martedì 26 febbraio 2013

A cena con Barabba

Nella stanza era incominciato a farsi buio ed egli si alzò per accendere un lume ad olio che pendeva dal soffitto basso. Poi andò a prendere del pane e del sale e li posò, fra loro due, sulla tavola; spezzò il pane e ne porse a Barabba; intinse il suo pezzo di pane nel sale e invitò l'altro a fare lo stesso. Barabba dovette farlo, sebbene sentisse che gli tremava la mano. Stettero in silenzio e mangiarono insieme nella luce fioca della lampada ad olio.
A quell'uomo ripugnava di mangiare in fratellanza con lui? Non era come i fratelli del vicolo dei Vasai, non faceva grande differenza tra l'uno e l'altro! Ma quando quelle dita secche e giallognole gli ebbero offerto il pane spezzato ed egli dovette mangiare, gli parve di sentirsi un sapor di cadavere in bocca.


(Pär Lagerkvist, Barabba; che nel brano è appena andato a trovare Lazzaro)
Il menu della serata senza Governo e senza Papa di domani sera, quando, vi ricordiamo, per trenta denari potete venire a cena con Barabba, ci han detto che sarà questo qui:
  • Antipasto di sapori del bosco, su crostino
  • Spaghetti alla chitarra del Carbonaro
  • Costine a doppia mandata con patata unica
  • Torte del momento
  • Lambrusco Lini 910
  • Sangiovese "Le case rosse"
  • Acqua, caffè, amari

Se siete dalle parti di Campogalliano (ma vi consigliamo di prenotare), dopo un weekend da elettori, potete passare, che forse è meglio, un mercoledì da lettori.

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Le cose da sapere:
prezzo fisso 30 euro - eh, oh - tutto compreso.
Info e prenotazioni: Biblioteca di Campogalliano, via Rubiera 1 - Tel.059/5261 biblio.campogalliano@cedoc.mo.it
www.comune.campogalliano.mo.it

lunedì 25 febbraio 2013

Come (prodromi di "Cuba al año siguiente")


Ci sono dei momenti che quando li ripensi, ti ci ritrovi completamente dentro, e ti chiedi come hai fatto a uscirne vivo. Anche perché la risposta a queste domande può sempre tornarti utile.
L'anno scorso, esattamente un anno fa eravamo appena tornati da Cuba.
Un giorno te lo racconterò tutto il viaggio, giurin giuretto, ma adesso è qualcos'altro che volevo raccontare.

Dopo i primi giorni a L'Avana (solo la descrizione degli spostamenti meriterebbe un capitolo a parte) scendiamo in direzione sud-ovest, a Viñales, piccolo paesino situato nel cuore della zona "montuosa" dell'isola, verso l'estremità che guarda al Messico. Il paesaggio qui ha poco di quel caraibico classico, anzi, è tutto verde, umido e boscoso. Viñales è circondata da Mogotes, montagne di formazione calcarea non molto alte ma certamente impervie, e da campi di tabacco a perdita d'occhio. Non c'è molto altro (anche se pure le piante di tabacco, dopo che le hai accarezzate, meriterebbero un poeta come García Lorca).

Dopo il primo giorno che, grazie a un meraviglioso bus a due piani scoperchiato, passerai guardando il paesino carino, con la piazzetta e la chiesetta carina (praticamente abbandonata), la strada che taglia in due la città e le varie attrazioni turistiche nei dintorni, come il murales più grande del mondo (è qui, sìsì, controllate pure, lo dice pure l'unesco, e ci sono pure i dinosauri dipinti sopra, che non avete idea le feste dei bimbi quando svoltato l'angolo, compariva il fianco della montagna e dentro la montagna, i dinosauri. In realtà dico così perché l'ho fatta io la faccia stupita, da o minuscola quando ho visto i colli giganteschi dei prontosauri spuntare da dietro uno spuntone di roccia), il secondo giorno sei già pronto per l'escursione nei dintorni, che è il vero piatto forte.

L'escursione. La persona che vi ospita, perché un'altra cosa bella di Cuba, non so se lo sapete, è andare a casa di gente che ha l'autorizzazione a ospitarvi, si chiamano casas particulares e vi ospiteranno facendovi conoscere il posto dove siete un po' più da insider (ma a volte è un rischio), con tipica (e abbondantissima) cucina cubane e cortesia infinita, vi chiederà quasi subito se siete intenzionati a fare un giretto nei paraggi di quattro- cinque, anche otto ore. La guida, gentiluomo fidatissimo del tuo oste, una volta concordato l'orario passerà a prendervi.
La seconda domanda del gentilissimo ospitante è: come vuoi fare l'escursione? la puoi fare a cavallo o a piedi.
A piedi costa meno e probabilmente non rischi di dover spiegare in uno spagnolo confuso che sei caduto da cavallo ma il piede s'è incastrato nella staffa e ti sei raschiato la faccia su qualche miglio di sterrato rosso.
Oltretutto camminare fa bene. Apprezzi meglio il paesaggio. Ti soffermi sulle piccole meraviglie. Respiri a pieni polmoni. Saluti e dici tre parole tre con i contadini, che lì la meccanizzazione ancora non ce l'hanno tanto, e quindi sono lì a zappare sotto il sole giaguaro (lì davvero giaguaro) dall'alba al tramonto. E poi c'è pure un ponticello di corde da attraversare per arrivare alla grotta con la cascata e le stalagmiti, e lì col cavallo non ci puoi mica andare. E nella grotta ci si poteva fare il bagno ma nessuno di noi aveva il costume e allora nisba, ci allontaniamo, mentre l'eco di tutti quei - plim! - delle gocce che cadono alle tue spalle sembrano sconsolati addii in risposta al tuo sicuro Tanto ritorno e la prossima volta ci faccio il bagno, ci faccio.
Ora stiamo prendendo la via del ritorno, ma per farvi vedere un albero bellissimo, maestoso e leggendario, la Ceiba, abbiamo preso una strada nuova e tocca fare una scorciatoia.
Tradotto: si esce dal sentiero e tocca passare per le piantagioni e per i prati.
Su un prato leggermente scosceso, mentre stiamo salendo sotto il sole che, ve lo ricordo, qui è giallo cedro, superata una piccola boscaglia, lo vedrete all'ultimo momento: il toro più grosso che abbia mai visto.
Nero, nerissimo. Come deve essere.
Grosso e grande, come non te lo ricordavi dalla Spagna o dagli allevamenti che hai visitato durante le gite nelle aziende alle superiori e nemmeno come te lo ha raccontato Hemingway in tutte le sue corride.
Per darti un'idea più precisa, sono alto quasi un metro e ottanta e gli arrivavo alla spalla, ma sopra la sua spalla c'era praticamente una nuvola di muscoli e il suo occhio era grosso come il mio pugno.
Tutti ammutoliti.
Fermi.
Respiriamo, ma solo perché i polmoni sono muscoli lisci.
Solo la guida, alla quale germoglia una piccola ruga in mezzo alla fronte, strappa uno stecco, inizia a ondeggiarlo come Zorro verso l'agglomerato di simmental non ancora lavorato e comincia a fare quei tipici versi e schioccamenti di bocca che faresti al tuo gatto quando vuoi dirgli di non pisciare dentro il vaso dei gerani.
Il toro ha pacificamente registrato la nostra presenza.
Ha sollevato la testa e tra i muscoli a forma di tubi da grondaia che si ritrova sul deltoide spunta una corda, che finisce alle sue spalle.
Vagamente rincuorati, azzardiamo qualche passo per aggirarlo, mentre la guida continua a sbuffare come se quel monolite di bovino fosse solo un cane che potrebbe scodinzolargli incontro e saltargli addosso per fargli le feste, scocciandolo e sporcandogli i pantaloni della domenica.
Nel piccolo tragitto per superarlo nessuno di noi stranieri guarda direttamente verso il novello Zeus dell'America latina ma non posso fare a meno di sbirciare dove finisce la corda che lo tiene al suo posto, nostro estremo baluardo.
La corda, già tesa quanto basta a una lavandaia per buttarci sopra i panni, è legata a una pertica, un bastoncino, più piccolo del polso di una ballerina. Che ondeggia, impercettibilmente. Anche se il toro è immobile, di pietra. Basta il vento a smuoverla.
E in quel momento, in un lampo, ho realizzato che l'unico di tutti e cinque che eravamo lì, ma forse anche di tutti quelli che abbiamo incontrato quel giorno, l'unico con la maglietta rossa, ero io.

