domenica 31 marzo 2013

Se fosse davvero andata così

Una delle donne aveva incominciato a discorrere di quello che era stato crocifisso al posto di Barabba; essa lo aveva veduto una volta, mentre passava, e la gente aveva detto che era un dottore il quale andava intorno e profetizzava e faceva miracoli. In questo non c'era nulla di male, perché tanti altri facevano lo stesso; perciò, da quel che si poteva capire, il motivo per il quale era stato crocifisso doveva essere un altro. Era un tipo magro; tutto ciò che ricordava di lui era soltanto questo. Un'altra disse che lei non lo aveva mai visto, ma aveva udito che egli avrebbe predetto che il Tempio sarebbe crollato, che Gerusalemme sarebbe stata distrutta da un terremoto e che poi il cielo e la terra si sarebbero incendiati. Cose non da senno, e non c'era da stupire che per questo fosse stato crocifisso. Ma la terza donna disse che quell'uomo frequentava specialmente i poveri e soleva promettere loro che sarebbero entrati nel regno di Dio, e financo alle prostitute lo aveva promesso. All'udire questo tutti risero molto, ma trovarono che se fosse davvero andata così, sarebbe stato molto bello.

(Pär Lagerkvist, Barabba, Gherardo Casini Editore, 1951, cap. II)

Beh, buona Pasqua.

sabato 30 marzo 2013

Sunt chì, senza de ti... 'sa m'interessa, a mi!

Nulla succede mai a caso: la prima volta che vidi Enzo Jannacci fu il giorno del mio quarantesimo compleanno, la mia donna m'aveva lasciato solo a celebrarlo e mi aggiravo, avanti e indrè, per corso Vittorio Emanuele, tetro, meditando balorde vendette, ma poi la fortuna volle che incontrassi Giovanni Arpino in compagnia, beato lui, della sua donna. Costoro due, saputa la verità, mi presero sotto la loro protezione, m'invitarono a cena in un ristorante di piazza Beccaria (dentro c'erano i rucchetè, ma la parola non l'avevo ancora imparata) e poi al vicino Teatro Gerolamo, dove davano un programma di canzoni milanesi vecchie e nuove. Nel palchetto, siccome ero io il festeggiato, mi misero in prima fila, e così vidi bene la faccia spigolosa di questo ragazzo, isolata dalla chitarra che sembra un collarone di Pierrot.
Cantava appunto una strana serenata, recitando la prima strofa in lingua, ed era la storia dell'innamorato povero e pedone, che cammina avanti e indrè sotto la finestra della sua bella, in tutt'altre faccende affaccendata, e alla pena del cuore si somma quella dei piedi, che gli fanno male. Mi dicono che è il primo sintomo della nevrosi milanese, quella delle scarpe, ed anch'io del resto non manco di polemizzare coi calzolai. In fondo l'unico vero miracolo italiano è quello scarpario, nel triangolo Vigevano-Tradate-Varese, come bene insegna il maestro Bombelli, introverso.
Anche il barbone innamorato di Jannacci "portava i scarp del tennis", e l'altro, il poveraccio di tanti anni fa capitato nella balera s'accorge con suo terrore, entrando, che con quegli scarponi non sarà possibile ballare il fox trot, e già presente quel che gli cascherà addosso, per via del bacino domandato a una bella sconosciuta.
Poi con Jannacci siamo diventati amici, e me ne onoro, perché sono convinto che i poeti portano fortuna, e Jannacci ha dentro una vena di poesia schietta, sostenuta dal suo amore per la povera gente. Quando canta la storia del suo amico che era andato a fare il bagno, non dice "amico" a caso: la condizione di questo, e di tutti i suoi personaggi, Jannacci la racconta non già dall'alto (in tal caso il suo sarebbe populismo generoso, e basta) ma vivendoci gomito a gomito, come se fosse uno di loro. E lo è: m'ha raccontato come fu la sua infanzia, proprio delle parti dell'aeroporto Forlanini, dove lavorava suo padre, un meridionale.
Mi restava solo un dubbio: che la poesia di Enzo fosse irrimediabilmente legata al suo modo di interpretarla, alla sua maschera attonita e dura, alla sua chitarra aspra. Il dubbio se ne va via adesso, che esce questo bel disco dove sono raccolte dodici fra le canzoni più belle. La traduzione di cinque di esse qui sotto aiuterà i non milanesi a capire, ad avvezzarsi a questo dialetto, a volergli il bene che si merita. A voler bene anche a Enzo, come gli voglio bene io.

(Luciano Bianciardi, note di copertina a La Milano di Enzo Jannacci, primo disco in studio di Enzo Jannacci, pubblicato nel dicembre del 1964. Ciao Enzo.)

lunedì 25 marzo 2013

La Scala Senza Cima: un reading sul Noir a Soliera

Adesso vi diciamo perché piove da almeno quarantotto ore consecutive (almeno dalle nostre parti).
E anche perché la pioggia andrà avanti fino a Pasqua.

È per una necessità scenografica.
Il buio di una notte senza stelle, i lampioni rotti delle metropoli inquinate, il whisky, le sigarette, la sei colpi e il mistero, quelli ce li mettiamo noi giovedì sera.

Quando?
Giovedì sera, questo giovedì 28, segnatevelo sul taccuino vicino alla fondina.

Come?
Parleremo e leggeremo pezzi dei grandi classici del Noir, dal precursore Edgar Allan Poe allo stiloso Raymond Chandler, dal nervoso Edward Bunker all'ironico Patrick Manchette, dal perfido James M. Cain al violentissimo Vernon Sullivan (alias Boris Vian). Lo faremo in due momenti e in due posti, con due scalette diverse, perché Noir è anche complicarsi la vita, sopratutto quando sembra semplice.

