lunedì 19 marzo 2012

Le interviste alla rovescia: Fabrizio Gabrielli

Se non avete mai sentito Fabrizio Gabrielli declamare le sue cose dal vivo a voce alta, vi state perdendo una cosa molto bella, soprattutto quando legge la sua ultima fatica, che è la terza, parla di calcio (ma anche no) e si chiama Sforbiciate. Fortunatamente, il nostro amico civitavecchiese viene domenica 25 a sforbiciare allo Spazio Meme di Carpi e se siete in zona, ve lo consiglio. Il libro l'ho letto e mi è piaciuto da matti, dentro ci sono anche un'incursione di Davide Enia, un feat. del nostro simone rossi, dei disegni di Maximiliano Chimuris e delle cartoline avvolte nella Gazzetta dello Sport. Ho chiesto a Fabrizio se aveva voglia di chiedermi delle cose sul suo libro, e lui ha detto, testualmente: avoja. Quindi questa è la seconda intervista alla rovescia di Barabba, comincia così:

Fabrizio Gabrielli – E insomma, Marco, sai che da quando stamattina ho trovato il tuo invito a fare questa ròba qua dell'intervista alla rovescia non faccio altro che pensare a tutt'un mondo all'incontrario, in cui le star della tivvù guardano poveri cristi dimenarsi nella scatola catòdica, in cui i calciatori fanno gli opinionisti, dove l'uomo-della-strada senza formazione politica fa il ministro? Non ci stiamo davvero inventando niente, diobò, mi son detto.
Many – Oh, ciao. Eh, questa cosa delle interviste alla rovescia non è che sia originalissima. Però è anche vero che le interviste alla dritta hanno rotto le balle, soprattutto quelle cogli scrittori. Mi vien da pensare che sarebbe bello vedere più interviste in giro fatte dallo scrittore con lettori diversi, così per vedere anche come cambiano i punti di vista, ché altrimenti lo scrittore, nelle interviste solite, quelle alla dritta, dice poi sempre le stesse cose.

F.G. – Che poi è bello questo ribaltamento del punto di vista: se chi scrive fa delle domande a chi legge, forse poi finisce per capire meglio cos'è, che ha dato da leggere. E chi-lo-sa, in extrema ratio, anche un po’ di più cos'è che ha scritto. Io, per esempio, son certo di non aver scritto un libro sul calcio, o almeno non latu sensu. Forse contingentemente calcistico. E che quindi, di conseguenza, non è che serva essere fubolòfili sfegatati, per farselo piacere almeno un po'. Te, te che l'hai letto, e che non so, non mi sembri propriamente un ultrà, che fai? Mi smentisci?
M. – No, non sono decisamente un ultrà e ultimamente, cioè da una decina d'anni almeno, il calcio lo seguo poco se non addirittura per niente. Ero milanista da piccolissimo, per via di mio nonno, ma all'epoca c'era pure Maradona e visto che il mio migliore amico e compagno di squadra – di ciclismo: ero un ciclista, in un mondo antico era il primo vero sport nazionale, poi è andata com'è andata – visto che il mio migliore amico, dicevo, era casertano, ho iniziato a tenere il Napoli. Veder giocare Diego Armando, da piccoli, era un po' come guardare alla notte in tv Michael Jordan sotto canestro, o Pantani sull'Alpe d'Huez, per dire. Dopo, per un certo periodo ho tenuto la Fiorentina, quando c'era Batistuta. Poi basta: adesso mi piace il baseball. Ma comunque, no, non mi pare che tu abbia scritto un libro sul calcio, anzi, hai scritto un libro sugli "ultimi" del calcio. E gli "ultimi" sono quelli che davvero fanno dello sport uno sport e della vita una vita. Il calcio degli ultimi lo si ama alla follia, come si amano i campionissimi, che anche loro, se ci guardiamo bene, per essere campionissimi devono essere "ultimi", a modo loro, disperati: vedi Garrincha, vedi Diego Armando, vedi anche Pantani, per dirne alcuni. Quello che hai fatto è stato scrivere un libro di un romanticismo che vien fuori dalle pagine come maionese da un panino.

