sabato 18 settembre 2010

Cronache di una sorte annunciata: mineros

[Ecco il pezzo letto ieri. Ancora un abbraccio a tutti i partecipanti]
Buio.
A quella profondità, 700 metri sotto. In quel silenzio. I minatori il silenzio lo cavano assieme alla roccia: un carrello, una tonnellata di roccia, una tonnellata di silenzio. E il silenzio ora frana su di loro, dopo che è franata la roccia.
A quella profondità, nel buio, la terra comincia a digerirti. Ti vengono strani pensieri: pensi che forse sei morto o che sei diventato un minerale. E allora accendi la luce sul caschetto, anche se sai che la luce va risparmiata, e sotto quel fascio, appannato, muovi le braccia e ti controlli. Gratti la polvere. Sì, sono ancora di carne e ossa. Poi spegni la luce.
Buio. Attraversato da qualche fascio di luce.
Qualcuno fa due passi e tiene il palmo sulla parete umida della galleria, intramezzata dai piedritti di legno. I fasci di luce appesi alle teste dei compagni lo seguono. Per vedere dove va a parare. Forse conosce un’altra uscita. A quella profondità, dopo la frana, bastano due passi, alla cieca, per sperare. Poi quell’uomo si ferma e torna seduto. Le luci dei caschi si scuotono da destra a sinistra. No, nessuna uscita.
Un gruppo di minatori parla.
Si parla per levare la polvere dalla bocca, ma non si ascolta. Più che parlare si controllano i livelli, come si fa con l’automobile. Si controlla che tutto funzioni, ma non si va da nessuna parte. E così si parla, quando non si tossisce.
Minatore 1: domenica sono stato allo stadio. Meglio se andavo in chiesa.
Minatore 2: il segreto per l’empanada è che non ci deve essere troppo tonno
Minatore 3: Déjate caer, déjate caer, la tierra es al revés
Minatore 1: Se mi salvo, ci vado tutti i giorni, in chiesa […] Forse la Madonna non vuole che ci vado, allo stadio […] Forse non tifa il San José!?
Minatore 2: tace e pensa all’empanada della madre.
Minatore 3: La sangre es amarilla, déjate caer

Buio. Le poche luci accese traballano. I volti illuminati spalancano le bócche. Le barbe si rizzano.
Un’altra frana. Grida di minatori salgono su per la gola della miniera, come sonde per le misurazioni. 700 metri. 700 metri sotto il deserto, non sono pochi. La camionetta che porta i minatori al lavoro ci impiega più di mezz’ora per arrivare agli scavi. D’inverno si parte coi giacconi, ma lì giù c’è una sola stagione. Fra i trentasei e i trentotto gradi. E i minatori schérzano e dicono alle mogli che non vanno a lavorare, ma vanno in vacanza ai tró-bucos. Come dire tropicos, ma col buco.
Buio.
Ecco come è fatto il destino. Quella mattina si scherzava con l’autista. Vai piano che ci ammazzi. Vai piano che non c’è fretta, che siamo in vacanza. Sempre la storia dei tró-bucos. E poi si scopre che il destino ha una sua tettonica, perfetta, ad orologeria. Che la camionetta fa in tempo a scendere e a salire prima che la frana blocchi la galleria.
Tu resti nel sottosuolo, a quella profondità, in quel silenzio, e quella camionetta che ora deve sfrecciare nella distesa di Atacama ti sembra proprio l’immagine della buona sorte. La buona sorte che fila via da te, lontana, senza un ostacolo.

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