[riceviamo e pubblichiamo la cicatrice di Benedetta "Sonqua", più o meno]
(Posizione)
Schiena. Bacino. Gamba sinistra (la gamba destra non c’è più). Utero. Avambraccio destro. Fronte. Collo. Piede, quello rimasto, però anche sul destro, undici ne contavo. Addome. Zigomo destro (per la verità sullo zigomo è piccola e con un po’ di trucco si nasconde). Fianco. Gomito sinistro.
(Cause)
A sei anni ho avuto la poliomelite e quasi morivo. Poi invece sono rimasta viva, ma una gamba ha smesso di crescere ed è venuta più piccola. E zoppicavo. Dopo anni hanno scoperto che non era poliomielite. Era spina bifida. Fa niente, ormai. L’anno scorso l’hanno tagliata, la gamba. Cancrena, pare.
Camminare, da allora, è sempre stato faticoso. Però, lo stesso, a diciassette anni mi piaceva chiacchierare, pettinarmi, fermarmi lì a leggere, conoscere le persone. Vivere, insomma. Solo che andavo troppo piano. Allora, ogni tanto, per non rimanere da sola, parlavo con un’amica immaginaria che compariva quando soffiavo sui vetri e la disegnavo sulla soglia di una porta piccola piccola. Era un bel modo di guardare fuori, oltre i vetri, almeno finché le gocce della condensa cancellavano tutto. Allora, a quel punto parlavo con le persone vere e, più di tutto, mi piaceva mettermi seduta sull’autobus su uno dei sedili ordinati due a due dietro l’autista e fare domande a chi mi sedeva vicino. E ogni tanto mi dimenticavo anche di quel pizzicore nella gamba. E ogni tanto, quando mi innamoravo, sentivo il pizzicore nel ventre. E quando lo dicevo, la gente si spaventava e io ridevo.
Un giorno, a diciassette anni, sono andata a scuola con l’ombrellino. Mi piaceva. Un amico mi aspettava alla fine delle lezioni e non volevo arrivare tardi. Camminavo piano, l’ho già detto. Mi affretto. Ci incontriamo. Parliamo e sorridiamo. Aspettiamo l’autobus. Eccolo. Ci apre le porte. Saliamo e mi tengo al corrimano. Nell’altra mano i quaderni. Due mani. L’ombrellino! L’ho dimenticato! Chiediamo scusa e scendiamo. Corre a prendere l’ombrellino il mio principe azzurro con gli occhi da indio. Aspettiamo di nuovo ma non importa. Sorridiamo. Arriva. Spalanca le porte. E intravedo l’autista. Che bel viso che ha. Gli occhi, forse un po’ tristi. Le braccia, forse un po’ tese. L’aspetto più timido che nervoso. Acerbo, avrei detto. Nuovo, ho pensato.
"Eravamo saliti da poco sull'autobus quando ci fu lo scontro. L'incidente avvenne su un angolo, di fronte al mercato di San Juan, esattamente di fronte. (…) Il tram, nella curva, trascinò l'autobus contro il muro. (…) Non è vero che ci si rende conto dell'urto, non è vero che si piange. Io non versai una lacrima. L'urto ci spinse in avanti e il corrimano mi trafisse come la spada trafigge un toro."
(Conseguenze)
Ci sono state 32 operazioni. Non ricordo più in che ordine. Tra una e l’altra, c’è stata l’immobilità dei primi anni. Ferma, nel letto, a guardare un soffitto che i miei genitori hanno abbellito regalandomi un baldacchino e uno specchio. Poi, insieme ai dottori e ai busti di gesso, sono arrivati i colori. L’amore non mi abbandonava e mi dipingevo su tela e regalavo quello che di me custodivo ai miei spaventati e giovani amori. Finché non hanno voluto più niente da me e, allora, sono entrata in possesso di un'intera collezione di autoritratti.
Diego un giorno li ha visti e si è innamorato di me. Mi ha sposato. La pittura, l’impegno civile, la passione per il Messico, il lavoro, le lotte. Il mondo era a colori vivissimi e bellissimo e le cicatrici solo segni esteriori dei dolori che semplicemente sentivo. Sapevo che non sarei mai stata l’unica ma speravo d’essere amata. Il primo aborto mi ha disorientata. Il secondo mi ha piegata. La mia vagina trafitta continuava ad ammonirmi attraverso la cicatrice sul fianco, eppure mi sarebbe piaciuto.
Poi, un giorno, sono entrata in una stanza. Diego mi ha dato le spalle troppo a lungo e mia sorella è stata troppo solerte nell’aiutarmi. Per la prima volta mi sono vergognata delle cicatrici che loro conoscevano così bene, pensando che le avessero disprezzate durante i loro amplessi.
"Le cicatrici sono aperture attraverso le quali un essere entra nella solitudine dell’altro."
Quando un anno dopo Diego è tornato da me, l’ho accolto di nuovo. Insieme a tutti gli amanti e a tutte le amanti che avevo avuto. Mi servivano tutti allora, come oggi, per disegnare il mio profilo messicano. Per ricordarmi gli eventi da scrivere nel diario che ho iniziato a tenere. Le cicatrici oggi urlano e io rispondo che sento il dolore perché sono viva e "dopo tanto giacere sdraiata, non voglio bruciare" neanche un minuto di quello che rimane. Ogni tanto sono stanca e per questo, solo per questo, a volte, "I hope the end is joyful - and I hope never to return".
Queste cicatrici sono lib(e)ramente tratte da un libro di carta. È la biografia di una donna che, secondo me, oltre ad essere una brava pittrice aveva dentro fuoco e forza come nessuno. Il libro l’ha scritto una signora che fa la giornalista e che si chiama Slavenka Drakulic’ e l’ha intitolato Il letto di Frida. È lungo 160 pagine, è stato tradotto da Elvira Mujcic ed è stato stampato da Baldini Castoldi Dalai, nell’anno del secondo Schegge di Liberazione. Le cose tra virgolette e le frasi in inglese sono di Frida Kahlo e sono tratte dai suoi diari.
di Benedetta "Sonqua"
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