venerdì 5 febbraio 2010
Rivelazioni domestiche
Ecco, domani, tra poche ore, andrò a sentire cosa si dice su un libro che si chiama Silenzio in Emilia, in questo posto qui, e siccome lo so da qualche settimana che c'è questa conferenza e il libro l'ho letto all'inizio dell'anno, ultimamente mi ritrovo a guardare fuori dai finestrini, come a cercare di rubare un'immagine, un dettaglio nascosto, qualcosa. Questo di guardare fuori dai finestrini mentre guido è un bellissimo vizio che mi ha passato mio zio F. contadino (bis-zio in verità, fratello di mia nonna) che c'ha la terra, l'orto e la vite e dai 16 ai 20 anni l'ho aiutato in campagna durante la vendemmia. Prima di allora filavo dritto sul motorino, guai a distrarmi, la strada era l'unica certezza, gli ostacoli entravano nella mia visuale solo per essere superati, aggirati o (caso raro) insultati dopo frenata in extremis. Avevo anche caschi integrali delle dimensioni della zucca magica di Snoopy per la sempiterna tranquillità della madre apprensiva, cosa che certo non favoriva l'allargarsi dei miei orizzonti. Dicevo, mio zio contadino tutte le volte che si finiva la giornata e si riempivano le barchesse (termine tecnico per rimorchi piccoli in grado di passare sotto i filari della vite) di uva, mi tirava su sul trattore e mi portava a casa dove avremmo riempito il rimorchio grande (io) per poi andare alla cantina (lui). E non potete immaginare la goduria che si prova a salire su un rimorchio colmo straripante e rastrellare tutto perché l'uva non cada durante le sbandate. Perché mio zio è così: per lui muoversi nello spazio in un tempo breve non è sufficiente, ci si muove nello spazio in un tempo breve per osservare intorno il piccolo mondo intorno ai suoi campi. Guarda che bella vite a spalliera! Ma com'è venuto bene quel campo! Il canale è quasi secco, è meglio se vado a controllare il pozzo... Eh, qui Ettore ha sbagliato col concime, era meglio dello stallatico... Per mio zio questi tragitti a due metri d'altezza e alla velocità massima di 70 km/h sono una ricognizione quasi militaresca, una perlustrazione sul campo di battaglia ma l'incanto del mondo prende sempre il sopravvento e non riesco a contare le volte in cui abbiam rischiato di finire nei fossi o di andar dritti ad una curva perché lo zio si stupiva dei colori, della disposizione, delle luci, delle sfumature, delle parole non dette ma disegnate dal suo splendido mondo. Ora, questo vizio qui vien pure a me, quasi esclusivamente quando son solo e di notte, come i licantropi. Un vizio innocuo, o quasi, che però ti attanaglia verso il paesaggio e non ti molla più: butti l'occhio, decelleri, t'accosti, guardi, riparti, fai quattrocento metri e sei di nuovo meravigliato, ti sforzi di andare a casa alla veloce, è molto tardi e cominci a sentirti stanco, ma comunque sai che guarderai lo stesso, e magari senza fermarti, rischiando, controsterzando quando finisci di là dalla tua corsia e buttando rapide occhiate verso la direzione della strada. Lunedì sera, da due giorni era passata la luna piena, c'era la nebbia, come al solito, tornavo da Mirandola e il vizio m'ha riassalito. La nebbia era diversa, scintillante, rada, lasciava intuire le cose e le riempiva di luccichii. Tra Rovereto e San Marino ho intravisto, immerso nella neve, nascosto nel mezzo dei campi, inghirlandato dalla nebbia a lustrini, un pioppo coi rami alti verso la notte e ho capito: l'Emilia.
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