giovedì 12 aprile 2012

Hai sentito?

«Come fai a dire che non senti niente?»
«Non sento niente, Vale’. Che c’è? Dimmi che c’è. Vuoi uscire? Non mi vuoi più?»
«No, non è questo, è il posto, questo stanzino, è che io sento i rumori dalla finestrella.»
«Preferisci il bagno?»
«No.»
«La palestra?»
«No, sono tutti in palestra, ci sentono.»
Mi accarezza la guancia: lo fa sempre quando sono agitata e non voglio baciarlo.
Non è che io non voglia, in realtà, è solo che quella maledetta finestrella tonda con le sbarre mi mangia le parole e fa rumorini insidiosi, fastidiosi, e sembro matta, lo so, perché da fuori non si sentono, ma da qua sì, lo giuro: forse si spargono sul vetro, sullo sporco della parte superiore della finestra del corridoio, non lo so, ma quando sto qui dentro me li ritrovo in faccia e io non posso non sentirli. Sarà colpa di Valeria.
«Vale’, dimmi che vuoi fare. Ci ho messo due pomeriggi a fregare le chiavi a mio padre.»
«Lo so, scusa, cioè, non lo so, non mi piace questo posto. Poi mi gratto. Sarà la polvere.»
«Ma se ci veniamo sempre.»
«E allora? Oggi va così, oggi sento i rumori.»
«Ma quali rumori?»
«Ma tu davvero non senti niente?»
«Mio padre me lo dice sempre che tu sei un po’ matta.»
La finestra alta sta nella stessa posizione da quando la nostra scuola non era ancora una scuola, ha gli infissi vecchi e una moncatura sulla sinistra, come se le avessero amputato un braccio; è sempre sporca nella parte in alto, nessuno riesce a pulirla, nemmeno il custode, basso e tozzo.
Quella finestra, non lo sa nessuno, si completa nel muro, coltiva vermi nelle intercapedini. Accanto, una porta sempre chiusa a chiave in tre punti; le mandate serrano il segreto di ogni custode da allora a oggi.

***

Quasi sempre apriva, sbirciava, poi richiudeva; non aveva mai voglia di capire fino in fondo, lui, né di pensare al perché le sedie fossero marce, impagliate male. Le guardava da lontano, scacciava la curiosità di sapere come se fosse stata una mosca troppo vicina ai fichi. Le poche volte in cui accendeva la luce, gli dava fastidio perfino passarci dentro, a quella stanza: di colpo, le linee diventavano oggetti, le crepe dei muri disegnavano sgorbi, i colori erano torvi, l’occhio era costretto a registrare tutte le forme che gli apparivano dinnanzi, e allora lui faceva quello che doveva, pulire o cercare un arnese, in fretta, e, se urtava contro la gamba di una sedia o uno stipite, si puliva il pantalone all'altezza del polpaccio, strofinando forte, come se lo avesse leccato un cane con la rogna o se avesse inciampato in un cadavere: sulla soglia faceva sempre una
smorfia di disgusto tappandosi le narici.

***

«Che brutta finestra, è sporca.»
Anna guarda verso la curva che scendeva al paese vecchio, affacciata alla finestra, con una scopa in mano.
«Che fai qua? Non hai da lavorare?»
«Scorbutico.»
«Anna, via, sciò, questo non è posto per te.»
«Ah, no?»
«No, tu sei una ficcanaso.»
«E tu non sai pulire! Guarda là che schifo!»
«E che me ne frega a me. Provaci tu, se sei tanto brava a pulirla fino a là, io sulla scala alta non ci salgo: queste qua sono tutte matte e come minimo mi fanno cadere. Le vedi che occhi che hanno?»
«Hai paura delle femmine. Hai-paura-delle-femmine. Sei proprio un fifone. Comunque, qua pare tagliata.»
«È stata murata, si dice così. Anni fa. tanti. Ma mo’ che vuoi da me? Non tieni niente da fare?»
«Uff, vado a pulire.»
«Ecco, brava, impicciona che non sei altro.»
«Vedi che ci stava tuo figlio prima, qua.»
«Ah.»
«Eh.»
«E che voleva?»
«Che ne so, però doveva stare in classe, o no?»
«Quel disgraziato!»
«Che hai?»
«Lo sapevo! Lo sapevo!»
«Cosa?
«Quel disgraziato!»
Inveisce contro un cassetto scassinato del suo tavolo, dove conserva le chiavi e i documenti importanti che passano dalla portineria e poi vanno smistati in Presidenza.
«Si può sapere che è successo?»
«Non sono affari tuoi, Anna. Via, sciò.»
«Che modi! Maleducato che non sei altro!»

