Poi, nel 1913, con l’edizione del poemetto Lai de l’Ombre di Jean Renart, la messa a punto di un metodo di edizione tutto suo. Un colpaccio che gli varrà un capitoletto in tutti i manuali di filologia romanza, «Il bediersimo», e che per qualcuno inaugura la ‘terza era’ della filologia, dopo quella empirica del Rinascimento e quella rigorosamente scientifica del lachmannismo. Se, dai tempi del Lachmann, il passatempo preferito dai filologi – la récréation philologique – è stato quello di schematizzare le tradizioni manoscritte in forma di stemma codicum – qualcosa a mezza via fra un albero genealogico e un quadro astratto –, incasellando tutti i testimoni di una data opera in famiglie e sottofamiglie, Bédier fa notare che, nella maggior parte dei casi, ecco, questo nobile esercizio non è più utile all’editore di una seduta di Settimana enigmistica. Meglio tornare allora, con qualche accorgimento, al criterio del codex optimus, lui lo chiama bon manuscrit, di umanistica memoria: si tratta, in pratica, di basare l’edizione di un’opera antica sul testimone giudicato più affidabile e autorevole tra quelli conservati, senza inventarsi niente, senza correggere, anche quando la lezione trasmessa non è delle migliori.
Il terremoto che segue non risparmia nessuno e a scorrere il ruolino degli interventi e delle querelles, sembra di assistere a un torneo di pesi massimi: Bédier VS la memoria del suo maestro Paris, con cui aveva già curato, per la laurea, un’edizione lachmanniana del Lai de l’ombre (1890) – da qui tanto si è detto del suo controverso rapporto col maestro, scomodando anche Freud; Don Quentin VS Bédier; Pasquali – con la memorabile accusa di ‘dadaismo scientifico’ – VS Bédier; Don Froger e poi Rychner VS il defunto Bédier e i suoi seguaci; bedieristi VS lachmanniani VS new medievalists e così via. A volte, c’è da riconoscerlo, non c’è niente di meglio di una bella rivoluzione per tenere svegli i professori. Kuhn insegna.
Il tardo Bédier, dopo i fuochi artificiali dei primi anni di carriera, dopo gli sconquassi di una guerra mondiale, ci piace immaginarlo come appare nelle ultime foto. Un uomo così appagato, sereno e dignitoso da poter indossare, senza sembrare ridicolo, due voluminosi mustacchi bianchi da moschettiere, arricciati all’insù, eredità del bisnonno Louis Philippe Marie che il moschettiere del re l’aveva fatto per davvero. Bédier. Uno che è il ‘conformismo incarnato’ (Lot). Uno che ama tutto della Francia: Tout ce qui se fait en France est bien parce que français ( ‘Tutto quello che si fa in Francia va bene perché è francese’). Un Seymour Levov d’oltralpe, di cui viene da dire, come di Levov, che ‘al posto dell’anima aveva l’affabilità’. Uno che nel 1920 è nell’Académie française (1920), dove prende il posto del defunto Rostand; uno che al Collège de France frequenta colleghi del calibro di Lucien Febvre, Émile Mâle e Paul Valery e chissà pure Einstein; ma anche uno che sa godersi la vita e che va a pesca nel buen retiro di Le Grand Serre.
Ogni mattina, nella bella stagione, Bédier si sveglia prima dell’alba, beve il suo caffè bollente e si prepara una sigaretta, fumandola di nascosto, perché il dottore l’ha proibito. Poi si veste e prende la canna e parte per la pesca alla trota. L’unica cosa pratica che gli riesce. La mattina del 29 agosto 1938 si sente male, proprio in riva al fiume. Lo portano a casa e le sue ultime parole sono: «Non è niente, non è niente».
Fino alla fine, il solito, pessimo, oratore.
ricordo ancora il commento epocale al metodo lachmaniano: "uhm, pare proprio una foresta di alberi biforcuti..." ah, la filologie...
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