaro. Ha una voce di gola, impastata di lingua, il visto storto come se avesse preso delle botte fortissime sopra l’occhio destro, il collo infossato nelle spalle e perpendicolare al corpo, la faccia spunta in avanti a poco a poco come in un bassorilievo. Dice qualcosa del cane - desumo - e delle sue galline, e che dovremo tenerlo legato altrimenti… Altrimenti? Non capii, ma la bocca assunse una smorfia eloquente. Altrimenti lo avrebbe avvelenato. Poi si voltò, e per un altro quarto d’ora la guardai risalire. Il giorno dopo siamo voluti passare da casa della signora per capire meglio, ma ci siamo fermati sul vialetto d’ingresso: un tappeto di penne di galline ricopriva il suolo. Ok. Gisella andava addestrata. Contattammo un’amica di amici, di preciso una psicologa. Specializzata in etologia e relazione uomo-animale (uoah). Venne e ci insegnò un po’ di esercizi. Che applicammo con fervore. Al punto che eravamo così sereni e carichi da decidere di prendere le nostre galline.

Le galline non ci sono mai piaciute. Anzi. Ci facevano abbastanza schifo. Anzi, diciamocelo: le galline fanno abbastanza schifo. Però ci sembrava da sfigati stare in posto come il nostro e non avere galline. Ci immaginavamo i vecchi al bar di Samone: “E neanche una gallina!”, e giù a ridere. Ecco no. Da una tizia di Montepastore acquistiamo queste due galline che costavano quasi come uno scooter, ma erano state allevate con le mani della festa. Virna e Lisi. Però ci facevano schifo. Non le volevamo vicino a casa. Così abbiamo fatto il pollaio in una casa 200 metri più in alto, disabitata, per non averle tra le balle. E io costruii il mio primo recinto.


Il recinto - la casa in basso è la nostra.

Fare un recinto è una stramaledettissima rottura di coglioni. Se hai sogghignato, si vede che non hai mai fatto un recinto. Col senno di poi, il mio primo recinto era un pro forma. Non teneva chiuse le galline, e non impediva a niente di entrare. E infatti le galline, a parte la prima mezz’ora, erano costantemente fuori. Chiudevamo la porticina solo la sera, giusto per dire: Abbiamo fatto il possibile per salvarle. In ogni caso, il motivo principale per cui avevamo preso le galline (le uova) dopo un mese abbondante ancora non veniva esaudito. (Anche questo è normale. Le galline impiegano un tempo variabile per adattarsi al trasloco e riprendere la produzione.) Però a noi, di avere queste galline, e di sfamarle a gratis, non è che ci mandasse in solluchero. Così ne abbiamo prese altre due. Della varietà francesine. Quelle piccolette che fanno le uova bianche e minute. Già in periodo di ovulazione. Janis e Joplin. Niente. Avevo anche messo un uovo finto nel pollaio, il cosiddetto indice – che nel mio caso era poi l’ovetto, quell’uovo di plastica che fa da maracas - ma niente. L’ovetto era arancione.

Poi il primo uovo arrivò. E fu grandioso. Eravamo a passeggio con amici, io entro nel pollaio più per formalità che per altro, e vedo un uovo. La prima cosa che penso è che sia passato qualcuno e che abbia pitturato l’ovetto coi colori di un uovo vero. Un trompe l’oeil, già. Lo raccolgo ed esulto. I nostri amici pensavano che l’avessi comprato e messo lì io per scherzo. Era il 17 febbraio. L’abbiamo segnato sul calendario. Non era un uovo di francesina. Le uova delle francesine non le abbiamo mai trovate nel pollaio. Ogni tanto ne scovavamo una in giro attorno alla casa. Abbiamo cercato ovunque per capire dove potessero covare, ma non c’è stato niente da fare. Uno dei contadini, che ogni tanto bazzicava lì alla casa abbandonata, ci disse, quando oramai le nostre galline non c’erano già più, di aver trovato in una cesta sul carro del trattore circa una trentina di uova. Nel carro del trattore ci avevamo guardato, chiaramente. Quelle dannate francesine secondo noi spostavano tutte le uova da un posto all’altro ogni mattina. Se la sono meritata, alla fine.

