martedì 26 luglio 2011

Did you have to pay that fine

Vado spesso ai concerti da sola o al cinema da sola. Mangiare al ristorante o in mensa, invece, non posso farlo: mi porto un giornale o un libro e finisco sempre per guardarmi attorno. Non è bello guardare nei piatti degli altri. Dopo la prima volta che mi è successo, non l'ho più fatto: è stato imbarazzante.

Faccio la fila volentieri, aspetto il mio turno, pago il biglietto, c'è sempre gente attorno a me, ci sono quelli che sanno già tutto di quello che andranno a vedere, ci sono quelli che sono stati trascinati, ci sono quelli che parlano al telefono, ci sono quelli che non si trovano mai e si richiamano in continuazione. Ho la maglia rossa, ho il jeans, ho una borsa a tracolla. Poi ci sono quelli che stanno zitti, io sono tra questi, mi piace guardarmi intorno senza particolari pretese, mi piace stare lì e aspettare il mio turno o aspettare semplicemente, poi penso almeno per un minuto quale elemento del gruppo potrei essere io, mi scappa da ridere quasi sempre, posso giurarci. Ci ritrovo un gusto scaramantico tutto particolare a fare la fila da sola e aspettare il mio turno, leggere il numero del biglietto che mi è toccato, il numero della giacca al guardaroba. Una volta mi sono innamorata così, facendo la fila: è una pratica che porta fortuna.

Il 2007 che è poi l'anno in cui sono diventata un po' grande, l'anno in cui mi sono trasferita a Milano era ottobre da dieci giorni, anche se era passato il 20 ottobre, ma dall'1 al 20 ottobre non ho fatto nulla che io ricordi per davvero, ho un sentimento di confusione misto a nebbia, non potrei dire di essere stata viva né felice o pensierosa: è che proprio non me lo ricordo. Mi ricordo che non era il 20 perché la mia amica Maria compie gli anni il 20 ottobre e di sicuro so che non era ancora il 28 ottobre, perché la mia amica Nalis compie gli anni il 28 ottobre: io abitavo per la prima volta da sola, in un monolocale di ringhiera a Piola, la mia prima decina di giorni milanese.
Il 2007 è un anno di cui mi ricordo molti dettagli e molte sfumature, è stato lunghissimo, non finiva mai, questo me lo ricordo, le cose grandi, nel loro insieme, mi sono sfuggite tutte tranne una: un concerto che ho visto da sola, uno spettacolo collettivo in cui sul palco c'era una signorina più piccola di me di un anno, posso dire una mia coetanea, ogni tanto imbracciava una chitarra bianca e i suoi coristi erano tutti neri, accompagnavano il blues di una bianca londinese di ventiquattro anni da poco compiuti, con un corpetto bianco e una gonna nera a tubino, molto bella secondo me, era bella come sono belle quelle ragazze che hanno un naso grande o un neo, di cui noto i dettagli che su chiunque altro mi disturberebbero gli occhi.

Vedo esattamente tutti i difetti disegnati sulle braccia o bucati sotto il labbro. Io ho un particolare istintuale affetto verso questo tipo di ragazze, mi piacciono subito, forse perché son più capaci di me a mostrarsi per come vogliono sembrare, allora mi sembra di imparare da loro anche solo guardandole, come se per davvero fosse tutto lì quel che c'è da sapere. Mi attraggono e mi sembra di poterle cogliere, alla lunga: non nel quadro d'insieme, ma nei dettagli e io mi trovo bene subito perché non so trovare la versione d'insieme, scelgo sempre una prospettiva, seleziono i dettagli. Sono quelle facce, non so se avete presente, che se hai pazienza e aspetti, loro a un certo punto sorridono, ci vuole solo un po' di tempo.

Un concerto si avvera quando le luci sopra di noi sono spente, quando sono poche sul pubblico e tante sul palco, quando non ci vediamo e ci sentiamo soltanto, quando il buio è più forte della luce. Non si può avere paura del buio, il buio prima dell'inizio di un concerto produce lo scrosciare fiducioso e collettivo di applausi, quelli forti, quelli che fanno gli altri quando tu sei da solo e magari ti unisci con un attimo di ritardo. Ecco: quel buio lì è uno dei motivi per cui mi piace andare ai concerti da sola, sono sicura di non perdermi quel momento, se sono da sola.

Quella sera di ottobre era il primo concerto milanese, era la prima e l'ultima volta in cui avrei sentito cantare di Valerie dal vivo. Parlare dei morti che non conosco non sono capace, la morte è una cosa della pelle e degli organi, delle arterie svuotate: fine. Ogni tanto ci parlavo da viva, ci parlavo soprattutto per via di una canzone, che è poi la nostra canzone, come si parla coi cantanti, se sei di quelli che cantano da soli spesso o ti affezioni alla musica, magari la canti in camera o in macchina, io faccio spesso così, arrogandomi un diritto megalomane: pensare che in un momento preciso quello lì o quella lì stia cantando proprio per me. Io con lei ci parlavo da viva per via una canzone, cantava spesso per me Valerie, io lo so, è una delle poche cose che mi ricordo di quell'ottobre.
Valerie io lo scrivo sempre alla francese, Valérie, e quella sera è arrivata esattamente quando gliel'ho chiesta.

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