Dove?
A Soliera (MO). Alle 19 saremo alla Biblioteca Campori, dentro il castello, e leggeremo pezzi a tema: "I grandi padri: assassini e detective, sbirri e ladri".
Alle 20 gran buffet in piazza al vicinissimo Bar Eorté.
E alle 21e15, sempre a Soliera, presso il Cinema Teatro Italia, faremo un reading dal titolo "La Scala Senza Cima" dove suggeriremo radici antiche di un genere che pare nato solo un secolo fa (e che secondo alcuni rappresenta il vero romanzo contemporaneo). A seguire ci sarà la proiezione del documentario "Voci in nERo - L'Emilia Romagna nelle pagine del Noir" di Riccardo Marchesini. Il documentario presenta il lato oscuro dell'Emilia Romagna narrato da Eraldo Baldini, Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli e Grazia Verasani.

Chi?
Saremo lui, lei e l'altro. Il sottoscritto (armato di un trench burberry blu), Stefania Delia Carnevali (dei tre la vera attrice) e Many (il socio che mi segue in questi casi difficili, come nelle migliori agenzie investigative).

Perché?
Venite a sentire e lo scoprirete...

Dimenticavo: tutto rigorosamente a ingresso gratuito.
Quando arrivate dite che vi manda Sam.

sabato 23 marzo 2013

Nel mio mondo perfetto (18)

Nel mio mondo perfetto la musica è davvero bella; purtuttavia, per quanto molto bella, non viene mai filodiffusa sotto i portici, nelle piazze, nei centri commerciali e nei negozi, al bar, nelle giostrine parcheggiate sotto le finestre, coi cavalli e le macchinine che girano in tondo, e i bambini son contenti poi lo stesso; e l'unico suono diffuso al mondo, in quel mondo, è il rumore del mio mondo perfetto.

venerdì 22 marzo 2013

Prima vera uscita: fuori dalla tana

E sì. È arrivata la Primavera. E noi barabbisti, come tutti i mammiferi marsupialidi dall'apparenza umanoide, sbuchiamo fuori dalla tana e cominciamo ad annusare l'aria intorno.
Ma ovviamente non siamo i soli. Tanta gente si sveglia, anche prima di noi, molto prima di noi, ma molto molto, e ci dice Ma perché non venite a leggerci qualcosa? Ma perché non venite a fare un reading su questa cosa? Ma perché non parlate con questo Autore? (poi vi sapremo dire chi è) e noi, nel nostro dormiveglia talpoide, non sappiam mica cosa dire. Cioè, non lo sappiamo, ma conoscendoci, lo sappiamo. Bofonchiamo dei Mmmm, sì, dai, proviamo...- tanto mancan dei mesi a quando ci stai chiedendo la data e qualcosa tireremo fuori - e poi i mesi scivolano via dal calendario come acquerugiola dai torrenti in disgelo e ti ritrovi che splende il sole e devi andare. Dove?

Quest'anno, per la nostra prima vera uscita, domenica 24 marzo, siamo qui a Rolo (RE - luogo di nascita di Jules, babbo del Many), all'ultimo appuntamento di Filo Intermentale, una rassegna promossa dalla Associazione onlus Rock In Rolo, che ha toccato argomenti molto interessanti come la Mafia al Nord, Giovani e Lavoro, Cementificazione. E ci è andata bene perché noi di queste cose, tutte interessantissime, non sapevano una cippa o quasi. Ci è rimasto fuori l'ultimo argomento: Creative Commons e Copyleft. Di questo qualcosina vi sappiamo dire. Andata. Dalle 17 alle 19.
A seguire buffet con Asfalto Dj set. (Asfalto-Cementificazione, eh? vedete, tout se tient!)
Sul volantino saremo uno (Many) dal vivo saremo due (+ dulinizo) ma in realtà saremo in tre, siccome il nostro baldo Capra sarà l'esperto musicale dell'incontro.
Se verrete (e verrete), ne vedrete delle belle!

Se intanto volete rinfrescarvi le idee su cos'è una creazione collettiva e copyleft, fatevi un giro su questo blog e fate circolare questa piccola perla fatta da alcuni giovani videomaker di Rolo: Al Siuròt.

Inoltre, sempre a Filo Intermentale, saranno esposte le fotografie di Sara Bonezzi, che per chi non se lo ricordasse, è colei che ha immortalato la nostra prima volta con le mondine. E già solo per questo, merita tutta la nostra adorazione.

E se non fosse abbastanza, ci sarà pure uno spazio per il BookCrossing. Non so voi, ma io ho una copia di Brida di Paulo Coelho che i soliti disinformati parenti di n-grado mi hanno recapitato qualche natale fa, ancora incelofanata. Trovare qualcosa di meglio in cambio da portarmi a casa è facile quanto buscarmi una broncopolmonite uscendo fuori adesso all'aria, in mutande e maglietta, ingannato da questo sole marzolino.

giovedì 21 marzo 2013

Arrosticini sciolti

[Avevo chiesto ai due massimi poeti contemporanei viventi, che sono, in ordine alfabetico, Azael e Guido Catalano, di scambiarsi due poesie e di commentarsele incrociati, ché oggi sarebbe stata la Giornata Mondiale della Poesia. Loro, che son poeti, ma poeti per davvero, ed eran lì a poetar tranquilli prima che li disturbassi, hanno risposto, gentilmente, e ragionevolmente, come segue.]