Non c'entra molto, è passato un anno e chissà dov'è andato a finire il toro, la guida, i simpaticissimi compagni di viaggio e tutte le persone che abbiamo conosciuto, ma in questo periodo, facendo una analogia, io, con la mia vita, sono nella stessa situazione.

Quel friccicorino in cabina…

… e la paura di sbagliare, piegare le schede con cura.
Prima di entrare, fermarsi a guardare i tabelloni, cercando di non sostare troppo su una lista, ché non si facciano delle idee. Con la matita tiri una linea troppo lunga e arrivi quasi alla fine del quadrato, e hai paurissima di invalidarla. Fare quindi la ics pian pianino, precisa, attenta. Ripassarla due, tre volte, ché sembra sempre troppo sottile, o troppo chiara. Mettere da parte le schede, però non ci stanno, quindi controllare che mentre fai la ics non ce ne sia una sotto per sbaglio. Poi piegarla e metterla da parte. E via con la seconda. Magari hai anche le regionali, quindi scrivere per bene la preferenza. Non come le altre volte, che volevi scrivere un nome, e poi ti sei scordato.
Riaprire le schede, ricontrollare.
Sei dentro da troppo tempo? Si staranno chiedendo qualcosa? Il tempo dev'essere giusto, non devono pensare che sei arrivato impreparato, o che hai dei dubbi. E ogni volta vorresti uscire e chiedere brandendo ansiosamente la scheda: signorina me la controlli lei, ho fatto giusto? È valido?
E le vuoi mettere tu nell'urna. Ma lo sai che non potresti? Sì, lo sai, ma hai questo moto d'egoismo, così protettivo. Guardi la signorina presidente, sta scrivendo delle cose. Lo faccio? Non lo faccio? Lo fai. Controlli millemila volte i colori, trattieni la scheda a metà del foro, ricontrolli. La lasci andare. Respirare.
Dai che hai fatto anche tu lo scrutatore, cerca di essere preciso, la matita da restituire, e saluta con un sincero "Buon Lavoro".
Poi esci dal seggio con la profonda impressione di aver dimenticato qualcosa di importantissimo. Tutti questi drammi pre e post elezioni e vivi nel terrore di esserti annullato la scheda, come un coglione. Apri la tessera, guardi il timbro. E lo rifai due o tre volte, nel tragitto verso casa.
Mi spiegate perché una cosa che dovrebbe essere a prova di idiota nei fatti è pensata per far uscire esseri umani adulti e alfabetizzati col terrore di avere sbagliato?
Che roba buffa, la democrazia.

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Questo è una specie di post collettivo.
Musica.

domenica 24 febbraio 2013

venerdì 22 febbraio 2013

«Una casa editrice inesistente, che però esiste»

Se Barabba è Barabba come è adesso Barabba, è anche "colpa" di una persona che ha un nome e un cognome ma che ci piace chiamare col suo pseudonimo elettrico: la fatacarabina. È una storia che avevamo già raccontato.

La fatacarabina è una giornalista di mestiere e quindi una scrittrice. Con la casa editrice (esistente) Blonk aveva pubblicato l'anno scorso un librino digitale di racconti dal titolo Ottanta lettere, e adesso ci spiega delle cose durante la sua lezione al corso di scrittura creativa dedicato al racconto breve, organizzato da Cucina di storie e Il portolano allo Spazio Paraggi di Treviso.
Durante la lezione, quando parla della rete e delle cose collettive, parla di noi, di Barabba Edizioni e delle Schegge di Liberazione. E lo fa in un modo che vien voglia di prendere un treno per Venezia e andarla a ricoprire di baci.

Il video della lezione è qui. Dura un quarto d'ora.

giovedì 21 febbraio 2013

In Russia c'è da morir dal ridere (6)

Dieci minuti esatti dopo aver prenotato via internet due posti sul treno in terza classe per un viaggetto rilassante di diciotto ore da Mosca a Volgograd e altrettante per tornare indietro da Volgograd a Mosca, mi telefona la consum.it e mi dice che secondo loro devono bloccarmi la carta di credito, ché gli risulta una transazione di un centinaio di euro con le ferrovie russe.
«Tutto a posto, sono stato io.»
«Davvero?» Mi chiedono.
«Davvero.» Gli dico.
«Ah va bene. Allora scusi e arrivederci.»
Ma si sentiva che ci erano rimasti male.

***

«Ma cosa ci andate a fare a Volgograd?» Mi chiede esterrefatta la signorina della compagnia di viaggi mentre ci aiuta a fare il visto, ché di andare in ambasciata a Milano per due visti non avevamo né tempo né voglia e allora siamo andati in una agenzia.
«Be’,» le rispondo, «è Stalingrado.»
«Ah, siete i primi, in tanti anni.»
«C’è la statua umanoide più grande del mondo,» le dico (al netto dei Buddah cinesi, che però sono solo dei parallelepipedi con la testa, ma questo alla signorina della compagnia di viaggi non lo dico).
Prendo l’aicoso e le faccio vedere delle foto su internet della statuona di Mamaev Kurgan.
«Porca vacca.» Dice la signorina esterrefatta della compagnia di viaggi.

