Nulla succede mai a caso: la prima volta che vidi Enzo Jannacci fu il giorno del mio quarantesimo compleanno, la mia donna m'aveva lasciato solo a celebrarlo e mi aggiravo, avanti e indrè, per corso Vittorio Emanuele, tetro, meditando balorde vendette, ma poi la fortuna volle che incontrassi Giovanni Arpino in compagnia, beato lui, della sua donna. Costoro due, saputa la verità, mi presero sotto la loro protezione, m'invitarono a cena in un ristorante di piazza Beccaria (dentro c'erano i rucchetè, ma la parola non l'avevo ancora imparata) e poi al vicino Teatro Gerolamo, dove davano un programma di canzoni milanesi vecchie e nuove. Nel palchetto, siccome ero io il festeggiato, mi misero in prima fila, e così vidi bene la faccia spigolosa di questo ragazzo, isolata dalla chitarra che sembra un collarone di Pierrot.
Cantava appunto una strana serenata, recitando la prima strofa in lingua, ed era la storia dell'innamorato povero e pedone, che cammina avanti e indrè sotto la finestra della sua bella, in tutt'altre faccende affaccendata, e alla pena del cuore si somma quella dei piedi, che gli fanno male. Mi dicono che è il primo sintomo della nevrosi milanese, quella delle scarpe, ed anch'io del resto non manco di polemizzare coi calzolai. In fondo l'unico vero miracolo italiano è quello scarpario, nel triangolo Vigevano-Tradate-Varese, come bene insegna il maestro Bombelli, introverso.
Anche il barbone innamorato di Jannacci "portava i scarp del tennis", e l'altro, il poveraccio di tanti anni fa capitato nella balera s'accorge con suo terrore, entrando, che con quegli scarponi non sarà possibile ballare il fox trot, e già presente quel che gli cascherà addosso, per via del bacino domandato a una bella sconosciuta.
Poi con Jannacci siamo diventati amici, e me ne onoro, perché sono convinto che i poeti portano fortuna, e Jannacci ha dentro una vena di poesia schietta, sostenuta dal suo amore per la povera gente. Quando canta la storia del suo amico che era andato a fare il bagno, non dice "amico" a caso: la condizione di questo, e di tutti i suoi personaggi, Jannacci la racconta non già dall'alto (in tal caso il suo sarebbe populismo generoso, e basta) ma vivendoci gomito a gomito, come se fosse uno di loro. E lo è: m'ha raccontato come fu la sua infanzia, proprio delle parti dell'aeroporto Forlanini, dove lavorava suo padre, un meridionale.
Mi restava solo un dubbio: che la poesia di Enzo fosse irrimediabilmente legata al suo modo di interpretarla, alla sua maschera attonita e dura, alla sua chitarra aspra. Il dubbio se ne va via adesso, che esce questo bel disco dove sono raccolte dodici fra le canzoni più belle. La traduzione di cinque di esse qui sotto aiuterà i non milanesi a capire, ad avvezzarsi a questo dialetto, a volergli il bene che si merita. A voler bene anche a Enzo, come gli voglio bene io.
(Luciano Bianciardi, note di copertina a La Milano di Enzo Jannacci, primo disco in studio di Enzo Jannacci, pubblicato nel dicembre del 1964. Ciao Enzo.)
Ciao Enzo.
RispondiEliminaSono genovese, non milanese, ma comunque le canzoni di Jannacci fanno parte della mia cultura. E non ho bisogno di traduzioni per capirle :)
Saluti,
Mauro.