- Azael -

Commentare una poesia del MAESTRONE (che saluto con caloroso e virile abbraccio e rimando a solenne magnata di arrosticini aprutini) è troppo per me che sono scribacchino, e mi vergogno anche un po' a pensare di far commentare una mia poesiolla a lui. Perciò parafrasi e commento non riesco, ti lascio invece una nota a margine che avevo preparato l'anno scorso, quando mi è capitato di leggere una sua poesia a Torino.
La poesia è Grazie Martina che mi, una delle mie preferite e una delle più belle della letteratura mondiale degli ultimi seicentomila anni e porto due:

Grazie Martina che mi

poi non è andato più avanti

ero in un treno per andare nella lontana Brianza
pieno zeppo di pendolari
studenti e lavoratori
maschi e femmine
erano le sei della sera
stavo in piedi

i pendolari dentro i treni delle sei della sera
hanno occhi spenti e guardano nel vuoto
non parlano
sembrano tristi
giuro su dio che sono tristi
e sono stanchi

pensano
ma non so cosa
lo immagino
ma non ve lo dirò

i treni dei pendolari delle sei della sera
sono stretti e scomodi
e c’è poco posto
è fatto apposta

io ero nel vano
non so come si chiama
lo chiamo vano

appiccicata al muro
i treni hanno muri?
no, pareti
appiccicata alla parete c’era una cartina con tutte le linee
del Servizio Ferroviario Regionale – Regione Lombardia
e in mezzo alla cartina qualcuno aveva scritto:
“Grazie Martina che mi”

nel treno della tristezza
che porta i pendolari e le pendolaresse
dalla metropoli
ai paesi
stracchi, l’umore sotto al culo

qualcuno ha scritto grazie a Martina che gli
che l’ha
che lo
non so

t’immagino bella Martina
tutta ricciolina
e il tuo innamorato
di cui non sappiamo nulla
non è riuscito
a dirci
che l’hai?
che gli?
che lo?

cos’è successo?
l’hanno arrestato forse nell’atto?
la polizia ferroviaria l’ha colto col pennarello in mano?

dov’è finito, Martina?
l’hanno rinchiuso nelle segrete di qualche carcere brianzolo
e lo stanno torturando per sapere perché ti ringraziava?
e di cosa?
che gli hai fatto Martina?
Martina che gli hai dato?
che gli hai detto?

non ve lo dirà mai
e voi manco lo capireste

o forse è tutto più semplice
meno avventuroso
forse mi son fatto trasportare dalla fantasia
per ammazzare il tedio

forse Martina
il tuo moroso
non ha trovato le parole
e basta
e alla fin fin fine
in quel vuoto

ci sta un sacco di bella roba
La nota è questa qui, per qualsiasi uso tu voglia farne, o solo come piccolo omaggio a Guido, a Martina e al suo moroso:

In quel vuoto ci sta un sacco di bella roba. C’è Martina che era scesa dal treno, qualche stazione prima, e il suo moroso ha aspettato che scendesse, perché si vergognava di scriverle a spatascio. C’è il moroso che la ringraziava, ma per quella cosa lì, quella che per Martina era una sciocchezza e che invece per lui no, e allora ha lasciato perdere di scriverla, a metà. C’è Martina che l’ha, quando lui ormai non ci sperava più e allora lui s’è messo lì, a ringraziarla, come un di più. E sì che invece non è una roba da dover dare dei ringraziamenti, c’è gente che la, che lo, tutti i giorni, in ogni tristissimo regionale Trenitalia, e nessuno dà dei premi, o delle pacche sulle spalle, per questo. C’è il suo moroso che, dopo aver rimesso nella tasca del giubbino il pennarello, ha riletto per qualche secondo quella cosa, lì come uno taglio sul tabellone, e ha pensato va là che testa di cazzo, innamorarsi in movimento. C’è Martina che la mattina dopo è risalita a Chivasso e ha letto quella roba e ha pensato chissà per chi è, e che vuol dire, e poi e passata oltre. C’è il suo moroso, che moroso non è mai stato, che ogni tanto ripensa a tutte le scritte lasciate in quello e in altri treni, grazie Martina che mi, ti prego Martina dimmi che, va bene Martina ma non, fanculo Martina però. C’è Martina che in fin dei conti è un treno pure lei, e tutt’intorno ha pareti, non ha muri, né alberi infiniti, e le pareti si muovono veloci, si appoggiano per 3 minuti alle stazioni e la gente ci appiccica due sguardi sconsolati di trasbordo. Ci sono i pendolari che ancora guardano nel vuoto e per la tristezza spaventosa di aver sbagliato vuoto hanno scambiato gli occhi con dei tappi zigrinati di acqua minerale. Ci sono quei due seduti di fronte che quel vuoto l’hanno arredato e a loro, santi e papi di un’altra chiesa, sta bene così. C’è lui che il resto l’ha scritto su un foglietto e l’ha buttato vicino alla tazza del cesso, e chi l’ha raccolto ancora si chiede dov’è-com’è che è esplosa tutta quella baraonda di antigienica felicità, e perché. C’è Martina che il finale ce l’ha messo a baci piccoli e a occhi di contentezza, come le poesie che finiscono col trucco. C’è Martina che invece non ne sa niente, e lui che avrebbe voluto dirglielo per bene, con un deragliamento nucleare di vagoni, ma se la frase la finisci poi dopo è solo letteratura. E la letteratura è per il dopo, quando il treno arriva da qualche parte in Brianza e il concerto dei nervi del corpo, come per pudore, smette di.

ciao belli
Massimo

- Guido Catalano -

ciao amici
leggo il tutto orora e la cosa mi sembra una bella idea senonchè il tempo mi è nemico.
e intanto, massimo, ti ringrazio per la nota che più che una nota è un bel pezzo che mi piace assai e assai amerei di mangiare gli arrosticini con te e magari battere il mio record passato che era tipo di 45 circa arrosticini e dunque il tempo stringe e son giorni di fuoco con tutto che io quando c'è 'sto minchia di giorno della poesia io mi sento un poco come quelle donne che dicono: echeccazzo è 'sto giorno della donna siamo mica una specie protetta! e tutti gli altri 364 giorni?
io queste feste tipo giorno della donna, giorno della poesia mondiale, giorno dell'arrosticino non ci credo molto.
gli arrosticini andrebbero mangiati tutti i giorni.
anche più volte al giorno.
la poesia andrebbe festeggiata tutti i giorni e così le femmine.
e poi io odio i poeti, esclusi i presenti, me incluso.

vi bacio tutti e vado a bermi il tè bancha che mi fa pisciare tantissimo.
g

venerdì 15 marzo 2013

Trucchi della borghesia (82)

I diritti di prevendita.