***

Quando siamo alla stazione Paveletskij di Mosca, cogli zainoni sulle spalle, vedo che la mia signora mi guarda e in testa ha le stesse due domande che girano nella mia: «Cosa stiamo facendo? Ma siamo matti?»
Dopo qualche minuto siamo già sul treno, non ci pensiamo più e siamo gasatissimi, mentre il paesaggio, fuori dai finestrini, dopo i palazzoni Chruščëviani a settordici piani della periferia di Mosca – e quando dico “periferia di Mosca” mi riferisco a un territorio che si fa fatica a spiegarne le dimensioni – diventa tutto di un verde sconfinato, con qualche villaggio di baracche sperso nel nulla, dei cimiteri piccolini che se hai letto Padri e figli di Turgenev son proprio quelli lì, con neanche una strada asfaltata, del gran pattume al limitare delle baracche, ma soprattutto steppe o praterie o, insomma, dei gran chilometri di niente a perdita d’occhio.

***

Sul treno, appena sentono che siamo stranieri – perché siamo gli unici stranieri sul treno, sia all’andata che al ritorno – ci chiedono da dove veniamo. I giovani ce lo chiedono in inglese, gli altri ce lo chiedono in russo che capiamo a gesti, perché dai quarant’anni in su l’inglese là non lo sa nessuno.
Quando rispondiamo che siamo «italianskij» ci guardano sempre con degli occhioni e ci domandano se hanno capito bene: «italianskij?»
«Da.» Rispondiamo noi.
E allora borbottano tra loro delle frasi in russo che, senza sapere il russo, ho proprio l’impressione che dicano «Mo pensa te.»
Poi sorridono e ci offrono dei cetrioli – i russi mangiano DAVVERO, continuamente, intere piantagioni di cetrioli, crudi o sott’olio – e dei filetti di pesce che tirano fuori dalla stagnola.

***

Sul treno del ritorno a Mosca, il tipo di fronte a noi, che abbiamo soprannominato “il fruttivendolo” visto che alla stazione di Volgograd è salito da solo con due cassette di pomodori e una di peperoni e le ha messe nello scaffale alto dove gli altri mettono le valigie, vedendo che tutti mangiavano qualcosa e noi ancora niente, semplicemente perché non avevamo fame, si è messo a ciappinare con un traduttore automatico del suo smartphone e ci chiedeva ogni dieci minuti «se posso fare qualcosa chiedi pure» e «voi non mangiato, fame?» e «pesce?» finché non abbiamo aperto un sacchetto di taralli volgogradesi e ci siamo messi a sgranocchiarli solo per placare la sua gentilezza esasperata. Lui, tutto contento, ha fatto tre segni della croce alla rovescia come fanno gli ortodossi e sorridendo si è messo a pasteggiare col suo cetriolo e il suo filetto di pesce tirato fuori dalla stagnola.

***

Prima di partire, le ferrovie russe mi avevano già iscritto volente o nolente alla loro newsletter, e in una c’era scritto così:
New York is famous for Broadway shows, Russia is famous for its opera and ballet. Its best theaters - the Bolshoi in Moscow, the Mariinsky and Mikhailovsky in Saint Petersburg - had been established by tsar families. Since then, it's become a tradition for every foreign leader visiting Russia to attend their performances.
Not all foreign visitors appreciate the high art. When Joseph Stalin took Mao Zedong to the Bolshoi, Mao left in the middle of the show & said that he didn't get it why people are dancing on their toes.
***

Per il resto, sono dei mesi che ho in testa di scrivere del viaggio di diciotto ore all’andata e diciannove al ritorno da Mosca a Volgograd e viceversa, in treno, in terza classe, senza dolore e senza spavento, ma niente, non mi viene bene.
Però ho trovato questo articolo di Paolo Simbolotti (o anche questo) e se lo leggete, e sorvolate sul Comic Sans, quello che c’è scritto è tutto vero.

mercoledì 20 febbraio 2013

A cena con Barabba

Non l'abbiamo fatto apposta.
Davvero.
Chiedete pure in giro.
Ma, tra una settimana esatta, il 27 febbraio 2013, abbiamo una cena.
O meglio, siamo ospiti "d'autore" a una cena.
Due giorni dopo il voto che cambierà l'Italia. Forse.
E il giorno prima delle dimissioni definitive di un papa. Queste invece sembra proprio sicuro.
Guarda te, dove ci siamo andati a ficcare.

La cena la facciamo  a Campogalliano (provincia di Modena), che per chi non lo sapesse, è paese zeppo di zone girevoli di situazionista memoria, di architetture discutibili, di orde di camion che passano la dogana e ci collegano con Zagabria, Vienna, Praga, e Bratislava, Budapest, Belgrado, e poi Tirana, Atene, Salonicco, fino a Istanbul , e con un meraviglioso museo della bilancia (Ogni volta che ci penso, al museo della bilancia, mi chiedo come mai John Woo non ci ha ancora girato una sparatoria con le sue immancabili colombe.)

Il menu ancora non lo conosciamo, ma ci hanno assicurato che sarà a tema col blog. Che è già una bella sfida. Non appena ce lo comunicano ve lo facciamo sapere.
Ci si potrà prenotare fino al giorno prima (crediamo, ma non sappiamo, telefonate).
Durante la serata allieteremo i convitati leggendo pezzi celebri e piccole rubriche alle quali siamo affezionati e allo stesso tempo racconteremo com'è nato Barabba, come si è evoluto e dove andrà a finire (forse), ovviamente svelando retroscena, storielle inedite e particolari piccanti (qui sto un po' inventando ma dobbiamo pur convincervi).

Operazione trasparenza: Anche se il prezzo per la serata non è modico, il socio e io non ci ricaveremo niente, solo una serata in compagnia, speriamo, di gente che ci vuol conoscere più da vicino. E sì, la cena stessa.
Ma poi siamo sempre e comunque meno costosi di quel Giuda.

Se volete gli autografi sul vostro ebook preferito del nostro catalogo, portatecelo, il socio tecnocrate mi conferma che possiamo firmarli.
Io però, per sicurezza, mi porto anche penna d'oca e calamaio.

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(Qui c'è il volantino con tutte le info che vi servono per arrivare a Campogalliano, spendere trenta denari e cenare con Barabba.)

martedì 19 febbraio 2013

Galline

La storia delle nostre galline è una storia cruenta. Una di quelle storie piene di sangue, e morti violente, e persone che piangono, e un gallo che pensavamo fosse una gallina che gira attorno a casa alle 5 di mattina urlando in cerca delle proprie compagne. Trucidate poche ore prima.

