Diciassettesima puntata
Lo sapevo che non mi dovevo fidare di uno che non si orienta nemmeno a casa sua tra bagno e salotto. Lo sapevo che c’era un’altissima probabilità di rischio. Lo sapevo che il mare è magico e traditore. Ma questa è quella che si dice un’avventura.
Da alcuni giorni per gioco faccio una piccola sfida con me stesso, così, un po’ per noia un po’ per vedere se ne sono capace. Fingo che il fondo della piscina non ci sia e che non posso mai toccarlo: una roba un po’ infantile lo ammetto, ma mi sento spronato a fare meglio i movimenti e a seguire la respirazione senza il conforto delle piastrelle fredde, bianche e blu, sotto i piedi. Nei cambi di direzione o quando devo togliere l’acqua dagli occhialini sembrerò goffo e strano, cercando di non perdere il ritmo per stare a galla dove tutti gli altri toccano, ma a suo modo è una limitazione stimolante.
L’ultima volta che ero su un acqua senza fondale visibile ero a Camogli con amici, sulla riviera ligure, ospite di Elisa B. Eravamo a mollo, con alle spalle il piccolo golfo che raccoglie tutto il paesino, e stazionavamo nei pressi della boa che delimitava lo spazio tra la zona riservata ai nuotatori e quella riservata alle barche. Francesca P. ha fatto la domanda che una persona timorosa del mare non deve mai fare: “Quant’è fonda?” ed Elisa, con placida serenità: “Trenta, trentacinque metri, credo…” E mentre Francesca si agitava e guardava indecisa il fondo blu sotto i nostri piedi e la boa bianca e rossa, il mio lato da geometra (molto nascosto) immaginava un bel condominio popolare di otto piani sotto i nostri piedi, con tanto di balconi in cemento armato scuro, finestre verdi e grondaie ocra. È stato il modo più rapido per riempire e quantificare quella cifra in quello spazio. Però non so come ma la visuale del condominio era angolata e dal basso, incongruenze del piano catastale mentale.
La prima volta invece, che stavo sopra un fondale non visibile, è stato molto tempo fa. Prima vacanza senza genitori. Solo amici e amiche. L’anno tra la quarta e la quinta superiore. Destinazione: Calabria, un paesino vicino a Tropea. Mezzo di trasporto: un interregionale incredibile, che se non ci svegliavamo a Napoli e balzavamo sulle prime carrozze che continuavano la discesa, ci avrebbe riportato a Bologna. Dopo appena tre ore la dozzina di giovani emiliani che ha attraversato tutta l’Italia per arrivare fino a lì è la novità del paesino, in nostro onore viene pure istituita una festa di rione. Qualche giorno dopo avremo da ridire su alcune questioni contrattuali e pecuniarie, per il resto è stata una vacanza relax da favola.
E tutto questo relax quando hai diciassette anni al quinto giorno ti va stretto e se hai l’animo irrequieto e ti piace esplorare l’ignoto cerchi il tuo compagno più fidato e gli dici: Dai, usciamo dall’insenatura e andiamo a vedere cosa c’è dietro quel picco là! Me l’hanno detto, fidati, ci sono delle spiaggette bellissime! Sì, lo so che non capisco quello che dicono ma fidati, dai! Ci prendiamo il pranzo al sacco (quattro pacchetti di crackers, maionese e salame, due bottigliette d’acqua), un materassino e partiamo presto, tanto qua non c’è niente da fare. Non pensi mica, caro Fil, a invitare una delle amiche che sono in vacanza con noi, nooo, non credi che una cosa del genere sia meglio proporla alla ragazza con cui vuoi stare da solo, oppure a una delle tante turiste che si sogliolano al sole, noo. La proponi al tuo migliore amico. Che sono io. Che per le minchiate in quel periodo c’avevo il callo (non che adesso…). Che lo sai che non ti dico di no. E allora si parte.
All’andata tutto bene. Il materassino, perché non vogliamo fare gli avari e vogliamo stare comodi, lo scegliamo matrimoniale, bello largo e spesso. Il pranzo al sacco, solo in mezzo al materassino, comunque non rimane immune dalle onde mentre nuotiamo e ovviamente dopo ha un sapore decisamente salmastro. Ma siamo entusiasti lo stesso: il sole splende forte, l’acqua brilla e tante piccole strisce bianche luccicano di un bagliore fortissimo oltre il picco che ci apprestiamo ad oltrepassare. Alla base dello spuntone è pieno di scogli aguzzi che ci perdiamo ad osservare. Sembrano artigli e il picco soprastante il becco di un aquila immersa nella roccia. Scrutiamo indifferentemente le nostre possibilità di sopravvivenza nel caso ci finissimo contro. Avanziamo cullati da un vago ottimismo. E dalla corrente che in questo momento ci spinge verso questa minuscola caletta.
Sabbia finissima, palme sullo sfondo, natura intatta: c’è pure una pianta di fichi maturi. Perché poi ci son venuto con te, Fil, me lo chiedo ancora oggi. La stessa cosa devi averla pensata anche tu. Ma siamo felici lo stesso. Stanchi e soddisfatti dell’impresa. Mangiamo, pure i fichi sull’albero, leggiamo libri che la biblioteca ci metterà giorni a ripulire dai granelli di sabbia e ci appisoliamo sotto il sole giaguaro. Hai un orologio a prova d’immersione a duecento atmosfere, Fil, e ci hai messo la sveglia: mi dici che è tardi. Me ne accorgo anche da solo. Il sole comincia a farsi più rosso e basso. Il rumore delle onde è cambiato. Si direbbe che è andato giù di un paio di toni. Quando prendo in mano il materassino mi accorgo che è un po’ sgonfio. Controllo il tappo. No, è al suo posto. Sta perdendo aria, dev’essersi bucato mentre lo portavamo a riva.
[fine della 1° parte]
per evitare i sottintesi omoerotici che stanno emergendo da questo racconto aggiungerei che non ho invitato nessuna ragazza perchè il mare era infestato di squali e siamo partiti per procacciare il cibo per noi e il resto della comunità che in fervente attesa faceva balli propiziatori e si incideva la pelle con simboli tribali
RispondiEliminaeddai, non era mica un episodio pilota di Lost, o forse sì?
RispondiElimina(leggi la seconda parte, son curioso di sapere se i ricordi sono gli stessi)