Quando da ragazzetto viziato di campagna mi son trasferito per amore in città, e non nell’hinterland, ma nel centro centrissimo del borgo, sulla piazza, ho subito preso la mania della colazione al bar. Una roba da cittadino, mi dicono i miei quando vado a trovarli. Eh sì, rispondo io, un cappuccino e una brioche senza dover fare dei chilometri, due passi a piedi e via, la colazione, poi al lavoro con la pancia piena, mai più caffè solubile della macchinetta fuori dall’ufficio. Evviva. Il mio bar è un concetto serissimo ma anche abbastanza comprensibile e diffuso, e non ve lo spiego nemmeno.
Il mio primo bar era un bar in fondo alla via, uno di quei bar sviluppati in lunghezza per ragioni di spazio. Dentro, la mattina, la gente leggeva il giornale e parlava male degli immigrati. Eran tutti pensionati. È un bar, pensavo, leggi il tuo giornale, Marco, mangia la brioche, bevi il cappuccino che è anche buono, non polemizzare, paga ed esci. E così ho fatto per un anno. Poi mi son stufato.
Il mio secondo bar era un bar sotto i portici, uno di quei bar con la vetrina aperta davanti e i tavolini fin sulla piazza. Dentro, la mattina, i manager e gli yuppie entravano di volata, uncaffègraziearrivederci, in piedi. Era un viavai che metteva un po’ d’ansia. È un bar, pensavo, leggi il tuo giornale seduto, Marco, mica in piedi come gli altri, mangia la tua brioche, bevi il tuo cappuccino, un cappuccino davvero superlativo, tra l’altro, alla cappuccinista bisognerebbe darle un premio e abbracciarla, ma tu paga, Marco, paga e saluta e poi esci anche un po’ in fretta. E così ho fatto per sei mesi o poco più. Poi mi son stufato.
Il mio terzo bar era il bar che la prima e la seconda volta avevo evitato, un bar di quelli che ti sembra che sian tutti lì dentro a far cagnara e che non è neanche bello da vedere, da fuori. Un bar vicino agli altri due, ma in una posizione del cavolo, col freddo d’inverno e l’afa da far schifo d’estate. Dentro, la mattina, i lavoratori, i negozianti, la gente, le vecchine, eran tutti lì a far colazione e a leggere il giornale, ma c’era qualcosa di diverso: si salutavano, chiacchieravano. È un bar, pensavo, un bar davvero, un bar dove dopo cinque giorni la barista mi chiede il nome. E andavo là per mangiare una brioche, bere un cappuccino onestissimo, per dire delle cose alle due bariste e agli altri intorno, alcuni non so neanche come si chiamano e parlavamo tutti giorni, e poi potevo entrare col cane, ogni tanto, e ci andavo anche alla sera per una birretta, alle volte, nel mio bar. E così ho fatto per tre anni e qualche mese. Fino a oggi.
Oggi è l’ultimo giorno del Caffè Molinari, a Carpi, tra Corso Roma e Piazzale Ramazzini. Non so cosa ci faranno, dopo, non gliel’ho chiesto, stamattina, non lo voglio sapere. Oggi chiude il mio bar, e un pezzo di quel ragazzetto di campagna emigrato in città per amore se ne va. Verrà un altro bar, dopodomani. Ma intanto, da domani, siam senza bar. Il mio bar.
Io al mio bar ero molto legata.
RispondiEliminaCi andavo tutti i giorni al bar.
Poi mi sono trasferita e ho scelto un nuovo bar che era più piccolo di quello di prima ma era più intimo e mi piaceva.
Sono ritornata alla base ma il vecchio bar non mi piaceva più e ho smesso di andarci, ai bar.
Mi spiace per il tuo.
ciao bar, ciao bariste
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quattro passi. così si chiamava il mio. è li che non ho capito. è lì c'ho lasciato il cuore. è cambiata gestione, cambiato nome e insegna. il cuore, quello no. ancora punge se ci passo davanti.
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