domenica 15 settembre 2013

(Trascrizione più o meno fedele di) Delle cose non prive di conseguenze

[Ieri è capitata una cosa strana: l'elena (osvaldo) e Chettimar si sono sposati. Li ho sposati io. La mattina in maniera ufficiale, il pomeriggio in modo ufficioso. Com'è andata la mattina, nel Palazzo Reale di Milano, l'ho scritto qui. Quello che segue è il discorso del pomeriggio, nell'atmosfera bucolica della Tenuta Limido di Zerbolò, in provincia di Pavia, davanti a un centinaio di persone.]

Buonasera a tutti.
Si sente se parlo così?
Bene.
Anche là in fondo? Si sente?
Speriamo.
L'importante è che sentano i due che ho qui davanti, e anche i loro testimoni, perché le cose che devo dire oggi sono soprattutto per loro, e sono delle cose non prive di conseguenze.
Allora, adesso cominciamo.

Come dovreste sapere, se oggi siete qui, oggi siamo qui perché le due persone che ho davanti hanno deciso di prendere degli impegni l'una verso l'altra, degli impegni che, se sono bravi – ma se li conosco almeno un po' e se voi li conoscete almeno un po' sapete che sono bravi; anche se nella vita non si può mai dire, ma noi oggi diciamo di sì, che sono bravi – queste due persone che ho qui davanti hanno deciso di prendere degli impegni che sono forse tra i più importanti che due persone possano pensare di prendere insieme. La cosa sorprendente è che hanno chiesto a me di fare, come dire, da garante a questi impegni, e quindi di farmi celebrare il loro matrimonio.

Perché proprio a me? Dopo ve lo spiego, se ho capito bene e se avete pazienza. Intanto alcuni di voi si staranno domandando: Chi è questo tizio qua con l'accento emiliano che viene fino in Lombardia per unire in matrimonio un brianzolo e una molisana?

Allora mi presento, anche perché non tutti gli invitati mi conoscono. Io mi chiamo Marco Manicardi, sono un ingegnere, come lo sposo, vengo da Carpi, in provincia di Modena, e conosco le due persone che mi stanno davanti da circa tre anni. Nonostante tutto, posso dire senza temere smentite di essere loro amico d’infanzia, perché in questi circa tre anni che ci conosciamo sono successe tante, tali e grandi cose che quando davanti a una birra o a un Negroni delle volte ci viene da parlare del 2010, ci sembra di parlare di quando eravamo bambini.
Ma andiamo con ordine.

Nel lontanissimo 2010, quando cominciavano a espandersi nuovi mezzi di comunicazione su internet che si chiamano social network, e sui giornali si cominciava a dire che internet e i social network erano i covi dell’odio, io avevo cominciato a scrivere delle cose e a conoscere della gente sulla rete, delle persone con le quali chiacchieravo e discutevo pressoché quotidianamente attraverso uno schermo e una tastiera, senza esserci mai incontrati e senza esserci mai visti se non in qualche foto che sporadicamente veniva pubblicata qua e là. Ed è stato proprio lì, nello svago impalpabile dell’internet, che avevo conosciuto una ragazza molisana che abitava a Milano e che si faceva chiamare l’elena, scritto tutto in lettere minuscole e con l’apostrofo, e con la quale mi piaceva parlare di libri e di scrittura e di quello che ci passava per la testa.
Avevo anche cominciato, nel frattempo, a scrivere su un blog (adesso, per chi non sa cosa sia un blog: non ve lo spiego, lo farà un’altra persona più avanti, se portate pazienza), e col mio blog, che si chiama Barabba, avevo chiesto pubblicamente, a chi avesse avuto voglia, di mandarmi dei racconti sulla Resistenza e sulla Liberazione, da raccogliere e poi pubblicare in un libro elettronico e gratuito che si sarebbe chiamato Schegge di Liberazione, forse qualcuno di voi ne ha sentito parlare, forse no. Ma è stato proprio quel libro, Schegge di Liberazione, a non essere stato privo di conseguenze, e in fin dei conti la sua pubblicazione è la chiave di tutta la faccenda che si svolge in questo momento tra le due persone che mi stanno davanti.

Anche l’elena mi mandò un suo raccontino, intitolato Resistenza di ceramica e ambientato nella campagna molisana. Parlava di conserva, di una cantina e di una nonna che affronta come può l’arrivo dell’esercito tedesco. Era un racconto molto bello, come un po’ tutto quello che scriveva su internet l’elena, che non avevo ancora mai visto dal vivo, ma l’avevo capito subito che era una di quelle persone su un milione che quando le conosci non puoi fare a meno di chiedergli delle opinioni e dei consigli.
E infatti eravamo diventati amici, io e l'elena, amici nel senso più vero del termine – come dice il dizionario della lingua italiana alla voce amicizia: Reciproco affetto costante e operoso tra persona e persona – anche se non ci eravamo ancora mai incontrati e anzi, addirittura, all’inizio del 2010, secondo me, non sapevo neanche come faceva di cognome, l’elena.