F.G. – A proposito di panini – che poi tu sei abbastanza in zona, mi pare –, sai chi ha fatto riferimento pure, a questa questione degl'ultimi, degli outsider? Antonio Pronostico del Collettivomènsa, l'autore delle locandine delle presentàzie. Che non so se c'hai fatto caso, ma son tutte figurine similPanini, appunto, giuocatori con la maglia dai colori del posto in cui vado a leggere a voce alta, ma senza faccia. Ecco: sono senza faccia proprio perché i veri eroi poi sono i dimenticati, quelli dei quali mica te lo ricordi come toccavano la palla, come si destreggiavano, che tratti avessero: piglia Ali Gagarine, hai presente a tutta prima com'era fatto, che faccia avesse? Io no.(Son mica sicuro me l'abbia mai detta, 'sta ròba, Pronostico, forse me la sono congetturata da me, andando, come si dice, oltre ogni Pronostico.)
C’ho provato, ma non ci riesco, devo per forza arrivarci, a questa domanda: avendo cura di non addentrarmi in quella dinamica lenzuola-sfatte-post-coito-accendo-sigaretta-chiedo-t'èpiaciùto, mi dici tre, cinque, nove cose che proprio non t'hanno gustato?
M. – Nove o cinque son troppe. Provo con tre cose che non mi sono piaciute. La prima ha a che fare con la carta e l'odore della carta: non mi piace tanto l'impaginazione, mi sembra un po' da testo universitario, con quel carattere tipografico un po' accademico, la mancanza dei rientri dei paragrafi, quelle cose lì, che se un giorno le Sforbiciate saranno elettriche, è un problema che sparisce. La seconda cosa riguarda la difficoltà che hanno tutti libri di racconti in generale – che siano monotematici o meno – e i tuoi libri di racconti in particolare, come quell'altro dal titolo L'inafferrabile Weltanschauung del pesce rosso: in generale, i libri di racconti non sai mai con quale ritmo leggerli (e infatti mi pare che abbiano un mercato tutto loro, che rispetto a quello del romanzo è un mercatino); in particolare, i tuoi libri di racconti è impossibile leggerli d'un fiato, e questo è per via della tua scrittura iper-letteraria, così pregna di significati e significanti, una commistione di aulico e popolare, una cosa talmente precisa e bella che il lettore si deve soffermare su ogni parola, su ogni frase, e anche per leggere due pagine ci si mette del tempo, un sacco di energia mentale. Diventa un po' difficile, lèttone uno, leggere subito il racconto dopo. Io mi son trovato bene a leggerne uno al giorno, e ogni tanto mi dicevo: dài, ne leggo un altro. E, oh, iniziavo, poi mi accorgevo che no, dovevo fermarmi, non ci stavo capendo niente, tutte le energie disponibili del cervello erano state usate per il racconto precedente. Che poi, se la guardi dalla parte giusta, questa cosa è anche un pregio. Un pregio grosso. La terza cosa non la trovo, quindi ci fermiamo a due.

F.G. – Capita anche a me, sai, coi racconti, quando leggo una raccolta di racconti – e ne leggo tante, di raccolte di racconti: cerco sempre di centellinarmeli. Una volta Cortázar ha detto che là dove il romanzo vince ai punti, il racconto deve vincere per knock out. Lo so, è una citazione inflazionata, però vedi, ti fa trarre tutt'un codazzo di conclusioni: che ti vien da chiederti se fossi pugile, non faresti passare del tempo pure tu tra un knock out e un altro? Voglio dire: bisogna saperli assorbire con calma, gl'uppercut, i montanti, i dritti e i rovesci che ti mandano al tappeto, se son così forti da mandarti al tappeto. Sapersi leccare le ferite, e godersi la gioia dell'avversario martoriato al centro del ring, richiede del tempo, no? E quindi sbocconcellare più che abbuffarsi, dovrebbe comportarsi sempre così, un lettore di racconti. Lèttone uno, fermarsi. Lèttone un altro, fermarsi ancora. Bisognerebbe saper tracciare una Riga, come dice sempre, infatti, un mio amico lèttone.
Piuttosto, questa cosa degl'ibùc: m'era venuto in mente di pensarla, un'edizione elettronica delle Sforbiciate, magari arricchita di contenuti extra, con dei filmati e delle foto e dei ritratti di questi calciatori così da fartelo vedere subito, per tornare a quanto detto, com'era fatto Gagarine: ma il rischio, secondo te, non è quello di scivolare nel melmoso mondo degl'almanacchi, che ce ne son già centomila?
M. – No, il rischio, forse è quello di uscire dal concetto di libro, se cominci a metterci le foto, i filmati, eccetera, finisce che snaturi la narrativa. Che poi, bisogna dirlo, mica è obbligatorio che uno sappia come sono fle facce di quelli che racconti, mica è obbligatorio che riesca a collegarle con le facce che ci sono nella copertina. Uno si fa l'immagine in testa, ognuno la sua, e anche lì sta il potere della scrittura, dello scrittore, di Fabrizio Gabrielli. Alcune delle facce che racconti, a parte George Best, che insomma, è molto molto pop e lo conoscono tutti, io me le sono immaginate grazie alle parole. Erano tutte bellissime, le mie facce, cogli occhi un po' tristi.