La storia delle nostre galline comincia con un cane. Il nostro: Gisella. Che le galline non le aveva mai incontrate. E nei primi giorni dopo il trasloco ha cominciato a girare un po’ lontano da casa, e scoprire le galline delle vicine (che comunque stanno a 600 metri da noi). È entrata nel pollaio della signora Alfa e ne ha fatte fuori due. Gisella dice che l’ha fatto per gioco. Ad Alfa abbiamo portato un po’ di roba da mangiare e l’abbiamo fatta patta. Ma il panico ogni volta che Gisella si allontanava ci rimase. A ragione. Un primo pomeriggio di un mese dopo, Gisella comincia ad abbaiare per segnalarci che qualcuno sta venendo verso casa nostra. Esco in cortile e vedo, all’inizio della stradina, una figura rattrappita, appoggiata a un bastone, esageratamente vestita per essere agosto. Gisella abbaia. La figura sembra ferma. Aspetto. Non mi pare si muova, mi pare che vibri, piuttosto. Rientro e metto su una moka. Esco, la figura forse si è spostata di un paio di metri. Il caffè fa in tempo a salire e io faccio in tempo a berlo che la figura è arrivata a metà strada. Agnese mi dice che secondo lei è la vicina. Non Alfa, l’altra. Gisella abbaia. E man mano che quella s’avvicina, Gisella abbaia sempre di più. Dopo altri 5 minuti mi decido ad andarle incontro, giusto per. Quando le sono a 10 metri, la vecchia alza il bastone in direzione del cane, e dice qualcosa che non mi è molto chiaro. Ha una voce di gola, impastata di lingua, il visto storto come se avesse preso delle botte fortissime sopra l’occhio destro, il collo infossato nelle spalle e perpendicolare al corpo, la faccia spunta in avanti a poco a poco come in un bassorilievo. Dice qualcosa del cane - desumo - e delle sue galline, e che dovremo tenerlo legato altrimenti… Altrimenti? Non capii, ma la bocca assunse una smorfia eloquente. Altrimenti lo avrebbe avvelenato. Poi si voltò, e per un altro quarto d’ora la guardai risalire. Il giorno dopo siamo voluti passare da casa della signora per capire meglio, ma ci siamo fermati sul vialetto d’ingresso: un tappeto di penne di galline ricopriva il suolo. Ok. Gisella andava addestrata. Contattammo un’amica di amici, di preciso una psicologa. Specializzata in etologia e relazione uomo-animale (uoah). Venne e ci insegnò un po’ di esercizi. Che applicammo con fervore. Al punto che eravamo così sereni e carichi da decidere di prendere le nostre galline.

Le galline non ci sono mai piaciute. Anzi. Ci facevano abbastanza schifo. Anzi, diciamocelo: le galline fanno abbastanza schifo. Però ci sembrava da sfigati stare in posto come il nostro e non avere galline. Ci immaginavamo i vecchi al bar di Samone: “E neanche una gallina!”, e giù a ridere. Ecco no. Da una tizia di Montepastore acquistiamo queste due galline che costavano quasi come uno scooter, ma erano state allevate con le mani della festa. Virna e Lisi. Però ci facevano schifo. Non le volevamo vicino a casa. Così abbiamo fatto il pollaio in una casa 200 metri più in alto, disabitata, per non averle tra le balle. E io costruii il mio primo recinto.

lunedì 18 febbraio 2013

La caduta di Michele Carboni

di Cristiano Micucci "Mix"

Ed eccolo, Michele Carboni, maschio italico di mole tutt'altro che indifferente, che vola dalle scale, diciotto gradini di porfido granitico con grado di durezza 6.3 della scala Mohs, impattando mai volontariamente con la parte del corpo più inadatta, almeno rispetto all'uso abituale.

Precipita con rumore di frollatura e frantumazione, Michele Carboni, abbronzato verace e di muscolatura eccellente, sebbene qua e là ipertrofica, perché gambe e braccia, che ora cozzano con violenza contro piani e spigoli, e anche il torso, sono frutto sì di un quotidiano sforzo lavorativo di carico e scarico, ma anche e soprattutto di un poco accorto sviluppo, di un tutoraggio deviato si direbbe, che si è comunque molto professionalmente limitato, partendo dagli alluci a salire, allo sternocleidomastoideo, e ha evitato con cura ogni illecita invasione nel campo, anche solo per posizione, intellettivo, mantenendo una fin troppo ragguardevole distanza di sicurezza dalle zone del dominio cerebrale.

Va giù con fracasso, Michele Carboni, con uno stile da stuntman hollywoodiano mancato, ma solo di un soffio, bello, in quel gesto rovinoso, mentre le forze in gioco gl'indicano quale sia il suo posto nel quadro naturale.
La gravità, che lo rischiaccia in basso, verso la sfera più vile e materiale, suo luogo aristotelico originario, giù, in fondo, nel pieno rispetto della fisica e della cosmologia, e anche, volendo includere le scienze umane, della morale.
Le forze centrifuga e centripeta, che col loro saggio equilibrio gl'imprimono, a lui, Michele Carboni, che a tratti ripiegato in posizione quasi fetale è privo d'ogni simmetria rotazionale, quel moto come di girandola sbeccata che zoppica al vento, o di cestello di vecchia lavatrice, che sbatte e urta e si sente dalla cucina.
L'attrito, sempre inamovibile ostacolo alle performance di velocità, ha gioco facile con Michele Carboni, radente o volvente che sia, perché la parete a grattugia che scende insieme alle scale è una rete di uncini che insistono a trattenerlo, s'agganciano ai pantaloni, alla camicia, al viso, alle braccia, e tirano, tagliano, strappano, stracciano, forse nel vano tentativo d'impedire la caduta, di soccorrerlo, e potrebbero anche farcela, insistendo, un poco alla volta sottraendo energia cinetica, se i gradini fossero un migliaio, ma sono solo diciotto, e l'aiuto è vano.
Innumerevoli sono le forze agenti, e Michele Carboni ne ha, attore principale, un quadro quasi completo, sebbene non concettualizzato, perché il suo cervello le percepisce istantaneamente come scariche nei centri del dolore, e il flusso elettrico è forsennato, al punto che non c'è tempo di schematizzare, organizzare, costruirci conoscenza e rifletterci su.
In fondo alle scale, in agguato nell'angolo più buio, come un brigante, l'entropia attende con pazienza che i moti e le dinamiche tornino alla quiete, all'equilibrio, per riscuotere il tributo che le spetta, e sapere di quanto, grazie a Michele Carboni, la morte dell'universo è più vicina.