(Questa cosa che uno prende i biglietti per uno spettacolo molto prima dello spettacolo e deve pagare di più degli altri, mah, secondo me è esattamente il contrario di come dovrebbe essere.)

giovedì 14 marzo 2013

Blu

Quella mattina m’ero svegliato presto, era una domenica, dovevo andare a casa dei miei genitori che mi avevano preparato una bella torta di compleanno perché era il sette di febbraio e io diventavo per la prima volta trentunenne. Tutto contento, mi son fatto una doccia, mi sono vestito, ho detto alla mia signora «Dai, che andiamo, che siamo sempre in ritardo» e, mentre lo dicevo, m’è arrivata una lama tipo coltello di Rambo nel fianco sinistro.
Mi sono piegato in due sul pavimento.

Dopo due ore ero passato dal pavimento al letto, con questa fitta persistente, non sinusoidale come gli altri dolori a cui ero più o meno abituato, che rischiava di farmi perdere la ragione. La guardia medica, prontamente telefonata dalla mia signora allarmata, mi aveva detto che forse era mal di stomaco (mal di stomaco nel fianco sinistro?) e mi aveva consigliato di imbottirmi di Buscopan. Imbottito di Buscopan stavo lì sul letto con le lacrime agli occhi, a urlare il mio dolore al mondo e alla guardia medica.
«Devi portarmi al Pronto Soccorso, Cate» ho detto rantolando alla mia signora. «Oddio, vaccaboia, sul serio?» ha risposto lei, che aveva una settimana di patente sulle spalle e guidare aveva guidato solo con l’istruttore e con me, pochino pochino, e comunque senza mai trovarsi nella situazione di dover prendere delle decisioni in quel magma d’asfalto e lamiere che è la vita della strada. Ha preso fiato, si è fatta coraggio e «Va bene, dai, andiamo,» mi ha detto. Così, pian pianino, un passo alla volta, abbiamo fatto le cinque rampe di scale verso il portone e i cinquecento metri verso la macchina parcheggiata.

Io non lo so, cosa succede in queste situazioni, ma quando dicono che le persone in situazioni di pericolo hanno delle reazioni spettacolari, come le mamme che sollevano le automobili a mani nude perché sotto ci è rimasto il figlio e cose così, io ci credevo fino a un certo punto. Adesso invece ci credo davvero, ci credo da quando ho visto la mia signora, con una settimana timorosa di patente sulle spalle, diventare una specie di pirata della strada, bruciare i semafori col clacson pigiato, prendere le rotonde senza toccare il freno e imprecando contro gli altri automobilisti aventi diritto di precedenza, poi parcheggiare in linea sulla sinistra nello spazio esatto a meno di qualche millimetro per una Punto tra altre due macchine, con una manovra da manuale dopo essersi fermata quattro secondi in mezzo alla strada e aver detto guardando Dio cose come «Un parcheggio a sinistra, cazzo, non l’ho mai fatto… Vaffanculo, male che vada, gli vado addosso.»

Eccoci quindi al Pronto Soccorso. Entriamo d’urgenza, codice rosso, la dottoressa tira fuori un ago gigante (sono un agofobico, puoi mettermi una tarantola viva in mano che non faccio una piega, ma se vedo un ago mi metto a correre fortissimo nella direzione opposta alla persona che lo brandisce), me lo mette davanti agli occhi e mi dice «Devo prenderti del sangue.» Le rispondo a gesti, tirando su la manica sinistra e porgendogli il braccio con un «Faccia presto, la prego.» Poi piscio in un bicchiere di carta e la dottoressa ci mette dentro una specie di reagente, agita un pochino e sentenzia: «Colica renale.»
E subito dopo: «Fa male, vero? È uno dei dolori più forti che ci siano. Pensa, Marco, sei fortunato, hai il privilegio, da uomo, di sperimentare i dolori del parto.»
Giuro. Ha detto così. Grazie tante dell'informazione, avrei voluto dirle, ma ero troppo tramortito per mandarla a cagare. Volevo solo che m’infilasse nel braccio un altro ago, quello della flebo di soluzione salina che, mi assicurava la dottoressa, mi avrebbe fatto passare tutto in mezz’ora abbondante.
E così è stato. E, questa volta con tutta la calma del mondo, siamo tornati verso casa.

Prima di tornare a casa, però, mi avevano anche fatto un’ecografia. C’è un simpaticissimo calcolo di quattro millimetri nel rene sinistro. «Troppo grande per uscire da solo per il condotto urinario; troppo piccolo per un’operazione o un bombardamento.»
«Te lo devi tenere,» dice la dottoressa del Pronto Soccorso che ormai venero religiosamente.
E niente, deglutisco e me lo tengo.

Il giorno dopo, vado dal mio medico di base e lui mi prescrive del Toradol per i futuri attacchi. «Non più di dieci gocce quando inizia l’attacco, non meno. Quattro volte al giorno al massimo. Ti prescriverei della Morfina, che è meno tossica per l’organismo, ma poi ci sarebbero altri problemi e, insomma, fai il bravo,» mi dice il dottore, «mi raccomando.»
Mentre la mia signora mi riporta a casa (prendendo anche una multa per aver parcheggiato in divieto di sosta) leggo il bugiardino del Toradol a voce alta. Così a prima vista, sembra uno script del giovane Tarantino.

