La mia ossessione per i film sull'Olocausto e sui Campi di concentramento è di vecchia data, affonda nelle pagine di Storia e arriva fino alla fine dell'Università. Più di tutto, mi hanno sempre interessato le tecniche, i modi e le capacità di rappresentare un momento storico che, lo so, non sarà mai completo nella mente di un individuo senza l'esperienza fisica di aver calpestato quell'erba. Rappresentazioni di ogni ordine e grado: di tedeschi, di ebrei, di polacchi, di francesi, di italiani. Chiunque in qualunque modo e il cinema è quel modo che si è cimentata molto spesso per muovere le maglie della finzione affinché lo spettatore ne esca distrutto o incattivito o impazzito o commosso.
Una delle cose principali che non mi interessano quando guardo un film con questo tema è la trama: ovvio. La seconda cosa che non mi affascina è l'ambientazione, poiché i colori sono sempre gli stessi, l'immaginario è sempre molto simile a quello del film precedente e il crollo emotivo, ovvero il contrasto fra il dentro e il fuori o il prima e il dopo, è sempre evidente. La terza cosa a cui non faccio caso è la presenza di bambini, malati e cattivi.
In sostanza, i film sull'Olocausto sono quel terreno in cui gli estremi sono di troppo e fanno parte del normale; forse è sbagliato chiamarli estremi proprio perché sono normali.
I bambini, nei film sull'Olocausto, hanno sempre lo sguardo intelligente, silente, critico, forte e marmorizzato in una ingenuità che, un certo punto nel film, inizia a vivere su un binario parallelo che scorre accanto a loro. Gli autori, i registi mettono i bambini in un limbo e sulle loro bocche vive il passaggio principale tra il prima e il dopo e il dentro e fuori. Loro rappresentano l'ambiente e quindi il futuro e sono spesso quelli che come un testimone prendono in mano quello che verrà, diventando registratori moventi della Storia e degli adulti, impegnati, invece, a capire, a inorridire, a soffrire. I bambini vivono sempre un pezzo di vita per gli adulti, mentre sono in quel limbo e tentano di mettersi a loro pari, ma con strumenti totalmente diversi.
Il film Il bambino con il pigiama a righe l'ho visto da poco e non l'avevo visto al cinema, perché il tema Olocausto abbinato a due protagonisti bambini mi pareva usuale.
E infatti il film è normale. È orrido, cupo, freddo, critico, spaventoso; lo spazio è abitato dai due bambini e per questo si ridimensiona: è il loro punto di vista che comanda e quindi lo spazio o si allarga, se la testa è in movimento, o si restringe, se le urla, i toni, gli stivali dei militari dettano il tempo.
I due bambini protagonisti sono diversi, sono opposti: il bambino tedesco contro il bambino ebreo. La recinsione che li separa, lo spazio attraversato dalla parola attraverso un buco, lo scambiarsi i vestiti, alla fine, ma non la sorte.
La sorte, nel film Il bambino con il pigiama a righe, è la fine.
E la fine, si sa, è data, è storica ma è proprio la normalità della fine che fa la differenza: te la aspetti ma ti scompone; il cinema e la sua rappresentazione non ti aiutano, la finzione della possibilità della memoria non esiste, non ti soccorre.
Semplicemente, non c'è futuro in questo film, non c'è Storia che sarà avvalorata. Il consumo della tragedia umana che si tiene per mano ingenua e nascosta con addosso un pigiama a righe avviene, eccome se avviene: non c'è sogno che tenga.
L'ingenuità è massacrata e nessun bambino sarà salvato.
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