di Fabrizio Gabrielli
Wisława, provaci, è un nome mica semplice da pronunciare. Ha il suono d’una stalattite che svanisce gocciolando, scioglimento di semiconsonanti da lingua impastata dopo la terza vodka.
Uì-suà-uà.
Il cognome, invece, Szymborska: epiteto da segale distillata.
Wisława Szymborska, la prima volta che ho letto una sua poesia, m’ero appena destato, le cispe agl’occhi e il caffé sul fuoco, senti che ròba, mi ha detto simone rossi, eravamo in casteddu e fuori spirava maestrale, avevo un orzajolo, hai fatto in tempo a non venire all’ora prevista, c’era scritto, si parlava d’un appuntamento non dato in una stazione, nella città di N., A una è corso incontro / qualcuno che non conoscevo, / ma lei lo ha riconosciuto / immediatamente, continuava. Si sono scambiati / un bacio non nostro, / intanto si è perduta una valigia / c’era scritto, / non mia. L’incontro fissato, l’incontro fissato e nondimeno non previsto, tutto sommato, però, avveniva. Fuori dalla portata / della nostra presenza. Nel paradiso perduto / delle probabilità.
M’era parso subito del tutto significativo, quell’incontro imprevisto, Wisława che immaginavo sempre sorridente ed io, con gl’occhi cisposi e una lacrimuzza che s’affacciava repentina, con le lettere che si dilatavano sotto i riflessi dell’iride inumidito, come fa la vista con un granello di sabbia. M’ero pentito, di non averla conosciuta prima. Mi dispiaceva, abbandonarla subito.
Le lacrime agl’occhi, ai coccodrilli, vengono quando il pentimento soggiunge sottobraccio al commiato. See you later alligator.
Wisława Szymborska dicevano fosse la Greta Garbo della poesia.
Girare, apparire, girava e appariva poco.
Woody Allen sosteneva che sapeva catturare la tristezza e l’insensatezza della vita, in una maniera nondimeno ottimista, positiva. Lieve.
Non faccio null’altro che prendere parole pesanti, piene di pathos, ribatteva lei, e provare a renderle luminose. Leggere. Lievi.
Aveva avuto uno scorcio di notorietà improvvisa e a quanto sembra poco gradita nel millenovecentonovantasei, le avevano conferito il Nobel perché nella sua poesia riversava la geniale creatività di Mozart e l’impeto furioso di Beethoven. Mica perché infondeva la levità di Wisława Szymborska.
La Sindrome di Stoccolma, per lei, era tutt’un’altra cosa, ha raccontato in un’intervista. Per due anni ha smesso di scrivere. Passava il tempo costretta tra un’intervista e un pacchetto di sigarette. Era una gran fumatrice, Wisława. Tirava fin quando il mozzicone non le bruciava tra le dita. Fin quando non le lacrimavano gl’occhi.
Le lacrime agl’occhi vengono pure quando tagli le cipolle: da Wisława ho imparato ad apprezzare la rotonda perfezione della cipollosità, che niente ha a che vedere con l’umana volgare concatenazione di ignoto e selve di pelle appena coperti, interni d’inferno, [...] grasso nervi vene muchi e secrezione. La cipolla, idiota perfezione, ha tutt’in sé e null’altro le serve, coerente è la cipolla, riuscita è la cipolla.
Sarà per questo che quand’abbiam deciso di dirci sì, mia moglie e io, e siam stati d’accordo sul fatto che si sarebbero lette delle poesie o dei racconti stupendissimi, al nostro matrimonio, e a deciderlo già ci venivan le lacrime agl’occhi, sarà un matrim-onion, ci dicevamo, confidando nella slacrimante cipollosità della perfezione, ecco, nei testi che si sarebbero letti a voce alta abbiamo inserito anche una poesia della Szymborska, epiteto da segale distillata, nome da sgocciolamento di stalattite.
Io, coccodrilli, so mica come se ne scrivono. Però a slacrimare sono un campione.
Wisława Szymborska se n’è andata ieri l’altro, altrove.
A Civitavecchia, sui tetti, fatto inusitato, serendipità bianca come una cipolla, c’è la neve. Stalattiti che domani prenderanno a sciogliersi, scivoleranno via, sgoccioleranno altrove.
Altrove.
Altrove.
Come risuonano queste piccole parole.
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