Nei quattro giorni successivi va tutto a gonfie vele, non ho mai più di quattro attacchi al dì e quindi sono in linea col numero di goccine di Toradol prescritte, gli attacchi diminuiscono via via d’intensità e io riprendo a sorridere alla vita. Dopo ogni dose di Toradol, tempo dieci minuti e cado nel più profondo e pacifico dei sonni. Faccio tantissimi sogni e sono tutti coloratissimi, avventure all’inizio degli arcobaleni, piccoli mini pony della felicità prima del risveglio, qualche ora dopo, senza più l'ombra del dolore. Una resurrezione, ogni volta.
Tutto molto bene, insomma.
Tutto molto bene fino al pomeriggio del quarto giorno… quando… eccolo. L’attacco. L’attacco supremo. L'onda d'urto degli attacchi precedenti. Il coltello di Rambo infilato nel fianco che gira e rigira nella carne. Le urla, il delirium. Urla che vengono ascoltate soltanto da una gatta e da un cagnetto di piccola taglia perché, orrore e panico, la mia signora non c’è, sta lavorando, non può darmi le goccine di Toradol e farmi tante coccole mentre m'addormento e l’attacco sparisce. Non so cosa fare. Chiedo aiuto agli animali domestici che mi guardano disarmati.

Mi faccio forza e procedo gattoni fino alla cucina dove riempio un bicchiere con dell’acqua del rubinetto. Poi striscio per casa e raggiungo l’armadietto dei medicinali, tiro fuori il Toradol, rileggo il bugiardino per sicurezza, riempio la pompetta attaccata al tappo e la metto in verticale sul bicchiere.
Prima goccina, seconda goccina, terza goccina, quarta goccina.
Chiudo gli occhi per il dolore, quinta goccina, faccio un gridolino, sesta goccina, settima goccina.
Il cagnetto di piccola taglia, impietosito, viene a leccarmi il viso e…
A quante goccine ero?
Vacca d'un cane. Quante goccine mancano?
Tre? Quattro? Due?
Mentre sto cercando di ricomporre un pensiero cosciente, le dita stringono la pompetta e tutto il liquido tossico che c’era dentro finisce nel bicchiere.
Subito penso di buttar via tutto, riempire di nuovo il bicchiere e riprovare, ma sto troppo male, troppo. E senza accorgermene, sto già bevendo. Poi…

Poi, niente. Il dolore sparisce, così, all’improvviso.
Mi rialzo e rido come un matto. Esulto. Decido che sto così bene che voglio portare a spasso il cane, allora mi metto il cappotto, attacco il guinzaglio e via, vieni Raskolnikov (si chiama così), andiamo fuori a fare un giro, che la vita è bella. Alé.
Scendo in Corso Alberto Pio e la gente è tutta cordiale, mi saluta il barista del mio bar e io gli sorrido, mi salutano gli altri padroni degli altri cani, e io lascio che i nostri animaletti s’annusino festanti i deretani, vado verso Piazza Martiri e c’è un bel sole, i vecchietti sulla panchina stanno giocando a scacchi, le biciclette zigzagano contente, Raskolnikov fa le sue pisciatine sui pali e sui piloni e tutto è tranquillo, tutto è perfetto.

Tutto perfetto a parte un piccolo particolare: è tutto BLU.
La gente, è blu. I cani, son blu. Le case, blu. Le strade, il barista, i vecchietti che giocano a scacchi, la piazza. Tutto blu. Di un bel blu elettrico e acceso tipo Windows XP.
Le mie mani sono blu. Raskolnikov ha il pelo blu e piscia su dei piloni blu con della pipì blu.
Veh che strano, mi viene subito da pensare. Chissà com'è che è tutto blu.

Mi risveglio quattro ore dopo e sono sul letto in posizione fetale. Un filo di bava mi scende dall'angolo della bocca affondata nel cuscino. La gatta mi dorme ai piedi e il cane di fianco. Sento che la porta si apre ed è la mia signora che torna dal lavoro.
Accendo la luce e le cose hanno il colore che devono avere le cose, e solo le cose normalmente blu adesso sono blu. Respiro.
Da quel giorno non ho più avuto altri attacchi. Nessun coltello di Rambo è più venuto a rigirarmisi nel fianco. E la vita è ricominciata, coi suoi alti e i suoi bassi, proprio come me la ricordavo.

E questa è la storia delle mie coliche renali.
Oggi è la Giornata Mondiale del Rene e io la festeggio con due litri abbondanti di acqua del rubinetto.

***

(Per il resto, è andata a finire che il calcolo di quattro millimetri è rimasto fermo lì nel rene sinistro per un anno e mezzo, poi un bel mattino ha deciso autonomamente di uscire passando per il pistolino, insieme a dell’urina e a qualche schizzo di sangue, ma niente di preoccupante, a parte la sensazione strana di pisciare un sasso e sentirne il “ting!” sulla parete dello water macchiata di rosso; dal giorno dell'attacco e del Grande Sogno Blu bevo sempre tanta acqua e faccio sempre tanta plin-plin, che fa bene alla salute anche in generale; il Toradol ho dovuto nasconderlo per evitare che la mia signora ne facesse un uso sconsiderato una volta al mese quando è in preda alla sua cara amica dismenorrea; adesso sono fortunato perché conosco i dolori del parto e per questo se avremo mai un figlio, sarà la mia signora a dirmi quando vuole averlo, sarà lei a dirmi «sono pronta, via!» e io procederò di conseguenza e sarò sempre al suo servizio, visto che sarà lei a dover patire da sola il dolore dei dolori; la mia signora, tra l’altro, adesso, guida che è uno spettacolo.)

Avventure di un utente del Servizio Sanitario Nazionale

[Oggi è la Giornata Mondiale del Rene e il buon Giampaolo Bonora “oasi” ci ha mandato questa storia]

La colica renale è un male da bestia, lo sanno tutti. Io non lo sapevo, l'ho imparato tutto d'un colpo. Quel nome lì, colica, non gli davo peso, non sembrava mica un cosa così brutta. L'ultima volta che mi era capitato ero un bambino. Cussél fàat? chiedeva mio nonno. L'à tràt vìi, rispondeva mia nonna. Al dottore si diceva: “Ha fatto una colica”.

