Quando dalla Sicilia sono salita a Carpi era il millenovecentoquarantatre, non avevo ancora sedici anni e avevo un lasciapassare che diceva che potevo frequentare la prima magistrale superiore. Il sistema allora era tutto diverso. Mia madre, rimasta vedova e senza più lavoro aveva deciso di salire tutta l’Italia con me e mia sorella maggiore e di venire a stare qua. Ancora adesso mi chiedo come ha fatto una donna di quasi cinquant’anni in un paese in guerra, senza saper leggere e scrivere, a portarci fin quassù.
Ci siamo arrivate col treno, anche se avevamo tanti bagagli e dovevamo spesso scendere e salire dai treni per paura dei bombardamenti. Io non avevo mai viaggiato prima, a parte qualche giornata a Messina in compagnia del babbo. Si può dire che l’Italia quella volta dal finestrino l’ho vista quasi tutta. L’ho pure toccata coi piedi ad ogni sosta e a volte, quando scampavamo ai bombardamenti, anche baciata. Erano i miei primi baci a qualcuno che non fosse di famiglia e son contenta di averli dati ai posti che mi han salvato la vita.
Una volta dopo un allarme stavo per salire in un vagone chiuso che dalle fessure lasciava vedere delle ombre ma mia sorella che mi aveva tenuto d’occhio ha urlato: “Dove vai? Non vedi che è chiuso?” – “ma c’è qualcuno lì dentro!” - “Qualcuno? Al massimo qualcosa! Ehh!!! Domenica Aliquò, cominci a fare gli scherzi col tuo cognome adesso?” - e anche se non l’avevo capita l’ho seguita lo stesso verso la carrozza dove la mamma ci aspettava. Durante il viaggio mi ha spiegato un po’ di latino e quella regola che si ripete sempre: quando aliquis, che significa qualcuno o qualcosa d’indefinito, è preceduto da si o nisi, cioè se e se non, perde le ali, perché accompagna un evento possibile e rimane solo quis. Erano viaggi lunghi a quei tempi, erano ancora più lunghi per via dei bombardamenti, mettici pure le lezioni di latino, non arrivavamo più.
Abbiamo capito di essere vicine all’arrivo quando abbiamo smesso di vedere qualcosa oltre alla pianura piatta in fondo all’orizzonte. Giusto in tempo per rimandare la costruzione della perifrastica passiva. Poi è salita la nebbia, che non avevamo mai visto, almeno io. Arrivata la sera sembrava di entrare in un mondo fantasma. Un mondo di fantasmi tutti gentili, per fortuna.
Era marzo quando ci eravamo sistemate, e anche se potevo comunque andare a scuola, all’istituto superiore, avevo come paltò solo la mantella da piccola italiana e mi sembrava che andare a scuola con intorno le altre ragazze delle famiglie bene di Carpi... non mi sarei trovata bene. E poi il magistrale era solo a Modena, per andarci c’era la corriera ma era privata, a pagamento oppure il treno ma ci volevano dei soldi e noi avevamo solo il sussidio da sfollati. Quindi non è che potevo dire e fare.
Allora ho promesso a mia madre che dopo la guerra avrei ripreso a studiare, e in quel periodo c’era una legge fascista, quella delle madrine di guerra e uno poteva andare a lavorare o a far qualcosa per la patria, una specie di volontariato, diciamo così. Quindi sono andata alla stazione di Carpi e ho fatto domanda per essere assunta in biglietteria. Quando mi sono presentata in stazione mi hanno chiesto da dove venivo e io “Carpi” ho risposto, ma con la C in gola, come si diceva giù, e allora mi hanno chiesto di nuovo “Da dove?” e io dico “Garpi, Garpi con la Gi, Gi di Gane”. E tutti son scoppiati a ridere.
Così la stazione di Carpi mi ha scelto e sono andata a Mantova, un mese, a imparare a fare i biglietti. E la prima volta che sono arrivata alla stazione di Mantova, era la fine di Aprile e c’erano già stati i primi giorni di sole, m’ero distratta a preparare i fogli che dovevo consegnare a quelli di Mantova per cominciare ad imparare e ho guardato fuori quando ormai stavamo arrivando e mi sono abbagliata, perché non m’aspettavo luce guardando in basso e non sapevo che lì c’era un lago, più azzurro del cielo, più grande del respiro, e per un attimo mi è sembrato il paradiso.
