Adelchi Battista una volta ci ha regalato un suo monologo teatrale intitolato La vendetta è il racconto per le nostre Schegge di Liberazione (lo trovate qui). Ho sempre avuto un debole per quel monologo e quando è uscito Io sono la guerra, il romanzo di Adelchi, son corso a comprarlo. Appena finito di leggere mi son detto: che figata. Poi mi son detto: che libro strano. Allora l'ho contattato, Adelchi Battista, e gli ho chiesto se avesse voglia di farmi delle domande. Lui me le ha fatte, io ho risposto, e quella che segue è la terza intervista alla rovescia di Barabba.
Adelchi Battista – Odio molto questa cosa delle domande rovesciate, perché è molto più difficile che non rispondere a una normale intervista su un libro che ho scritto – intervista di cui so già quasi tutte le domande a memoria e ho avuto tutta una vita per elaborare le risposte più argute e intellettuali che ci siano. Tu mi chiedi di intervistarti quale lettore del tuo libro, e ti garantisco era meglio offrirti una cena. Purtroppo la mia coscienza di anzyano militare in congedo mi impone di affrontare questa ulteriore sfida e quindi eccomi qua. Io sono la guerra. Complimenti per averlo letto tutto fino alla fine da parte dell'autore, prima di ogni cosa. Non ti ha sfiancato? Non ti è sembrato che l'impersonalità come tratto fondamentale, la mancanza di sostegni narrativi classici, l'anarchia della trama ne abbiano un po' frammentato l'andamento?
Many - Ciao, Adelchi. No, Io sono la guerra non mi ha sfiancato, anzi, me lo son proprio bevuto, come si dice. I motivi sono vari e forse quello principale - a parte l'interesse personale per il periodo storico trattato - è legato strettamente agli eventi: Io sono la guerra è il libro con cui ho ripreso a leggere i libri nei giorni successivi al terremoto (mica poi tanto successivi, visto che la terra continuava a ballare ancora, ogni tanto). Era un periodo che leggere era fatica, c'erano delle cose da fare, dei parenti da sfollare, delle persone da aiutare, c'era il cervello da rimettere in bolla e c'era da decidere, sera per sera, dove dormire. Da questo punto di vista, leggere del bombardamento di San Lorenzo è stata un'esperienza tutta particolare. Anche leggere di quei piccoli scorci di Auschwitz che ci sono nel libro è stato abbastanza coinvolgente, visto che sono stato sul Treno della Memoria a Gennaio di quest'anno e fondere quello che ho visto di persona con quello che hai scritto, ecco, non so come dirlo, ma mi sembrava di esser lì e delle volte ho dovuto alzare gli occhi dal libro per tirare fiato.
Per finire di rispondere alla domanda, parlando dell'impianto narrativo, ammetto di aver avuto delle difficoltà alla partenza, proprio per l'impersonalità e la frammentazione degli episodi narrati e il continuo cambio del soggetto e del luogo. Ma appena ingranata la marcia, non mi sono più fermato. Non è mica vero che la trama è anarchica. Mi è sembrata una trama precisa e in continua ascesa verso il finale. E gli ultimi capitoli li ho letti d'un fiato, sono avvincentissimi.
A.B. – Mi è stato spesso detto che il libro in effetti ha una tale specificità che si rende inclassificabile. Ho cercato di difenderlo, di tenerlo dentro la categoria del romanzo, ma senza riuscirci. C'è chi addirittura vorrebbe metterlo tra i saggi e chi ancora nella storiografia divulgativa, che mi fa particolarmente spavento. Non andava bene romanzo e basta? Che ho fatto di male?
M. – Va benissimo romanzo e basta. Solo che davvero è difficile capire che Io sono la guerra sia un romanzo, di primo acchito. Ci si mette del tempo, almeno metà libro. È che se uno lo legge superficialmente, magari rischia di farti fare la figura del Valerio Massimo Manfredi della Seconda Guerra Mondiale, ma non mi pare il caso. (Mi piace molto la definizione che ha dato del tuo libro un tizio sul tuo profilo di facebook: "Io sono la guerra è un romanzo storico dalla forma di Fuga".)
A.B. – Chi è la guerra? Cioè a dire: chi è la guerra nel mio libro? Chi sta parlando? Chi dice 'io sono la guerra', secondo te?
M. – Questa è una domanda difficile. Per come l'ho capito io, l'autore, cioè Adelchi Battista, cioè tu, è diventato la guerra. Quindi l'autore che nel romanzo si fa Dio, che sa tutto, in questo caso diventa Guerra, la Guerra che in quel periodo era dappertutto, che coinvolgeva in qualche modo tutte le persone del pianeta, tutti i luoghi, nessuno escluso. Ecco, se Dio è in ogni cosa e in ogni luogo, come dicono quelli che ci credono, la Seconda Guerra Mondiale è stata decisamente Dio, con la differenza che non si può non credere alla Seconda Guerra Mondiale. Poi magari non ho capito niente.