F.G. – Dicon, quelli che i libri li vendono di mestiere, ma vendere per venderli, intendo, anche se è un'affermazione abbastanza lapalissiana, che la copertina di un libro è fondamentale, per attirare l'attenzione del lettore. E per instradarlo verso quel che s'appresta a leggere, anche, secondo me. Per dargli un'anticipazione. Quanto instrada e quanto fuorvia, secondo te, la covercia di Sforbiciate? Mettere undici calciatori è di suo un passaporto e un biglietto solo andata per lo scaffale della letteratura sportiva, vicino alla biografia di Ibrahimovic?
M. – La copertina di Sforbiciate è stupenda e dice quello che dice il libro: dice che sarà difficile da leggere ma che sarà una bella esperienza, dice che si parla di calcio ma anche no. Poi c'è la fascetta: "la vita, l'amore, ma prima, per favore, il pallone" che, come dire, spacca. Ci sarebbe la questione della quarta di copertina: non capisco come mai, ma da qualche tempo le quarte di copertina non dicono più niente del libro, sembrano troppo forzate, come i titoli che si mettono ai quadri astratti, e secondo me è un peccato. Per la questione del passaporto verso lo scaffale dello sport, non so, chi vende i libri per venderli ti potrà dire che dipende dai librai. Forse sì, forse nelle "catene" c'è questo rischio, ma nelle altre librerie dipende. A Carpi, alla libreria Fenice, era nello scaffale di narrativa delle case editrici medio-piccole, di fianco avevi una roba che non mi ricordo della Minimum Fax. Alla libreria Mondadori non lo so, non ci vado mai.

F.G. – Qual è il personaggio che t'ha colpito di più, a te? Lo conoscevi, se lo conoscevi già? E se non lo conoscevi: credi sia tutto vero, quello che ho scritto di lui e degl'altri?
M. – Due su tutti: Gagarine e Winston Coe, il portiere senza un braccio. Poi mi son commosso per Garrincha, davvero. (Che, tra l'altro, Garrincha, riprendendo quello che si diceva prima, è l'unico racconto scritto con una lingua diversa, cioè in romanesco, e secondo me è bellissimo anche perché sin un libro scritto in una lingua difficile, che è la tua lingua iper-letteraria e pregna di significati e significanti, stupenda ma difficile, a un certo punto t'imbatti in una lingua totalmente popolare – o fintamente popolare, perché da bravo scrittore scegli ogni parola e ogni accento, ma il risultato è una boccata d'aria, un fine primo tempo, tanto che poi, dopo Garrincha, riesci a leggere il racconto successivo.)

F.G. – No, perché questa ròba d'aver scritto un libro ruffiano, un po' me la rimproverano, e io un po' la soffro. Leggevo, qualche tempo fa, un'intervista - dritta, quella volta - a DFW, in cui Wallace disquisiva su come appassionare il lettore, e diceva che bisognerebbe "capire in che modo la narrativa possa ancora affascinare un lettore la cui sensibilità è stata in massima parte formata dalla cultura pop, senza diventare un'ulteriore palata di merda fra gli ingranaggi della cultura pop". E io, vedi, trovo che giocare con il pallone possa essere un viatico per tastare la cultura pop senza smerdarsi con la cultura pop. Vè?
M. – Si rischia di cadere nel pasolinismo, a rispondere a questa domanda, e tirare fuori discorsi sul calcio come specchio della società, ma cadere nel pasolinismo è una roba che non va bene, si diventa delle borse. Ma Sforbiciate è tutto fuorché ruffiano: ci sono delle cose, dentro, dei nomi, dei fatti, inerenti al calcio o collaterali, che vengono accennati e dànno un bel po' di spunti al lettore per andarsi a cercare altre letture, quadri da vedere, posti da visitare, gente su cui fare delle ricerche. Mica poco, veh. E poi c'è sempre il fatto ch'è scritto in un modo che è – attenzione, sto per dire una roba grossa – LETTERATURA. Non sono neanche sicuro che tutti riescano a leggerle, le Sforbiciate. Magari uno vede la recensione sulla Gazzetta dello Sport o sul Guerin Sportivo o la tua intervista su Sky e legge le Sforbiciate e non ci capisce niente. C'è questo rischio. (Forse aprire con un pezzo su George Best, quello lì, sì, è un po' ruffiano, ma ruffiano nei confronti di noi a-calciofili che, per forza di cose, se c'è uno che conosciamo a prescindere, quello è George Best.)
Adesso invece te la faccio io una domanda. E scusa se per pochissimo ribaltiamo l'intervista e la raddrizziamo, ma è una cosa che secondo me a uno scrittore bisogna chiedergliela, allora te la chiedo: Fabrizio Gabrielli, te perché hai scritto Sforbiciate? E poi: è bello?