Comunque, non facciamola troppo lunga. Una sera. Stiamo rientrando. I fari illuminano qualcosa. Ed ecco la volpe. Che fosse una volpe l’abbiamo capito dalle orecchie enormi. Per il resto sembrava un gatto, magro da far scarezza e spelacchiato. A ripensarci, un paio di galline le servivano davvero. Da neofiti allevatori di galline non abbiamo neppure paventato l’idea che una volpe a 100 metri dal nostro pollaio potesse effettivamente risultare un problema. E qualche giorno dopo, Virna (o Lisi, non le abbiamo mai distinte), non si vide più. E il giorno dopo neanche Lisi (o Virna) si vide più. Noi andavamo ogni sera su per riportarle nel pollaio, gridando svogliatamente cose come: “Cooooccche! Cocche!” e facendo tintinnare del mais dentro a un secchiello. Ma in quelle due sere, prima Virna poi Lisi, o viceversa, non rientrarono. E neppure le francesine volevano rientrare. Erano riuscite a salire sopra una trave del soffitto del deposito, tipo a 4 metri di altezza, e se ne stavano là. Qualcosa non tornava. La soluzione del mistero era in realtà abbastanza deducibile, ma non ne sapevamo mezza: la volpe aveva portato via una gallina di notte dal pollaio; la sera dopo era tornata, e le restanti, nel pollaio, non ci volevano più tornare, anzi: si portavano in un posto in alto per proteggersi. Illuse. Pochi giorni dopo anche Janis e Joplin sparirono. E il pollaio su alla casa abbandonata fu abbandonato anch’esso.

Sinceramente: non piangemmo copiose lacrime.
Però decidemmo che, se volevamo delle galline, e se le volevamo vive, dovevano stare vicino a casa. Dove noi, Gisella, e un pollaio più sicuro, le avrebbero protette. Illusi.

In ogni caso:

CONSIGLIO N.1: Se devi tenere delle galline, fa’ il pollaio vicino a casa.

Comprammo un pollaio in internet. Da San Marino. Quasi 300 euro. “Con un’ottantina di uova lo ammortizziamo”. Illusi. Comprammo quattro galline giganti da una famiglia di Zocca. Spendemmo tipo come un impianto a GPL. Non fecero nemmeno in tempo a ricevere un nome. Il pollaio nuovo era composto da una casetta in legno e da una gabbia davanti all’entrata. Gisella era entrata molto nella parte della difenditrice delle galline e non le mollava un secondo. Una di queste quattro galline ci sembra strana. Più voluminosa, con la cresta, i bargigli e la curiosa abitudine di cantare tutte le mattine. Che fosse un gallo? Sì, certo, tu ci saresti arrivato. Noi no. Sfortunatamente non abbiamo mai avuto la prova (non abbiamo mai assistito al momento della deposizione dell’uovo), ma lo chiamavamo comunque il galletto, e gallo fu. (Per inciso: non volevamo galli. Io, perché non desideravo allevare pulcini; e Agnese non voleva maschi sia perché è femminista, sia per difendere i diritti delle galline, che la nostra amica Barbara ci ha detto che il suo gallo è un despota e sodomizza tutte le galline giorno e notte e robe così. Il nostro, comunque, se era un gallo, era gay).
Gallo o non gallo, queste galline enormi (due grigie, una nera e una rossa) erano una vera rottura di coglioni: stavano sempre davanti alla porta di casa, cagavano sullo zerbino e si appostavano davanti alle finestre a spiare. Senza contare che una gallina, ogni volta che ti muovi, pensa che tu stia per darle da mangiare. Sempre. Se fai un mucchio con le foglie, lo sparpagliano. Se vuoi fare qualcosa per terra ce le hai tutte intorno e inciampi.

Il pollaio di San Marino

Insomma. Anche qua serviva un recinto. Ci misi più impegno, ma nemmeno stavolta ne venne fuori un’opera dell’umano ingegno da tramandare. Amen. Almeno avevamo avuto la bella idea di far sì che nel recinto ci stesse anche la zona compost, così tutti gli avanzi non erano scarti. Ma le galline salivano sul tetto della loro simpatica casetta, facevano un saltino ed erano fuori dal recinto. Come a dire: Gli avanzi li dai poi a tua sorella. Stesi una rete per volatili da una parte all’altra della recinzione. La prima nevicata la sfondò. Tuttavia lo scopo primario delle nostre fatiche, ovverosia salvare le galline, ci pareva raggiunto. E pure le uova. L’unica cosa da ricordarsi era chiudere il cancelletto della gabbia ogni sera. Facile no? Illusi.

CONSIGLIO N.2: Se hai un pollaio, ricordati di chiuderlo. Tutte le sere però.