Quando mi ha preso la colica renale non ero preparato, non pensavo che si potesse stare tanto male. Era già notte, ero a casa da solo, in casa non avevo niente di forte per far passare il dolore. Mi dissi, provo a far venir mattina. Ma a letto non riuscivo a stare. In piedi non riuscivo a stare. Chinato non riuscivo a stare. Rannicchiato, non riuscivo a stare. Per me, il peggio della colica renale non è tanto il dolore, che pure è fortissimo, ma il fatto che ti inibisce perfino una difesa simbolica. Che so, premere sulla parte dolorante: niente, davanti ci sono le ossa. O raggomitolarti in posizione fetale: niente, viene da dentro, troppo dentro, proprio in mezzo al corpo, non c'è un muscolo, lì vicino, non c'è una contrazione volontaria che allevia il dolore anche solo per un momento, non c'è interruzione, non c'è distrazione. Sei indifeso, non puoi far niente, tutto quello che ti arriva te lo becchi. Per ore.
Quella volta, verso mattina mi decisi ad andare al pronto soccorso, era la prima volta. Mi misero la flebo di Orudis, mi fecero la lastra: c'era un calcolo, grosso, quasi certamente da operare, per il momento c'era poco da fare se non bere, bere, bere. Intanto, doveva passare l'infiammazione.

Sarà perché non ho mai avuto niente di veramente serio, sarà perché mio padre faceva l'impiegato della mutua e per lui un servizio sanitario pubblico era la cosa che rendeva civile un paese, io della sanità pubblica mi sono sempre fidato. Quando Agnelli si ruppe una gamba a sciare e lo portarono all'ospedale pubblico di Torino, e lo misero in stanza con un operaio, e disse che era contento dei medici, ecco, magari erano tutte balle, ma mio padre si sentì come se alle Olimpiadi avessimo preso più medaglie degli americani. Poi non so, magari il giorno dopo Agnelli comprò l'ospedale e lo fece demolire, però quella cosa lì me la ricordo ancora.
Insomma, passata la colica non avevo troppi problemi a farmi operare.

Piuttosto, come si operano i calcoli? Vox populi diceva che “si bombardano”, non è molto tranquillizzante farsi bombardare. Altrimenti, diceva il mio medico, adesso con la chirurgia endoscopica siamo molto avanti. Anche farsi mettere dei tubi e una telecamera su per l'uccello non è molto tranquillizzante. Ma io della sanità pubblica mi fidavo.
Il percorso di accompagnamento all'intervento era ben progettato, si potrebbe dire friendly: c'è lo specialista che valuta dov'è il calcolo, quanto è grande e tutto il resto, discuti un po' per capire qual è il sistema migliore per intervenire, ti mettono nella lista d'attesa non proprio urgente ma quasi, intanto bere bere bere, dopo poco ti chiamano, ti mandano dall'anestesista che comincia a scrivere sulla cartella e ti dà appuntamento dopo un paio di giorni.
Così mi compro un pigiama nuovo, mi porto “Memorie di Adriano” della Yourcenar e “Narratori delle pianure” di Celati, entro e mi metto ad aspettare. Che bella cosa la sanità pubblica. Non ho paura, proprio per niente.
La mattina dopo mi vengono a prendere, mi danno il beverone di Valium, mi fanno l'iniezione nella schiena, non sentirà più le gambe, mi dicono, non si preoccupi. Il chirurgo è giovane e affabile, mi spiega qualcosa. Io sono interessato a quel che succede, mi sto quasi divertendo, faccio qualche domanda, mettono perfino il monitor in modo che lo possa vedere anch'io. Per un attimo ho il terrore che sul monitor compaia Alberto Angela a commentare dal vivo, ma mi ripiglio subito, è il chirurgo che mi parla:
Eccolo lì il calcolo, vede? Ho già introdotto la camera e la pinza, adesso la spingo lì vicino...”
Be', non sento niente, non pensiamo al traffico lì sotto, di là dal telo verde.
Ecco, adesso lo devo afferrare... no... così non ci riesco... riproviamo
Decisamente meglio di Quark, c'è anche la suspence. Non so cosa mi hanno dato, ma mi sto divertendo.
Oooh, così! ecco, ora lo porto fuori... oh mannaggia...”
Eh sì, ho visto anch'io, il calcolo si è rotto in due o tre pezzi più qualche frammento.
Niente di preoccupante, adesso i frammenti grossi li prendiamo uno per uno, quelli piccoli poi li espellerà.” Bere bere bere, la so già, però comincia a venirmi il dubbio che quella pinza che si agita là dentro qualche segno lo lascerà. Il chirurgo lavora, non è più molto loquace, non voglio rovinargli la concentrazione. Rinuncio a fare il paziente collaborativo, faccio fatica anche a essere paziente.
Prevedo un notevole mal di pancia al risveglio dall'anestesia. Chiedo conferma. Confermano.
Fosse solo quello. Piscio sangue per due giorni. Mi tengono lì un giorno in più.
Finisco tutti e due i libri, ma non è che me li ricordi molto bene.