A.B. – Secondo te c'è tanto futuro nel libro? Ho voluto parlare dell'oggi? Le cadute dei regimi sono tutte simili?
M. – Sì. Ecco, da questo punto di vista la dicitura "romanzo" è perfetta, perché la storia di Io sono la guerra ha una sua universalità.
A.B. – L'autore continua a sostenere che sia ormai maturo il tempo di una memoria condivisa, unica, per tutto il Paese. Condividi questo pensiero? E se lo condividi, come pensi ci si possa giungere? Se invece non lo condividi, perché?
M. – Vorrei scrivere una risposta, ma hai già detto molto tu con la domanda e con una cosa che avevi scritto su facebook tempo fa. Sì, credo che sia tempo per una memoria condivisa e credo che sia tempo già da tempo. Ultimamente, quando giriamo coi reading sulla Resistenza e cerchiamo di leggere alcuni racconti di Schegge di Liberazione tra quelli meno retorici (speriamo), alla fine degli spettacoli ci son sempre delle persone che ci dicono cose come "bravi, era ora che si leggessero racconti così", e mi vien da pensare che la gente forse è pronta per iniziare il processo di condivisione della memoria. Delle altre volte, invece, magari dopo aver acceso la televisione, mi sembra che abbiamo ancora il Novecento appoggiato sulla spalla come un pappagallo.
A.B. – Tu hai lavorato molto sulla parte finale della Seconda Guerra Mondiale, in particolare su tanti episodi resistenziali. Ti sei fatto un'idea generale su cosa sia stata la Resistenza?
M. – Sì, me la sono fatta, un'idea generale, e non so se riesco a spiegarla, ché con le parole, in questi casi, faccio fatica. Però più si delinea in testa quest'idea generale della e sulla Resistenza, più resto affascinato dai racconti individuali, dai singoli episodi, come a voler rappresentare la Resistenza con una figura molto grande con tantissime piccole sezioni da colorare e una tavolozza molto ma molto ampia.
A.B. – Mi colpisce spesso, trattando di questi temi, l'argomento 'giustizia'. Penso agli episodi di giustizia sommaria nei confronti dei repubblichini, penso alla giustizia del processo di Verona, e penso alla mancata giustizia, ovvero alla mancata consegna di Mussolini agli alleati da parte del governo Badoglio. Fantasticando, mi viene in mente Mussolini in catene portato nei teatri di New York, come una specie di King Kong. Ma mi viene anche in mente quella Norimberga italiana che forse ci avrebbe evitato parecchio spargimento di sangue, inclusi gli anni di piombo. Tu che ne pensi?
M. – Penso che la giustizia sia un concetto molto difficile da universalizzare, credo che dipenda sempre dal tempo e dal luogo. Faccio fatica a pensare a come sarebbero andate le cose se ci fosse stata una Norimberga italiana, perché non c'è stata, o se Mussolini fosse stato consegnato agli americani, perché non è stato consegnato. L'idea di giustizia che abbiamo oggi è calibrata secondo la Storia e secondo quello che è accaduto anche in quell'occasione.
In pratica non ti so rispondere (e la cosa che mi è piaciuta molto di Io sono la guerra è che il tuo libro non dà delle risposte, che poi è quello che deve fare un bel libro, come si dice sempre). Però Mussolini portato nei teatri di New York come una specie di King Kong è già un'idea per un altro romanzo. Se non lo scrivi tu, te la rubo.
M. – Oh, eran domande difficili. La prossima volta facciamo che mi inviti a cena. Allora, adesso, come tradizione delle interviste alla rovescia, rompo lo schema e ti faccio le uniche due domande che penso abbiano senso quando si intervista uno scrittore: Adelchi Battista, perché hai scritto Io sono la guerra?
A.B. – Non c'è mai un motivo preciso per cui uno scrive un libro. Di solito sono dei casi fortuiti. Io ho incominciato a pensare a questa cosa mentre scrivevo un monologo teatrale intitolato 'la vendetta è il racconto', che tu dovresti conoscere perché l'hai pubblicato in uno dei tuoi ebook. Ecco, il monologo aveva qualcosa di non detto, voleva dare delle risposte, ma non erano abbastanza approfondite per mancanza di spazio, e così ho pensato di lavorare in modo più accurato, anzi più accurato di tutto quanto riuscivo a trovare in commercio sull'argomento. Doveva essere talmente accurato da risultare non attaccabile politicamente. Ci sono voluti degli anni, ma il libro si è fatto un po' da solo e forse il motivo principale è proprio questo: voler ottenere un libro di memoria condivisa.
M. – L'altra domanda: è bello?
A.B. – Ah questo io proprio non lo so. Mi dicono che è bello, ma io di certo so solo una cosa. Scriverlo è stato non solo bellissimo, ma proprio esaltante.
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