Precipita, Michele Carboni, e lo avremmo detto maschio alfa, predatore dominante convinto della superiorità del proprio corredo cromosomico, almeno fino a un attimo fa, perché ora, a ogni capriola, ecco che il cammino evolutivo di cui è l'opinabile risultato gli sbatte sul muso, così come gli scalini, la sfacciata assenza di arti adatti al volo.
Rovina giù così, geneticamente impreparato, figlio di una genealogia biologica che lo vuole deambulante sulla terra, natante quel poco che basta per la vacanza a Ibiza, e volante, nella stessa occasione, ma coi mezzi della tecnologia aerea.
Senz'ali, Michele Carboni, costretto al suolo, sottratto alle altitudini da una natura maligna che chissà perché gli ha risparmiato la gobba, spietata e indifferente alle umane volizioni, sorda ai desideri, ai sogni. Potesse volare, Michele Carboni, potesse volare sul serio, non come adesso, sopra e addosso a questi spigolosi scalini, andrebbe su in quota, a vederci piccoli, ridicoli, uomini affannati dietro alle loro minuscole cose di tutti i giorni, e da lì, in alto, punterebbe su Ibiza.

Per ogni facciata sui piani di porfido granitico, per ogni ben solido angolo retto nelle reni, per ogni microfrattura, Michele Carboni lancia una maledizione, e s'accende un lampo, nei suoi azzurri occhi appena un po' decentrati nello sguardo, che fa apparire uno a uno i visi delle sue conquiste di filibustiere dell'amore, singole scalpellate nell'opera di cornificazione della donna che lassù, dalla cima, osserva il turbinio di muscoli, ossa e cartilagini, e ascolta il fracasso della caduta, con un ghigno, si direbbe.
Roberta, Isabella, Chiara, Giorgia, Francesca, Silvia, Barbara, Lisa, un'altra Francesca, Annamaria, Donatella, Sonia, Valeria, Loredana, un'altra Chiara, Sara, Simona, Luana, una terza Francesca! - e sì che è nome comune - ci sono tutte, volti scolpiti nell'immortale benché gelida materia di ogni scalino, montanti che arrivano imprevedibili a schiantarsi sul mento, insieme a jab e ganci, alle costole, alle braccia, allo stomaco, e sprezzanti delle regole anche sotto la cintura, alle ginocchia, al sedere, una raffica che non lo lascia rifiatare. La posizione di lancio e la dinamica del corpo in moto vogliono che, quanto è ironica la natura, di nessun trauma risentano le zone che di quel volo stesso sono cagione: ovvero, i coglioni.

Cade per la gravità, Michele Carboni, ed è una gara fra quella dei 9 virgola 8 metri al secondo che la natura gl'impone e quella delle sue azioni, col peso delle colpe che lo tira in basso con un'accelerazione anche maggiore.
Cade per azione e reazione, con una forza uguale e contraria, uno schiaffo per una scappatella, un calcio nelle palle la seconda volta, via via, a sommare i moduli, fino a un triplo carpiato asimmetrico all'indietro giù dalle scale, per un programma intensivo di tradimento su vasta scala. Se ti fai beccare ogni volta, perseverare è tutt'altro che diabolico.
Cade per colpa della causalità, per colpa della meccanica classica, per colpa della curvatura dello spaziotempo, della non sovrapposizione quantistica, della trasmissione delle informazioni, dei sei gradi di separazione, dell'istinto riproduttivo, del pollice opponibile, e via così, all'indietro, fino all'esplosione primordiale, vittima di una serie di leggi e principi che, pur nell'ignoranza più completa, è costretto a rispettare, perché è così che funziona il mondo.

E mentre si sfracella e si fracassa, e si schianta e si frattura, si rompe, si ricopre di edemi, bozze, bernoccoli, more, graffi, tagli e segni d'ogni tipo, l'intelletto ha una scintilla, s'accende, focalizza, ne emerge un quesito, una domanda che si pone sempre, quando si trova ad affrontare una situazione nuova, mai vissuta, e si attiva la memoria, si confrontano dati, esperienze, e però no, conclude Michele Carboni in pochi centesimi di secondo, no, non c'è nemmeno una canzone di Vasco che è adatta a questo momento.

venerdì 15 febbraio 2013

Accademia della Semola: Bellissimissima

Ieri ero in una boutique milanese a provare quattro abiti bianchi. 
Ci sono andata dopo il lavoro: jeans, scarpe da ginnastica, niente trucco e gli occhiali da vista. Eh, oh.
In effetti non ero molto credibile come sposa, mi hanno pure domandato quattro volte quanti anni avessi. Ad ogni modo, sono salita sulla pedana quattro volte, indossavo pure dei sandali che stavano benissimo attaccati alle mie caviglie e la shop assistant continuava a dirmi: «No ma non preoccuparti, lo troviamo un vestito. Lo troviamo di sicuro, eh.» E io a tranquilizzarla: «Non si preoccupi, ho tempo, va bene anche se non lo trovo stasera o domani mattina. Va bene così.»
E poi, mentre mi infilava gli abiti - rigorosamente dall'alto, mani in alto - mi diceva: «Dovrò farti bellissimissima.»

Bellissimissima, se ci pensate, è una parola agghiacciante: è molto più di bella e bellissima, ma soprattutto nasconde tutta una serie di dolore e sacrifici, vitini da vespa, gambe snelle e tacchi alti, strascichi, menu di matrimonio che non si possono ingurgitare; per dire bellissimissima bisogna stringere la parola bella in vita, proprio, e trattenere il respiro.
Allora le ho detto: «Ma scusi, ma non son le damigelle quelle che devono rimorchiare?»

A me, d'altronde, l'han raccontata così.

giovedì 14 febbraio 2013

Invio manoscritti

Oggi il sito di ISBN Edizioni è tutto nuovo, sono andata a dargli una sbirciata, così, nella pagina Chi siamo, al punto Invio manoscritti, ho letto questo:
Astenersi dall'inviare: romanzi storici, romanzi rosa, romanzi i cui protagonisti hanno soprannomi tipo Strippo, Scubi o Faina, romanzi di auto-fiction, romanzi ispirati a Bukowski, romanzi ispirati a Carver, fantasy che non siano all'altezza di Game of Thrones, horror che non siano (almeno) all'altezza di Clive Barker, storie di Sud Italia idilliaco, storie di artisti che hanno girato il mondo e tornano a casa e non si riconoscono, romanzi troppo letterari, romanzi in cui non succede veramente un cazzo.
Che è un modo eccezionale per scoraggiare chiunque, tranne i coraggiosi e i megalomani. Astenersi perditempo.

lunedì 11 febbraio 2013

Tunnel

Quella che stai per iniziare è la grande storia del tunnel.
Ci sono voluti 3 giorni a farlo. Tu impiegherai al peggio 8 minuti a leggerlo. Non lesinare.