Una sera Agnese l’aveva lasciato aperto. Io lo sapevo, e di ritorno dalle prove vado per chiuderlo. Tipo verso le due di notte. Lascio accesi i fari puntati verso il pollaio e la luce illumina un bestione enorme che esce dalla porticina di legno. Un tasso. “Non esita a introdursi in pollai e conigliere”, sentenzia laconica wikipedia. Io ve lo giuro: sul momento mi sono anche esaltato per la visione del tasso, e non ho minimamente pensato alle galline (io mi esalto quando vedo animali nuovi). Il tasso non sa cosa fare: sbatte contro le sbarre, torna dentro al pollaio. Fico, penso, e rido. (Idiota). Quasi sto per dirmi: Adesso lo aiuto poverone… quando vedo una zampa di gallina immobile che spunta dalla porta. Il tasso riesce ad uscire, e comincia a scappare, io gli sto dando del figlio di puttana quando arriva Gisella (grazie Gisella) che abbaia come se non ci fosse un domani. Per venti secondi, poi si ferma a guardarmi. “Almeno inseguilo”, le dico. Niente. Faccio il resoconto dei danni: due galline morte sul colpo, quasi sicuramente di crepacuore (ero arrivato che il tasso, in tutta probabilità, era appena entrato) e due irreperibili. Una di queste è il galletto. Che verso le 5 di mattina comincia a cantare, con la voce rotta, girando attorno a casa, ininterrottamente, solo e inconsolabile. Uno strazio.

Cosa fare con le galline morte? Mia nonna non avrebbe avuto dubbi. Noi c’abbiamo pensato su, poi abbiam deciso di portare i cadaveri ad Alfa, che almeno lei li avrebbe utilizzati per scopi alimentari, e non esclusivamente per vacui riti funebri come avremmo fatto noi. Alfa ci ha guardato come uno che ti regala una chitarra perché gli si son rotte le corde. Comunque le ha prese, e a noi tanto bastava. Le sere seguenti il gallo e la gallina superstiti non ne volevano sapere di rientrare nel pollaio (come biasimarli) e dovevo inseguirli per mezz’ora ogni volta. Da allora, tutte le sere, benché sapessi per certo di aver chiuso la porta del pollaio, tornavo comunque a controllare. Illuminavo l’interno da una finestrella con la grata. E le due galline mi fissavano. Occhi sbarrati. Tutte le sere. Ogni volta che arrivavo. Dormono mai?, mi chiedevo. E così smisi di gettare i fondi di caffè nel compost.

Da allora chiudemmo sempre il pollaio. Ma non fu sufficiente. Saran passate tre settimane dall’incursione del tasso, quando una notte la luce della pila illumina due corpi supini tra le sbarre della gabbietta. Strano, penso, mai visto dormire le galline sdraiate. Mi avvicino. Strano, ripenso, mai visto le mie galline senza testa. Già. La faina fa così, quella maledettissima stronza: mangia quel che deve, e spesso si trastulla ammazzando quel che non mangia. Surplus killing, è l’amena definizione che ci offre wikipedia. (Nota anti-discrimazione di genere: la faina può essere anche di sesso maschile.) La faina è un animaletto non più grande di un gatto. Ha fatto uno spuntino, ma le ha decapitate entrambe. Grazie faina. Stavolta non portiamo due galline senza testa ad Alfa: le metto in un sacco e le porto nel bosco. Passa mezz’ora, e vedo Gisella con una gallina in bocca. Si avvicina, la posa e mi guarda come per dire: “Cretino, hai dimenticato una gallina nel bosco”. Grazie Gisella. Salgo in macchina e le butto da un dirupo lontano da casa.

Gisella e le galline

CONSIGLIO N.3: Se hai un pollaio, assicurati che sia VERAMENTE sicuro.

A questo punto era diventata una sfida. Noi vs I predatori. La domanda vi sarà sorta immediatamente: Com’era entrata la faina? Facile. La parte di legno del pollaio (il dormitorio, diciamo) era su un pallet. Da sotto il pallet chiunque sarebbe potuto entrare. Però avevo messo una fila di mattoni per chiudere i passaggi. Illuso. Uno di questi era stato spostato. Un controllo più accurato del pollaio mi riservò altre gravose perplessità. La gabbia, semplicemente appoggiata per terra, non avrebbe impedito ad una volpe di scavare da sotto; l’anta che si alza per raccogliere le uova l’avrebbe potuta sollevare anche una lumaca; la porticina laterale aveva dei buchi che l’alacre lavoro di un mustelide notturno avrebbe divelto con soporifera nochalanche e la sbarre della gabbietta di ferro sembravano, ora, dopo quelle morti, tremendamente larghe per una donnola qualsiasi. Insomma: quel pollaio di San Marino era una merda. Ci prendemmo qualche mese di pausa-galline per riflettere ed elaborare il lutto. Poi, io e il caro Peggy lavorammo un intero pomeriggio. Pavimentammo in legno la gabbia di ferro esterna; sbarrammo ogni possibile passaggio con assi inchiodate; rivestimmo la gabbia di un'ulteriore rete in plastica rigida. Alla fine eravamo così soddisfatti delle nostre misure di sicurezza che chiamammo il pollaio Alcatraz.
Alcatraz era pronto, ed era inespugnabile!