Fino a che il mese non è finito e allora toccava a me fare i biglietti per la stazione di Carpi. Intanto mia sorella aveva già trovato lavoro da operaia nell’unica industria meccanica di Carpi allora e in mezzo a tutti quei lavoratori, aveva deciso di diventare socialista. A sentir lei i comunisti erano pericolosi quasi come i nazisti e il patto del trentanove tra Hitler e Stalin ne era la prova. Credeva molto nella democrazia, nel potere del popolo di scegliere e soprattutto nelle donne.
Che bisognava far qualcosa dice di averlo deciso quando una sera, alle cinque e mezza, proprio all’ora dell’uscita degli operai dalla fabbrica, lì dalla via della catena, la via sotto il portico a metà della piazza grande, i fascisti avevano appeso un morto al catenaccio che blocca il passaggio alle macchine, con le gambe stese per terra, le braccia sulla catena come un cristo e un cartello con su scritto: così muore un traditore. Dice che, quando ha visto la madre del morto e la moglie incinta piangerlo, ha capito che doveva fare qualcosa.
Io ancora certe cose non le volevo capire, perché facevano paura, e facevan preoccupare la mamma e allora continuavo a fare i biglietti e cercavo di fare bene quello che dovevo fare. Poi un giorno ho visto lui, che tornava dalla licenza, tutto bello in divisa militare, con quel viso allungato, quei capelli color del fieno a Maggio. Aveva una faccia un po’ mogia ma mi è bastato dirgli “Dai che torni presto!” di qua dal vetro per vederlo sorridere. Ed è lì che, come si dice qua, mi ha fatto su. Io non ero mai stata innamorata, e dire che ero carina, e molto. Me lo dicevano tutti, e quando quelli del bar centrale, dopo avermi detto per filo e per segno tutto quel che sapevano sul mio innamorato, mi chiedevano cosa ci trovavo mai in lui, io dicevo solo “C’ha un sorriso…”
Manco a farlo apposta, dopo neanche un mese, arriva l’Armistizio, 8 settembre, tutti a casa, e ci sembra che la guerra è finita, pace fatta e io comincio ad aspettare il mio bel Romeo. Mia madre non vuole che torni al lavoro, insiste e insiste, mi fa una testa così. Così un giorno, di punto in bianco, resto a casa, senza avvertire nessuno. E nessuno mi viene a cercare. Nessuno. Alla sera mia sorella mi dice che sono arrivati i tedeschi in stazione e che nessuno può più starci.
Passano i giorni, e io resto chiusa in casa, sola, con mia mamma che mi dice di avere pazienza ma io... figurati se a quell’età riesci a stare ferma, volevo andare, chiedere, informarmi! Mia sorella alla sera, dopo che ha allontanato la mamma con la scusa di aver lasciato al vicino le sue chiavi, mi dice che Lui è qui, è tornato, è stata lunga a piedi, ma è tornato, è in banda tra i partigiani e che volendo, se non lo dico a nessuno, in primis alla mamma, può organizzarmi un rendez vous. Non sono mai stata più rossa in vita mia, roba da far impallidire le rape, altroché! Ma comunque voglio dargli il benvenuto e propongo di trovarci domani nel piccolo prato tra la tratta ferroviaria e il villino d’Agostino, a Cibeno, fuori Carpi, ma non così tanto da sembrar sospetti.
La sera dopo alla cantina, anche se è già buio, continuano ad entrare rimorchi pieni d’uva per il lambrusco di quest’anno. La nebbia è già salita, mi sembra di camminare sulle nuvole e il pensiero di essere soli e non visti mi fa arrossire forse più di ieri.
Arrivo e lui è già lì.
Il cuore mi dà più colpi dei bombardamenti.
Non riesco ad aprire bocca. Lui nemmeno, sembra.
A un suo cenno di saluto rispondo anch’io col braccio, poi vedo che sta indicando il treno che passa di fianco a noi. È un treno merci che sfila lentamente, silenzioso, senza fretta. Dalle finestre del villino le luci si appoggiano, un po’ storte, sbilenche, sui vagoni. In ogni vagone, nell’angolo in alto a destra, c’è un buco grande come una scatola da scarpe.
Per un attimo mi sembra di vedere qualcosa o qualcuno muoversi dentro.
Qualcuno senza ali.
Bellissimo
RispondiEliminaGrazie, lieto ti sia piaciuto. Come dicono nei film, (quasi) tratto da una storia vera.
RispondiEliminaBeddo, tipo Garpi.
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