Io e la mia famiglia abitiamo in una casa che ha un nome, il nome è Le Budrie, la casa è a Samone, a 5 km da Zocca, in una valletta che non ha un nome - per quanto ne sappiamo, e per arrivare a casa Le Budrie dalla strada provinciale bisogna imboccare una via, che ha un nome pure questa, ed è via Busano, e percorrere 580 mt di strada sterrata.
Il numero civico di fianco all’ingresso di casa Le Budrie è, to’ mò, 580.
Quando nevica parecchio quei 580 mt di strada diventano impraticabili.
Se la neve rimane - diciamo - più o meno al di sotto dell’altezza delle ruote della Lada, allora vado avanti e indietro e via di gran sgommate. Se ne scende più di mezzo metro desisto, non avrebbe senso, suicidio automobilistico. Lascio l’auto sulla provinciale e si scende a piedi.
A quel punto telefoniamo al cowboy, che è un tizio che fa centomila lavori qua in montagna, uno che dalle mie parti si chiamerebbe un fattorone, e che in emergenza neve è precettato per la pulizia delle strade.
Il cowboy per pulire la nostra strada si piglia almeno almeno un cinquantello.
Era il prezzo di due anni fa. Magari quest’anno si piglia pure di più.
La settimana scorsa – che è nevicato pure la settimana scorsa - è venuto a pulirci la strada, e una volta arrivato giù a casa nostra son voluto salire sul trattore per tornare a prendere la macchina. Mi ha detto che coi mezzi spalaneve devono uscire quando supera i 5 cm. Che devono stare in giro finché le strade non sono praticabili. Che sono divisi per zone. Che quando hanno finito la loro zona possono andare dai privati. E fare un fracasso di soldi. Questo non l’ha detto.

La settimana che va dal 6 al 12 febbraio ha visto una delle peggio nevicate della storia della collina modenese (me l’ha detto un tizio della protezione civile, io sono uno di pianura che si è trasferito, non ho memoria storica). Roba che i mezzi spalaneve han dovuto girare sempre, ché le strade non restavano pulite (così mi ha detto la moglie del cowboy al telefono). Il vento forte non mi ha aiutato coi calcoli: in certi punti le dune di neve mi arrivavano alla spalla. Sono basso, certo. Però parliamo comunque di un metro e mezzo almeno. Neve e freddo. Il freddo ci ha congelato i tubi dell’acqua calda che escono dalla caldaia, che è in uno stanzino adiacente alla casa, pure al coperto. In una mattinata tempestosa il nostro idraulico si è fatto tutta la stradina a piedi per venire a casa nostra a scongelarci i tubi. Noi eravamo tutti a letto. Ci ha svegliato il cane che ha sentito l’idraulico che bussava. L’idraulico aveva tipo un phon però che faceva un caldo così assurdo da piegare i metalli.

Non ricordo neppure quando ha cominciato a nevicare. Abbiamo perso la cognizione dei giorni. Pare che la neve ci sia da sempre e che debba restare per sempre. C’è questo cartone uscito qualche mese fa, che piacque molto ad Ester, che si chiama Arietty, dove loro sono degli esserini minuscoli che vivono sotto al pavimento, e la madre ha questi fondali dietro alle finestre della loro casetta minuscola con dei paesaggi incantevoli, e ogni tanto li cambia per dare l’impressione di essere sempre in posti diversi e ariosi e bellissimi.
Agnese in questi giorni dice che vorrebbe avere dei pannelli come quelli di Arietty da mettere alle finestre di casa.
Ora che scrivo è domenica sera. Il calendario dice che è iniziato venerdì notte. Nella notte tra giovedì e venerdì. E infatti giovedì sera decidemmo di uscire e andare da amici prima della reclusione. Qua in montagna la viviamo così. Quando minacciano queste nevicate esose si vive il più possibile il giorno prima della catastrofe, si fa scorta di cibo, si copre per bene la legna, si sistemano le cose come se dovesse iniziare una guerra lampo. E poi si sta reclusi. Per giorni.

Agnese al primo giorno già strippa. Io al secondo.

Così, il secondo giorno, si diede inizio al tunnel. E tunnel fu.
Però prima c’ho da spiegare ancora due robe.

domenica 10 febbraio 2013

Un'altra occasione sprecata per fare una valanga di soldi

Che a pensarci, un paio d'anni fa, era un attimo, e invece niente, non ci abbiamo pensato, o se ci abbiamo pensato non l'abbiamo messo in pratica, furbi come siamo, e va sempre a finire così, che arriva uno che ci pensa, lo mette in pratica, e tac!, ci riesce, ma vacca d'un cane, era così diretto, il passaggio, lineare, c'è da farsi venire il nervoso, da sentirsi stupidi, che era tanto ma tanto facile, dopo i vampiri: gli zombie emo.

venerdì 8 febbraio 2013

Avvertimenti

Ieri, oltre a essersi concluso felicemente l'anno della maledizione cristica per il socio tecnocrate, al quale anche da qui porgiamo festevoli auguri, sono successe due cose, che hanno a che fare coi quadri, e che hanno a che fare con la Francia.
Ieri una donna ha scritto qualcosa con l'evidenziatore giallo nella parte bassa della Libertà di Eugène Delacroix. Ovviamente la scrivente è stata subito fermata da un sorvegliante, anche grazie all'aiuto di un visitatore. Gli esperti già dicono che è un danno superficiale. Che il restauro sarà presto fatto. Ma la parte più interessante non la sappiamo ancora, cioè: 
Che cosa ha scritto col suo benedetto evidenziatore giallo? 
Credeva di non essere vista? 
Pensava che la scritta non sarebbe stata notata, se non da chi voleva lei? 
C'è un legame tra l'evidenziatore e il quadro?
Era un messaggio cifrato?
Un messaggio d'amore?
Un messaggio politico, considerando appunto il quadro?

Sempre ieri poi, è circolata e rimbalzata in rete la notizia che l'Origine del mondo di Gustave Courbet avrebbe un viso, sempre dipinto e addirittura riconducibile a un nome e cognome. Il quadro che noi tutti conosciamo sarebbe dunque il pezzo di una tela a figura intera, una parte del tutto. Se tale riconoscimento sarà confermato il dettaglio smetterebbe, a parer mio, di avere la connotazione universalistica e universale che gli ho sempre attribuito. ma questo è il mio parere. 