Stavolta optammo per il mercato di Zocca. Ogni martedì viene un omino col suo camioncino straripante di gabbiette per volatili. L’omino vende volatili, per l’appunto. Una gallina: 8 euro. Un paio di euro in più se è già in periodo da uova. Ne compriamo due. Poi ne prenderemo altre tre. Due rosse e tre piccole ovaiole. Anche le nuove arrivate impiegano meno di 7 minuti per capire il trick di salire sul tetto e saltare fuori. Di nuovo la stramaledettissima rete per volatili che resta in piedi in media 3 giorni. Le rosse le chiamammo Sandra e Milo, le ovaiole Geena Bette e Davis. Sandra e Milo erano composte ed educate, e molto produttive. Le ovaiole erano impertinenti, discole e irrequiete. La rete per volatili era totalmente inefficace. Una di loro era la mente: era sempre lei che escogitava nuovi tricks per uscire dal pollaio, e subito le due gregarie la imitavano. Era un genio della fuga. A un certo era così scafata che spiccava un balzo direttamente da terra e saltava fuori da qualsiasi punto del recinto. Erano indomabili. Era estate: non potevamo neanche tenere la porta di casa aperta o ce le trovavamo sul divano. Puntavano sempre all’orto e lo desertificavano e cagavano ovunque, specialmente dove Ester soleva giocare. Quando abbiamo inconsciamente iniziato a sperare che arrivasse una faina e si portasse via le bianche ovaiole, abbiamo capito che quelle tre non facevano per noi.

La finestra sul cortile

Le abbiamo regalate a Silvio e Rosamaria, che stanno a Roccamalatina, che hanno un recinto ma non hanno un pollaio protetto. Da loro sono durate un mese a dir tanto. Sì, un po’ ci sentiamo in colpa. Si può quasi dire che le abbiamo mandate a morire. Silvio dice che hanno contribuito all’ecosistema. Mettiamola così; dai pure. Al posto delle ovaiole compriamo due galline nere. Ancora non hanno un nome.

Una domenica di primavera decidiamo di invitare un po’ di amici a pranzo, sia per vangare la terra dove avremmo voluto fare l’orto nuovo, sia per erigere un recinto come si deve.
E, quella domenica, costruimmo un recinto come si deve (eravamo in cinque, vorrei anche vedere): pali in ferro, basamenti in calcestruzzo, rete alta 2 metri: un tripudio.
È ancora lì. E anche Sandra e Milo e le due nere sono ancora lì.

L'affetto

Sì: undici galline sono morte per la nostra negligenza, e la cosa non ci rende fieri. Abbiamo imparato dai nostri sbagli, e le nostre quattro galline di adesso sono le eredi di un passato turbolento e luttuoso, ma davanti a loro si apre un futuro che faremo in modo sia il più longevo possibile. Le viziamo di tanto in tanto con leccornie e prelibatezze, le rimpinziamo quotidianamente come membri della famiglia, e nei mesi invernali le lasciamo libere di andare dove vogliono.

Sandra e Milo

E se le moire decideranno che la loro storia dovrà essere più breve di quanto speriamo, possiamo però assicurare al fato che la loro vita è stata piena e gratificante. Le nostre quattro galline le abbiamo oramai da più di un anno. È il nostro record. Ci è andata anche molto bene. Per dire: una sera che eravamo da amici siamo rientrati, e abbiamo beccato la faina in diretta, che Gisella stava tenendo d’occhio sopra un trave della barchessa; mi son messo a fotografarla quando mi è sovvenuto che il pollaio era aperto. Corro: le cocche c’erano tutte.
Due di loro ancora non hanno un nome. Questo racconto vorrebbe essere il modo per darglielo.
Noi vorremmo che le nostre galline morissero di vecchiaia.

CONSIGLIO N.4: Se vuoi tenere delle galline, devi provare a volerci bene.

La faina

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Questo pezzo era originariamente sul blog legno.wordpress.com
Da qualche giorno quel blog è defunto, ma visto che a volte conviene credere nella risurrezione ecco che le galline ritornano a nuova vita su Barabba.

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