giovedì 12 agosto 2010

Cronache di una sorte annunciata: Le mariage Rutebeuf

Sfighe d’altri tempi. Si avvicina l’appuntamento di Barabba con la sfiga: ricordo a tutti gli aspiranti iettatori che la scadenza per la consegna dei testi è fissata al nove settembre. Nel frattempo Cosimo ha pensato di dedicarvi la traduzione di un poemetto antico francese dal titolo Le mariage Rutebeuf. L’originale lo trovate qui.
Rutebeuf (qui tradotto liberamente ‘Pio bove’) è il soprannome di un poeta francese vissuto nel tredicesimo secolo a cui si devono, tra gli altri, i cosiddetti Poèmes de l’infortune, vere e proprie ‘Poesie della sfiga’ che raccontano, in tono pseudo-autobiografico, le disgrazie di un povero poeta di Parigi. Qui Rutebeuf racconta del suo matrimonio.

Il matrimonio del ‘Pio Bove’

Era l’anno
Mille e duecento
E sessanta,
Otto giorni dal Natale,
Nemmeno una foglia,
Un uccello nel viale.
Proprio un giorno nero
Per chi mi ama
Per davvero.
Datemi del matto,
Ma lasciatemi filare
E vedrete:
Anche il cuore più duro,
Alla disgrazia
Qui narrata,
Chiederà grazia,
Grazia
Per il poeta.
Trovarsi al fronte,
Credete,
Non è niente,
Mi viene da tremare,
Ma come si suol dire
‘Chi è pazzo e non fa pazzia
Il suo tempo butta via’
L’ho fatta grossa?
Ho contentato
Quelli che tanto
Mi hanno odiato.
Non ho casa
E non ho un tetto
E c’è di peggio:
Con che donna
Vado a letto?
Era povera in canna
E ora, magia delle nozze,
Siamo in due con le pezze.
Fosse una ragazza!
Cinquant’anni ha sulla groppa
Ed è secca
Come una ramazza.
La cosa buona è questa:
Non avrò due corna in testa!
Un matrimonio così
Ce n’è uno al millennio,
Ma io non mi arrendo:
Il ‘Pio bove’,
Poeta rozzo,
Ha ancora le sue braghe
Indosso
E a tutti i compagni scrive
Divertitevi a più non posso.
Non fate caso
A quello che si dice.
Io non ho paura,
Anche se, in cielo,
C’è una congiura:
Sono tra incudine e martello
Ed è quello
Che ha voluto il Signore.
Cari nemici, poveri amici,
Ridete pure,
È giusto,
Ché Dio, a punirmi,
Ci ha preso gusto.
Non ho nemmeno
Una camicia
Da farmi rubare,
Né un ceppo di quercia
Da poter attizzare:
E col faggio che ci faccio?
Tremolo.
Non è abbastanza?
La mia coppa
Ha i buchi:
Sono finiti i tempi lieti
Della sbronza.
Cado a pezzi
Come Troia
E non basterà,
Temo,
L’Ave Maria.
Mia moglie crede
Di salvarsi l’anima,
E ogni quaresima
Mangia il pesce
E prende l'ostia.
Che digiuni
Per la Madonna
E si addormenti
Con la gallina!
La verità è una,
Qui non scenderà la manna.
Che si riempia di pentimento:
Non ci è rimasto altro.
Povera lei,
Povero io,
Per Dio!
Dovrei cercarmi un lavoro,
Un lavoro vero?
Dove vivo
La porta è sempre chiusa:
Tanto è desolata
La casa,
Un tugurio
Cadente,
Senza pane
E senza pasta.
Non mi rimproverate
Se non mi affretto
A rincasare:
Non sono il benvenuto
E a mani vuote, che strazio,
Non mi azzardo a bussare.
Così è la mia vita:
Il giorno migliore
Deve ancora venire.
Potrei fare il prete,
Tante sono le teste
Che ho fatto rinsavire,
Non scherzo:
Più io di un predicatore.
I miei libri sono letti
Dappertutto,
Persino alle veglie:
Che meraviglie,
Libri senza pari,
Ma intanto io resto
Senza denari.
Nessuno è più martire di me:
L’arrostito, il lapidato, l’affettato
Almeno hanno smesso di soffrire.
Io qui sto,
Con la mia pena,
E me la debbo sobbarcare
Finché ‘morte non ci separi’.
O buon Dio,
Se tanto ti piace
Che per te si soffra e ci si ammali,
Perché non facciamo la pace,
Tu e io?

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