Gilles Deleuze (si, questa è la parte noiosa) in una delle sue lezioni all'università che ho visto in tv grazie a Fuori orario di Enrico Ghezzi e sopratutto alla mia insonnia, sosteneva che l'interesse per il viso, per il volto, per l'espressione della faccia, è una attenzione tutta moderna e legata al nostro interesse per l'anima e la coscienza. I popoli primitivi, sempre secondo Deleuze, invece davano massima importanza al corpo, certamente per questioni di sopravvivenza e di riproduzione della specie. 

Moderni o non moderni, la scoperta del volto toglierà l'imbarazzo ai solerti censori, timorosi per lo sconvolgimento delle giovani menti.
Forse.
Un paio d'anni fa, infatti, l'opera era esposta in via temporanea al MART di Rovereto e qualche metro prima dell'ingresso era stato collocato un solenne avviso su piedistallo che avvertiva il gentile pubblico della presenza di tale dipinto nel catalogo, collocato appositamente in una saletta appartata così da poter essere tralasciato senza troppi problemi nel corso della visita. 
Ovviamente il testo era corredato dall'immagine a colori e proporzionata del dipinto. 
Esattamente all'altezza di quando ero in quinta elementare.

mercoledì 6 febbraio 2013

Lumache

Lumaca omnia vorat

Parlerò di lumache. Prima parlerò per 16 righe del perché parlerò di lumache.

Lo Ziro e il Many fanno tipo gli editori in internet. Lo Ziro mi fa, un giorno d’estate: scrivi qualcosa per questo secondo e-book che facciamo sulla sfiga? Figo, dico. Mi è sempre piaciuto scrivere. Poi io che sono uno che in internet non partecipa a niente, che in internet non ha nessun tipo di domicilio a parte l’email, mi son anche galvanizzato all’idea di far parte di qualcosa in internet. Grande Ziro, una di queste sere scrivo e ti mando. La sera è quella parte della giornata che dedico al computer, generalmente per i fatti miei, lavoro arretrato a parte. Non ho un blog, non ho un sito, no anobii, friendfeed, twitter et cetera. Non credo che tutte queste mancanze mi abbiano reso una persona migliore. Nemmeno credo mi abbiano reso peggiore, ma non saprei.
Mi hanno reso una persona con un orto.
La sfiga vuole che l’orto sia preda delle lumache. Limacce per la precisione. Che sono tipo lumache ma senza il guscio. Ci sono anche quelle col guscio, ma di preferenza l’orto è invaso dalle limacce. Quando mi mettevo davanti al computer per scrivere qualcosa per Ziro, il Many e il loro stracazzo di ebook non riuscivo a non pensare: Mentre son qua a cazzeggiare, quelle schifose mi stanno mangiando tutte le piantine di pomodoro. Mollavo lì e andavo nell’orto.

Io non credo che il concetto di avere un orto lo possa capire chi non ha un orto. È una sentenza stronza, me ne rendo conto. Però c’è della verità. E non parlo dell’orto dei tuoi nonni o dei tuoi genitori. Il tuo orto. È come quando ti chiedono di spiegare di cosa tratta la tua tesi di laurea: ci puoi provare, ma in fondo sai che l’altro non potrà mai capire tutte le sfaccettature di quel che hai fatto. Noi è il primo anno che abbiamo un orto serio. Serio nel senso che son più di tre mesi che non compriamo verdura – a parte un po’ di carote ogni tanto, dai. Aggiungi che sono vegetariano. È un orto serio, dai, fidati. 64 metri quadrati. Circa. Per la precisione è un orto sinergico. Agnese ha seguito un corso, a fine primavera, sull’orto sinergico. E così abbiamo fatto un orto sinergico. Il nome mi metteva soggezione, evocava fricchettonaggini e madre terra e ciclo della vita, ma in soldoni si tratta di fare dei cumuli di terra e ricoprire tutto di paglia. L’idea l’ha avuta Fukuoka (google: Fukuoka + orto sinergico, desumo), ma lo faceva anche mio nonno: fai i cumuli così le piante han più terra soffice dove crescere; metti la paglia così l’acqua evapora meno e innaffi meno. Poi di diverso c’è che nell’orto sinergico le piante dello stesso tipo non sono tutte attaccate ma distribuite per tutto l’orto, mischiate anche con fiori e officinali; poi, in secondo luogo, l’orto sinergico, dopo qualche anno, non lo devi più lavorare: perché lasci andare le piante in fiore e si seminano da sole; lasci le radici nella terra che la rendono friabile e non devi zappare; depositi le piante morte sul cumulo che concimano da sole. Natura spontanea.
Questa la teoria.
Io c’ho l’orto sinergico da quest’estate, e per ora, da solo, non ha fatto un benemerito. Anzi.
A un certo punto tutta quella stramaledetta paglia l’ho dovuta togliere perché sotto la paglia le lumache se la godevano anche di giorno e facevano orge spaventose (desumo) e si riproducevano a livelli enormi. Paglia di merda.

Le lumache, a livello di ecosistema, non fanno niente di male – e ci mancherebbe. Dove abbiamo creato l’orto era un campo di erba medica. Era territorio loro. Gliel’abbiamo strappato. Hanno tutti i diritti di mangiare i nostri ortaggi. E io ho qualche diritto nel farmi il mio orto. Quindi ambedue i contendenti hanno in parte ragione. Per questo si può parlare di lotta. Di guerra.

martedì 5 febbraio 2013

Ricicciamenti: Il nome del padre

Mio padre si chiama Iules, ma non si è mica sempre chiamato così. Prima era Jules.

Fino ai quarant'anni, più o meno, su alcuni documenti c'era la I, su altri la J. All'anagrafe dicevano che c'era la I ma poi si grattavano la testa e rispondevano che boh, non erano sicuri neanche loro, perché una volta le schede venivano compilavate a mano e proprio sotto la I di Iules c'era uno sbavo. Non si capiva se fosse inchiostro sputato dalla penna (forse non era una biro, ché chissà quando è arrivata in un paesino di poche migliaia di anime la penna a sfera, la biro, anche se è stata inventata nel 1938 e le prime le han vendute nel 1945) o uno sbavo intenzionale, perché nel 1953 la J non era una lettera tanto in voga, c'era della gente che non la conosceva, la J, e l'impiegato dell'epoca, nel dubbio, c'è il caso che avesse sbavato apposta.