***

«Adesso come faccio?», pensava. «Adesso se lo sa qualcuno, se li scopre qualcuno, lui e quella matta, io che faccio? Madonna, Madonna, io lo ammazzo; mi ammazzano, questi mi ammazzano. Ah, ma lo ammazzo io prima», continuava, sbattendo il pugno sul tavolo. Sotto la finestra, un gruppetto di soldati marciava e i vetri tremavano.
«Papà, dov'è?»
«Ah, proprio tu! Dove sei stato?»
«Non lo vuoi sapere.»
«Maledetto! Ti dovevano ammazzare a te!»
«Papà, ho poco tempo e non lo voglio perdere con te: dov’è?»
«Non c'è.»
«Non è vero che non c'è, l'ho vista prima da sotto.»
«Da sotto? Ma sei matto? Ci sono i soldati. Quante volte ti ho detto di non ronzare qua attorno, che sei segnalato e sei stato fortunato una volta che non ti hanno fatto niente.»
«Ho solo un dolore cane sul braccio e sul fianco, ma no, papà, non mi hanno fatto niente, certo che no. Gli amici tuoi.»
«Abbassa la voce, stupido.»
«Domani me ne vado, papà. E voglio salutare Valeria.»
«E dove te ne vai?»
«Non te lo dico, non mi posso fidare di nessuno, lo dicono anche i miei compagni. Stasera a casa non mi ci ritrovi.»
«Vattene, va’, vai dagli amici tuoi.»
«Valeria, papà: dimmi dove sta.»
«No. Disgraziato. Ti dovevo menare prima io a te. E anzi, sai che c’è? Meno male che te ne vai, così non sei più un mio problema. Voglio vedere come ti trattano gli amici tuoi, se ti proteggono come ho fatto io.»
«Valeria, papà, la voglio solo salutare.»
«Sta in camera sua. Bussa, non entrare subito. Se c’è qualcuno, non entrare. Se non ti sente, non entrare, vuol dire che dorme.»
«Dorme? Di pomeriggio? Che le avete fatto, papà?»
«Io niente, stupido, sbrigati: tra dieci minuti cominciano i controlli.»
«Tu niente? Che vuol dire? Che le hanno fatto?»
«È l’ultima volta questa: guardami negli occhi. Ho detto che è l’ultima volta.»

***

Ecco cosa c'è.
I vermi ci avrebbero preso, si sarebbero messi sotto la pelle a rodere con soddisfazione, io non ce la faccio a baciarlo sapendo che il buio non è davvero buio ma solo oscurato, incastrato dentro un infisso. L’ombra ci fissa, di notte le spuntano gli occhi della fame.
Ci lasciavano per ore a terra o ci guardavano soltanto, senza darci nemmeno dell’acqua, e ci chiamavano pazze, tutte pazze, non donne, né mogli, né prigioniere politiche, l’iride di quello più grosso era più scura del solito, il bianco attorno sembrava il colore del lenzuolo intriso di ammoniaca dei nostri letti.
Dovevamo dire chi ci veniva a trovare, perché: tutto segnato, alla mattina e alla sera. Ma io non dicevo mai tutto e, quando finivo di fare l’elenco, l’ultimo nome lo mordevo insieme alla lingua, per evitare che mi uscisse.
«Non siete recluse, siete ospiti: non si lasciano le donne sole in casa senza cura. Che mariti vi siete scelte?»
E quella parola, cura, detta con la lingua sottile e biforcuta che sibilava, come la prima volta in cui mi hanno tolto i fogli, poi l’inchiostro, poi i vestiti, e a me non importava tanto dei vestiti o della carta, quanto della dignità che avrei perso, dicendo “sono pazza” o “non sono figlia di mio padre”.
Rimanere da sola, a morire di paura o senza vestiti addosso, non importava. Ci chiedevano le cose a muso duro, ci facevano sedere e ce le domandavano lentamente e a voce alta, come se fossimo davvero sorde e pazze, ci chiedevano chi avesse scritto cosa, quando, per chi, perché, il significato delle parole che usavamo ― forza, dignità, libertà ― e noi barattavamo la vita dicendo: “non lo so, sono pazza”.
«Vale’, la smetti di agitarti? Tra un po’ finisce l’ora.»
«Senti, oggi non è cosa, torniamo in classe, dammi i jeans per piacere, riporta le chiavi a tuo padre.»
«Tu non mi vuoi più.»
«Non essere ridicolo, non è questo.»
«Allora baciami, Vale’.»
«Dopo, fuori. Usciamo da qua, mi manca l’aria, dammi la maglietta.»
Sul corridoio passa la luce e, se abbasso lo sguardo, perché un po’ mi vergogno, un po’ mi dispiace farlo arrabbiare, lui mi prende la mano lo stesso, davanti alla terza B, e io finalmente sento scandite quelle parole che rimanevano mangiate dai vermi nell’infisso e le ripeto.
«Che dici, Vale’? Non capisco.»

Ti tengo nascosta, Valeria, murata come l'infisso; non ti faccio guardare da nessuno: te lo prometto. Mi chiudo gli occhi anche io, se vuoi, quando ridi e quando piangi, non ti tolgo nemmeno i vestiti. Ti prometto che finirà tutto poi torneremo indietro; facciamo finire tutto, Vale’, e tu sarai orgogliosa di me.

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