Comunque poi mi sono ripreso, nel giro di poco là sotto tutto è tornato in ordine.
Non troppo male, via. In confronto a dopo.
Perché alla ecografia di controllo andava tutto bene, nei reni non c'erano altri calcoli, ma buttano un occhio più in là e vedono calcoli alla colecisti. Chissà da quanto sono lì.
Tergiverso un po', perché non mi dànno poi un gran fastidio, ma a un certo punto è meglio operare. Anche qui c'è da scegliere: taglio o laparoscopia (i tre forellini, insomma, e la colecisti si sfila da uno). Anche qui sono indirizzato verso la soluzione più moderna e tecnologica, così i chirurghi giovani fanno esperienza. Accetto, è meglio anche per me. Anche qui finisce che c'è da trafficare più del previsto, alla fine ce la fanno senza addormentarmi del tutto e passare al bisturi, ma non ricuciono abbastanza uno dei tre forellini, dopo un po' lì si forma un'ernia.
Di nuovo dentro a rattoppare.
Non faccio sport, agli addominali non ci ho mai tenuto, però dopo, per un paio d'anni mi sono sentito tirare la pancia tutte le volte che chiamavo in causa quei muscoli lì. Il fastidio mi ha dissuaso ancora di più dall'andare in palestra, per esempio. Così sono un po' ingrassato, ma da una parte sola perché l'altra metà me l'hanno tirata di più per sistemare la plastica lì sotto.

Dalla colica renale sono passati quattro o cinque anni: il degrado della sanità pubblica me lo si legge sulla pancia.

mercoledì 13 marzo 2013

Accademia della Semola: A(u)reola

L'ultima volta che ho visto un'aureola era su un inserto domenicale di un giornale che non sarà proprio di sinistra ma gli inserti domenicali li fa proprio bene. Che fosse un'aureola c'ho impiegato un po' a focalizzarlo. Ho subito visto solo un limone aperto a metà e piazzato dietro una testa.
Poi, dopo, ho capito che era un'aureola.
Ho visualizzato la parola e, reduce dei miei lungimiranti (a livello professional-proficuo) studi filologici, mi son chiesto perché questa au di aureola non si sia tramutata in o come la o di oro (che deriva da aurum).
Anche perché non c'è cosa più vicina nella lingua e forse più dissacrante per la chiesa di un'aureola che diventa, sopratutto se detta di fretta, un'areola.
Fateci caso, potete giurare, in tutta coscienza e sulla vostra testa, che tutte le volte che avete sentito la parola aureola non abbiate in realtà sentito areola? meno di mezzo secondo d'incertezza e l'avete automaticamente ricollocata nel campo semantico consono alla situazione che stavate affrontando. Ma non ne siete sicuri, vero?
Ora io, per questa cosa, non riesco più a guardare i santini senza immaginarmi i santi sofferenti, meditanti, autoflagellanti, imploranti o miracolanti, se non circonfusi da gigantesche areole rosate, o brunite color caffelatte, sullo sfondo.
Anzi sarebbe molto bello se, invece dei classici pezzi di nastro isolante nero messi a ics, qualche lungimirante casa di produzione hard coprisse le suddette parti con testine di santi illustri.
Forse però sarebbe un filino blasfemo.
Ma sicuro è tutta roba di Madre Natura.

E buon conclave!

martedì 12 marzo 2013

Filo intermentale

A Rolo, in provincia di Reggio Emilia, natìo borgo selvaggio del signor Iules Manicardi, tutti gli anni si faceva un festival molto bello chiamato Rock In Rolo. Copincollo dal comunicato stampa:
Rimandato Rock in Rolo Festival 2012 a causa del sisma che ha colpito la nostra zona, non abbiamo voluto rinunciare agli appuntamenti che avevamo concepito come eventi collaterali.
Per iniziare al meglio l'anno nuovo, abbiamo pensato di riproporli all’interno di una rassegna intitolata “Filo Intermentale”, ospitata nella Sala delle Arti dello spazio polivalente Jolly e rivolta a tutta la cittadinanza, per aprire e stimolare un dibattito costruttivo sui temi di attualità che hanno riguardato da vicino la nostra realtà.
Uno degli appuntamenti della rassegna, quello sui Creative Commons che si terrà il 24 marzo, prevede la presenza al tavolo degli esperti di ben tre barabbisti, e si svolgerà più o meno come segue:
  • 17.00: Introduzione ai concetti di Copyleft e Creative Commons | Marco Gallorini, presidente Copyleft Festival
  • 17.30: cc nella musica | Gabriele Malavasi detto Capra, dei Gazebo Penguins
  • 18.00: cc nella letteratura e nell’editoria | Marco Manicardi + Luca Zirondoli, Barabba Edizioni
  • 18.30: Domande e Tavola Rotonda | Modera Marco Gallorini
  • A seguire: Buffet + CAPRA [Gazebo Penguins] in concerto acustico
Questo è il volantino, se volete spammarlo un po' in giro.

Ecco, se venite, capra sarà sicuramente interessantissimo da ascoltare. Io e il Dulinizo, mah, qualcosa c'inventeremo. (Ci saranno anche delle letture, probabilmente. Poi vediamo.)

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Update di rettifica: capra dice che dopo non suona. Tuttavia, ciò che importa è il buffet.

lunedì 11 marzo 2013

In Russia c'è da morir dal ridere (8)

Dopo aver scritto una lettera che diceva:
A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol'dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un'esistenza decorosa, ti ringrazio. [...] Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici.
Vladimir Vladimirovič si sparò un colpo al cuore nella sua stanzetta di una kommunalka di Mosca, al quarto piano di un palazzo di fronte alla vecchia sede della Lubjanka, appena fuori dalla metropolitana alla fermata Lubjanka – che è un nome, Lubjanka, che lo senti pronunciare a volume basso anche dalla voce registrata che annuncia le fermate della metro.
Comunque, la stanzetta in cui si sparò Vladimir Vladimirovič, dicono, è rimasta proprio com'era, col piccolo ritratto di Vladimir Il'ič sullo scrittorio, la seggiolina sotto la finestra, i libri ordinati nella libreria, le tovagliette sbiadite, la polvere sul divano; avranno solo pulito il sangue, vien da pensare, perché quando ci siamo passati davanti – non si può mica entrare, c'è un cordoncino sulla porta, piccolo, rosso, rispettoso; ci si può giusto infilare la testa – era tutta in ordine. Fuori dal portone principale c'è ancora la targhetta con il nome.

