Pubblico di seguito l'articolo "saccheggiato" dal vecchio malvissuto su Voce di questa settimana. Il vecchio mi disse di spedirgli un resoconto della serata moldava in Piazza Garibaldi, ecco ciò che gli mandai via posta elettronica dieci minuti prima di partire per il mare:
E’ da parecchie sere consecutive che cerco un pretesto per andarmene da Carpi e da Piazza Garibaldi. La Carpi Estate ne invade il ciottolato col consenso dei negozianti e il forzato silenzio-assenso dei residenti, incluso il sottoscritto, con eventi a ritmo serrato dal lunedì al venerdì; due o tre serate soltanto degne di nota – Riondino e il Poema di Garibaldi, Poeti in Piazzetta, Garibaldi Jazz e poco altro, pochissimo – e conseguente impossibilità degli inquilini di godere del sacrosanto riposo dopolavoro. E’ metà Luglio, per chi scrive, le ferie sono lontane e la carrellata “culturale” continuerà ininterrotta fino a Settembre.
Senza nemmeno sbirciare il programma delle serate che l’amministrazione comunale mi ha preventivamente inviato per posta (non so ancora se per ruffianeria o come monito al silenzio) sono già lavato, vestito e pronto per partire. Spalanco la finestra perché la casa si rinfreschi appena in mia assenza e dall’alto vedo un esercito di capigliature bionde inconfondibili sulle seggiole rosse di fronte al palco. Un anello di carrozzine circonda ordinatamente i due settori della platea. Con un gesto fulmineo afferro il programma e leggo: Trandafir de la Moldova. Decido di scendere, sorridente e curioso come un gatto di pochi mesi di fronte a un cassetto aperto.
La band moldava – tromba e trombone, tastiera, basi preregistrate, fisarmonica e una cantante dall’aria vagamente sovietica – sale sul palco sotto uno scroscio di applausi e grida concitate, si presenta in italiano quasi perfetto come un gruppo d’alfieri della musica moldava e attacca il primo pezzo sotto il battimani che deve ancora cessare. Bastano non più di dieci note perché le seggiole rosse vengano abbandonate a sé stesse e un oceano di badanti, dopo aver rassicurato con parole gentili all’orecchio i rispettivi badati, sommuove verso il palco in danze vorticose. Si mettono in cerchio tenendosi per mano e ruotano a passi di danza conosciuti, sventolano fazzoletti bianchi sulla testa, si aprono e si ricompattano sorridenti a ondate regolari, cantano e scattano fotografie col telefonino.
La piazzetta si colma di anime eccitate, di giovani moldavi loro figli che ballano con le madri e uomini dall’aspetto calmo e austero che muovono le gambe e incrociano le braccia per poi togliere ogni freno e lanciarsi nelle danze. Non mi ero mai accorto di quanti moldavi maschi abitassero in città. Io e la mia compagna, poco dopo l’inizio del concerto, siamo forse gli unici italiani nella piazza, se si eccettuano i due o tre recidivi dell’aperitivo (che stasera naufraga rovinosamente, travolto dall’onda anomala moldava) e i vecchietti immobilizzati sulle carrozzine, che sovente guardano con occhi umidi nella folla per cercare la propria accompagnatrice senza riconoscerne la figura in mezzo alla baraonda.
Già a metà concerto Virginia, la cantante, smette di presentare i pezzi nel suo italiano quasi perfetto e passa al moldavo senza remore. Le biondone dalla stazza inconfondibile e dal fascino sovietico ritornano dai rispettivi badati ogni due o tre cantiche per rassicurarli amorevolmente, quasi questi fossero loro famigliari e non prodotti di scarto della società del terziario che ha dimenticato l’autorevolezza dell’anzianità per perdersi negli straordinari o nell’aperitivo serale. Sicché, tra una ballata tradizionale moldava – con quelle sonorità quasi balcaniche e la fisarmonica a ricordarci che da quelle parti deriva tutta la nostra tradizione musicale, dalla polka alla mazurca – e canzoni moderne come Numa Numa Dance – scippata alle usanze moldave dai media, qualche anno fa – questo popolo di migranti dell’est, costrette a convivere giornalmente con il sentore della morte e dell’abbandono, trasformano Piazza Garibaldi in un inno alla vita. Il trasporto è talmente grande da far durare le danze oltre il limite d’orario consentito. Io e la mia compagna siamo ancora lì, come ebeti al cospetto di questa massa ondeggiante, a batter le mani e a tentare qualche passo di danza.
Vien quasi da chiedersi perché il comune non organizzi serate del genere con cadenza almeno mensile. Avrebbe il risultato quasi certo di un’integrazione totale, nonché il dono di un momento di sfogo per chi è lontano da casa almeno due migliaia di chilometri. Intanto, nel mio taccuino mentale aggiungerò Trandafir de la Moldova alla lista delle due o tre serate degne di nota della Carpi Estate in Piazza Garibaldi. Chissà che l’anno prossimo l’assessorato alla cultura non decida d’interpellare i residenti, come per una sorta di collettivismo da comitato di quartiere che almeno il segmento anziano del PD dovrebbe conservare in qualche anfratto represso della memoria… avrei due o tre idee da proporre…
cazzo cosa mi sono perso!
RispondiEliminaallora adesso bisogna chiamare lui!
allora ci riesci a loggarti.
RispondiEliminaTi aggiungo alla lista dei bloggers