F.G. – Mi piace mica troppo, questa cosa di raddrizzare l'intervista così sul più bello, è un giuocare sporco, un tuffarsi in area senza che t'abbia neppure sfiorato: rigore!, gridi, macché rigore, ti rispondo. Però facciamo che mi comporto ammodìno, e ti sfamo questa curiosità: ch'è di rigore, in un'intervista, infatti, al dritto o al rovescio che sia.
Bello, Sforbiciate, per esser bello, magari è una cosa che sapresti dirmi meglio tu, amico lettore, come si dice, come si schermiscon sempre gli scrittori. Io posso raccontarti perché è stato bellèrrimo scriverlo, e vederlo così com'è sugli scaffali delle librerie, ch'è poi una mezzaspiegazione ai moventi sottesi la sua stesura, se mi passi l'espressione. In prima battuta, perché dentro ci sono un sacco di storie, personaggi, dettagli, curiosità che magari ti saresti andato a cercare da solo, amico lettore, e invece il lavoro sporco e al contempo fighèrrimo d'inzaccherarmi sul campo di pozzolana al tramonto me lo son fatto io, e te n'ho risparmiate, di fatiche, ma pure di gioie, fìdati. Poi, perché una volta trovato su gùgol quel ritratto che Dalì fece a Miravitlles o magari la foto di Winston-Coe-senza-un-braccio che vola all'incrocio per uncinare la palla, avresti potuto cominciare da te a fantasticare sugl'accadimenti sottesi, sull'immediatamente prima o sul subitaneamente dopo, e ti saresti crogiuolato nella scoperta da te; e invece me la son presa io, questa croce, e questa delizia. E devo confessarti, mai Calvario è stato più divertente invero. Infine, perché vederlo così com'è, con la covercia e la fascetta di Cosimo Lorenzo Pancini, coi disegni di Maximiliano Chimuris, nella bella edizione che ha voluto approntare Piano B, con quella gemma di Davide Enia incastonata nel mezzo, la presenza di simonerò, mi dà proprio l'idea di squadra che - partita in sordina, senza troppe ambizioni, tutti i lunedì, sul sito degli Scrittori Precari - di giornata in giornata ha acquisito unità d'intenti, assorbito meccanismi, trovato compattezza, e ha infine ottenuto una mezzaspecie di qualificazione in coppa uefa. Vederlo stampato, Sforbiciate, è stato come portare a compimento er progggetto. E mi sento un po' Luis Enrique; ma più caruccio, di Luis Enrique.
M. – Grazie. Comunque, secondo me è bello, Sforbiciate. Ma scusa se abbiamo ribaltato. Ri-ribaltiamo subito.

F.G. – Abbiam mica fatto una ròba fiume-che-tipo-chedduepalle?
M. – Speriamo di no. Se ci saranno delle lamentele te le faccio presenti quando ci vediamo, domenica.

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Sforbiciate è uscito per Piano B edizioni, ha 179 pagine e costa quattordici euro e novanta centesimi. Dentro, l'abbiamo già detto, ci sono: un racconto di Davide Enia, un feat. di simone rossi che parla anche di Django Reinhardt, le illustrazioni di Maximiliano Chimuris. Poi, abbiamo già detto anche questo, Fabrizio Gabrielli viene a presentarlo e soprattutto a leggerlo allo spazio Meme di Carpi, domenica 25 marzo. Per l'occasione, si porta dietro anche i numeri 52, 53 e 54 (quello nuovo e tutto d'oro) della rivista letteraria Prospektiva, di cui è il direttore. E forse anche noi leggiamo qualcosa da Prospektiva, domenica al Meme, chissà.

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