Mia nonna, sua madre, gli aveva dato nome Jules perché leggeva i fotoromanzi su Grandhotel e nei fotoromanzi di Grandhotel c'era questo Jules che era un gran figo. Mio nonno, quando è corso all'anagrafe per registrare suo figlio, su un bigliettino aveva scritto Jules copiandolo da un Grandhotel con una calligrafia tremolante per l'emozione e non s'immaginava, forse, che Jules si dovesse leggere alla francese. All'impiegato dell'anagrafe avrà detto "iules", poi gli avrà fatto vedere il bigliettino e l'impiegato, nel dubbio, ha compilato la scheda, forse apposta, con lo sbavo.

Mio padre fino ai quarant'anni, più o meno, si firmava con una I che sembrava una J, ed era contento così. Faceva un più bel ricciolo sotto la I, una cosa quasi artistica, una felicità ogni volta che doveva firmare un assegno o un voto sul mio diario o una giustificazione per la scuola o una nota. E io lo guardavo sempre con ammirazione, ogni volta che firmava. Gli dicevo: Babbo ma che bella firma, ma che bel nome.

Solo che a quarant'anni, più o meno, gli è arrivata una lettera dallo Stato. C'era da decidersi, da chiudere la questione, perché lassù, nello Stato, non erano mica sicuri che fossero arrivate tutte le bollette. Gli han detto: Sig. Iules, o Jules, si decida, le mandiamo un modulo da compilare e lei sceglie il suo nome una volta per tutte, noi le inviamo dei documenti nuovi di zecca e aggiorniamo tutte le sue pratiche; però si decida, ché qua non ci capiamo niente. Allora mio padre è stato una settimana col mento appoggiato sul pugno, seduto al tavolo della cucina, a decidere come chiamarsi da lì in poi.

Una mattina, senza dir niente a nessuno, si è alzato presto ed è andato a spedire il modulo. Quando è tornato a casa si è fatto un caffè, e quando ci siamo svegliati, io e mia sorella, ci ha detto: Ragazzi, ho una notizia, mi chiamo Iules con la I.

Ho sempre pensato che decidere il proprio nome a quarant'anni, più o meno, è una cosa giusta. Fosse per me, scriverei, voterei e approverei una legge per la quale ognuno, a quarant'anni, più o meno, o anche prima, se vuole, può scrivere una lettera allo Stato dove dice che nel pieno delle proprie facoltà mentali ha preso la decisione fortemente ragionata di cambiare nome. E anche il cognome, se ha voglia. Poi, ovviamente, se a uno invece gli piace il nome che porta, quello che gli han dato alla nascita, lo può anche tenere. Sarebbe una specie battesimo laico, scegliere coscientemente il proprio nome. Una cosa matura per una persona e, mi vien da pensare, anche per uno Stato. Io, per esempio, non avrei dubbi. Io, lo so, se potessi, da domani mi chiamerei John Laser.

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Ricicciamenti non è una nuova rubrica. Ricicciamenti è un prodotto della crisi delle idee. Nei ricicciamenti si prende un vecchio post di Barabba e lo si riciccia, cioè lo si riscrive o lo si mette a posto e lo si ripubblica. Magari in un'occasione speciale come questa, ché ieri mio padre, Iules Manicardi, con la I, ha compiuto sessant'anni.

sabato 2 febbraio 2013

Un tale chiamato Barabba (Marco 15, 7)

Carpi; libreria di fiducia, dove però non ho mai ordinato niente da mandare a prendere, in quasi otto anni che abito qui; interno giorno.

MANY: Ciao, ce l'hai mica Il peccato di Zachar Prilepin?
LIBRAIO: 'spetta che guardo.
(Va al computer.)
LIBRAIO: No, deve arrivare. Forse. Se arriva. Se vuoi lo mando a prendere a tuo nome.
M.: Ok.
LIBRAIO: Me lo ripeti, il tuo nome, che non me lo ricordo mai?
M.: Marco Manicardi.
LIBRAIO: Oh, guarda, sei già nel database. Il numero di telefono è sempre [numero di telefono]?
M.: No, non è mai stato quello.
LIBRAIO: Allora è un altro Marco Manicardi.
M.: Sì, è uno che fa il calciatore, o l'allenatore di pallone.
LIBRAIO: Allora ti inserisco. Però per non sbagliarci ti inserisco con un altro nome.
M.: ...
LIBRAIO: Va bene Barabba?

venerdì 1 febbraio 2013

Siamo una società orribile (7)

Il traffico astioso delle auto la domenica comincia nel primo pomeriggio, perché vanno sempre in branco alla partita. Gli altri giorni sono pericolosi, e chi ha un bambino fa bene a mettergli in testa la paura del traffico, e dirgli attento nini, la macchina ti schiaccia, dai la mano a mamma. Come se fossero lupi, le automobili.
Ma anche i grandi debbono stare attenti, se sono pedoni senza la mutua, perché se finisci sotto sei fregato. Se finisci sotto fuori delle strisce, loro non hanno da pagarti una lira, anzi sei tu che gli paghi il danno eventuale, il vetro del finestrino rotto, lo sporco del sangue sui sedili, un'ammaccatura al cofano, l'incomodo, il tempo perso, perché loro hanno sì l'obbligo di non omettere il soccorso, ma poi te lo fanno scontare, tanta benzina dal punto del sinistro all'ospedale, tanto dall'ospedale al posto dove avevano la commissione, un appuntamento mancato, un affare andato a monte per colpa tua. Loro hanno gli avvocatoni, e tu sei solo. La paghi anche se finisci sotto al passaggio zebrato, perché nell'urto è quasi sicuro che tu vai a cadere più in là delle strisce, e loro possono sempre dire, e dimostrare con gli avvocatoni delle assicurazioni, che è stato fuori, l'investimento. Conviene traversare sulle strisce, ma tenendoti al margine più vicino alla parte da dove arriva il traffico, così sei un poco più sicuro di cadere nel passaggio, e i danni te li pagano, anche se penalmente non gli costa più di un quattro mesi con la condizionale.
E al bimbo, se ce l'hai, mettigli bene in testa la favola del lupo-automobile, anche a costo di far diventare lupo lui, che desideri la macchina per schiacciare gli altri, da grande.
Ci sono due passaggi zebrati, dalla porta di casa mia all'edicola dei giornali, e finora ce l'ho fatta senza danno, solo qualche insulto dai guidatori costretti a rallentare, specialmente quelli civili, quelli consapevoli del proprio dovere, che si bloccano davanti alle strisce e con la manina rabbiosa ti fanno segno di passare, e intanto borbottano 'sto pirla.

(Luciano Bianciardi, La vita agra; Bompiani, 2002)
Vorrei che non vi sentiste creditori di un pedone, di un suo cenno con la mano, la testa un po' piegata, un mezzo sorriso sforzato interrotto da una corsetta veloce, se vi fermate per farlo passare. Maledetto quel popolo che deve ringraziare, quando attraversa la strada.