La stanzetta in cui Vladimir Vladimirovič si sparò un colpo al cuore, un bel giorno di metà aprile del 1930, è una delle prime cose che si incontrano nella visita al palazzo, e subito verrebbe anche da dire: veh che stanzetta normale.
Che è un pensiero giusto, se non si considera che il resto della casa di Vladimir Vladimirovič, dal 1989, han deciso di allestirla così.

sabato 9 marzo 2013

Biografie essenziali (150)

Il tesoro del bigatto, quando l'ho letto in seconda media, m'ha svelato in che terre meravigliose vivevo e mi ha anche spiegato che mille anni fa dalle nostre parti si aggiravano esseri fantastici. Molti di loro si sono estinti ma una specie resiste ancora, si chiamano Papa.

venerdì 8 marzo 2013

giovedì 7 marzo 2013

In Russia c'è da morir dal ridere (7)

Questa è la stanzetta in cui Dostoevskij scrisse I fratelli Karamazov.
La foto è molto mossa, per due motivi.
Primo: mi tremavano le mani per l'emozione. Sembra una cazzata, ma trovatici te davanti a una stanza così.
Secondo: non si potevano fare le foto. Cioè: si potevano fare, ma bisognava pagare un supplemento. Pagando il supplemento, ti mettevano un braccialetto oppure ti appendevano un badge al collo e quello stava a significare che potevi fotografare quasi tutto quello che c'era in casa di Dostoevskij, l'unica casa di Dostoevskij visitabile delle venti e passa case di Dostoevskij in giro per San Pietroburgo, anche se su tutte c'è almeno una targa che dice che Dostoevskij è stato lì. Un po' come Garibaldi da noi.
Comunque, non si potevano fare le foto, allora ho messo il telefonino dietro a una guida di carta che ho trovato all'ingresso, ho tolto i suoni e, fingendo di leggere, con il libretto davanti alla faccia e lo sguardo interessato alle corrispondenze tra le foto della stanza sulla guida e la stanza lì davanti agli occhi, un po' alla cieca, ho scattato. Solo che, in quel momento lì, mentre il dito pigiava sul pulsante, diobono, ho sentito un OH, TE, COSA FAI? gridato in russo, che forse non era proprio un OH, TE, COSA FAI? in lingua russa, ma il senso era quello lì: OH, TE, COSA FAI?
E ho preso paura.
Era la babushka di guardia alla stanzetta. Ho pensato subito: Vacca d'un cane, m'ha beccato.
Invece no, stava rimproverando un tizio di nazionalità indefinibile che mi stava di fianco, con la sua bella reflex col flash tutto spianato, senza né braccialetto né badge. Povero cristo.
Ché c'è poco da scherzare, in Russia, con le babushke.

lunedì 4 marzo 2013

Ricicciamenti: Lucio e Marco

Dal vivo non l’avevo mai visto. O meglio: non l’avevo mai visto suonare.
La prima volta che lo incontrai stava facendo un tiro libero dalla lunetta sinistra del Palapanini di Modena - chissà se si chiamava già Palapanini; e chissà se era il Palapanini, poi - e con quel tiro libero lì inaugurava una partita amichevole tra Italia e Stati Uniti; io ero molto piccolo, ci ero andato perché da piccolo mi piaceva da matti il basket americano e volevo vedere se i neri facevano davvero le schiacciate come in televisione.
L’ultima volta che lo incontrai era in braghette corte, scarpe da calcetto, una canotta viola di dubbio gusto, abbronzato come il carbone e biondo come un campo di grano, scendeva da un gippone con la scritta “Casa di Lucio” aerografata tra un disegno delle due torri e uno di San Petronio; il mio amico fumettista Klaus, suo fan, ha coronato il sogno di averlo a pochi centimetri di distanza per confrontarsi in altezza: Lucio era nettamente più basso, e Klaus, al suo cospetto, stava come Pazienza a Pertini.
E poi, niente, mi piacevano molte delle sue canzoni.
Anna e Marco è la mia preferita. Quando dice: con un’aria da commedia americana, sta finendo anche questa settimana.
Devo dire che mi dispiace molto.
Ciao Lucio.

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Ricicciamenti non è una rubrica. Ricicciamenti è un prodotto della crisi delle idee. Nei ricicciamenti si prende un vecchio post e lo si riciccia, cioè lo si riscrive o lo si mette a posto e lo si ripubblica. Magari in un'occasione speciale come questa, a un anno e qualche giorno di distanza da un anno e qualche giorno fa.

venerdì 1 marzo 2013

E si è anche mangiato bene

Per amor di completezza, tra una portata e l'altra, e un'intervista fattaci dal prode Klaus Augenthaler, questo è quello che abbiamo letto l'altra sera, mentre un drappello di venticinque o trenta persone (nessuna delle quali, incredibilmente, nostra parente) pasteggiava allegramente insieme a noi: E tutto è stato molto buono, divertente e molto bello. L'apogeo della serata è arrivato verso la fine, quando il signor barista è venuto da noi dicendoci: «la biografia di Ravi Shankar che avete letto...» cioè questa:
Ravi Shankar, quand'era a Monterey, nel '67, o forse era a Woodstock, nel '69, è salito sul palco, ha preso il suo sitar e senza dir niente ha cominciato:
pliuiuauauuuuaaauuuuaaaiiiii, sdreeeeeeeiiiiaaiiiiiiuuuuuuuuuuuiaiuuu, gnioiooooiiiiiiiiiiiooooogniii,
e così via per dieci minuti buoni, un quarto d'ora, che la folla è andata nei matti e tutti applaudivano e gli gridavano bravo. Lui ha alzato gli occhi e ha pensato mah. Stava solo accordando.
«... oh, è tutto vero. Io c'ero.»

Sono grosse, grosse soddisfazioni.