Poi sono successe delle cose, e una di queste è che il 24 aprile del 2010 quel libro elettronico sulla Resistenza e la Liberazione avevamo deciso di leggerlo in pubblico, perché a Carpi c’era un anniversario importante e la città stava organizzando i festeggiamenti per la ricorrenza. Quella sera molte persone dell’internet sono venute un po’ da tutta l’Italia in un locale di Carpi per leggere i racconti che ci avevano mandato, e io ero tutto indaffarato nell’organizzazione, correvo avanti e indietro compilando scalette per le letture, istruendo i musicisti sulle canzoni da suonare, sistemando il palco, eccetera. Per me era la prima volta ed ero molto in ansia.
Cinque minuti prima di cominciare, con il locale già pieno di gente, io sono lì che riguardo la scaletta che non mi convince, manca una bella voce per iniziare, perché l’inizio importante, ma ormai è troppo tardi e sto per dare il via al primo lettore quando... sento picchiettarmi una manina sulla spalla. Mi giro, abbasso un po’ gli occhi, e mi trovo davanti una ragazza che non avevo mai visto e che mi allunga una mano e mi dice: «Ciao, io sono l’elena.»

Avete presente quegli attimi in cui siamo in mezzo a una folla, talmente immersi nel rumore da non saper distinguere i nostri pensieri dalle nostre orecchie e dal casino che c’è intorno, ma proprio in quel momento lì succede una cosa che ci isola completamente, ed è come se fossimo in una stanza vuota e silenziosa, e tutti e cinque i sensi sono focalizzati su un punto, su quella cosa particolare che sta succedendo? Ecco, in quel momento, per me, il tempo si è fermato per un attimo, intorno si è fatto silenzio. Con gli occhi vedevo solo questa ragazza più bassa di me che mi sembrava giovanissima e sorrideva imbarazzata e bella, e con le orecchie sentivo soltanto quattro parole, scandite, musicali, semplicissime: Ciao, io sono l’elena.

«Ciao, elena,» le ho detto. «Siamo un po’ in ritardo, dobbiamo partire subito, ti va di cominciare te?» E senza aspettare la risposta, l’ho spinta sul palco e lei ha cominciato per davvero. Era la prima volta che sentivo la voce dell’elena ammutolire il pubblico e volare così leggera di frase in frase, una sensazione che si fa fatica a spiegarla; e se non l’avete mai sentita, quella voce, penso che dovreste farlo, prima o poi.
Non oggi, oggi sentite la mia, ché l’elena adesso è qui davanti a me ed è occupata a sposarsi, una cosa che sarà non priva di conseguenze, per lei.

Da quel 24 aprile del 2010, insieme a delle altre persone, io e l’elena abbiamo iniziato a girare l’Italia e il mondo (una volta siamo stati anche a Parigi) a leggere dei racconti davanti a un pubblico, a dormire nei sacchi a pelo o sui divani di chi ci ospitava, a bere delle birre e dei Negroni, eccetera. E in una di queste tappe del nostro tour, eravamo ancora nel 2010, anzi, il 10-10-2010, per la precisione, e ce lo sentivamo che era una data particolare e qualcosa sarebbe successo, siamo finiti a leggere le Schegge di Liberazione in un locale di Milano, zona Bovisa, chiamato La Scighera.

Qualche giorno prima, su internet, avevo conosciuto un’altra persona, si faceva chiamare Chettimar, ne ignoravo il nome e il cognome. Mi aveva chiesto, con modi molto educati, via mail, il permesso di leggere in pubblico la sera della Scighera e, precisamente, voleva leggere un racconto che avevo scritto io e parlava di mio nonno e delle sue vicissitudini con una divisa da Balilla che si era strappata. Io avevo risposto educatamente, acconsentendo.
La sera del 10-10-10, arrivo alla Scighera che è ancora vuota, ci sono solo due baristi, un tizio seduto a un tavolino che sistema delle scartoffie e poi c’è una stanza molto lunga e buia, con in fondo un palco illuminato, un pianoforte e un ragazzo sulla ventina che lo sta suonando magnificamente. Credo che suonasse Chopin, ma non vorrei ricordarmi male.
Mi sono avvicinato, mi sono presentato allungandogli la mano e lui, afferrandola, mi ha detto: «Molto piacere, Chettimar, ci eravamo sentiti qualche giorno fa, dovrei leggere il pezzo che parla di tuo nonno.»
«Ma tu,» gli ho chiesto, «suoni anche il pianoforte?»
«Sì, diciamo che mi diletto,» ha risposto Chettimar.
«Bene,» ho continuato, «allora facciamo così: stasera, oltre a leggere, potresti accompagnare tutte le letture col pianoforte.»
Chettimar era molto imbarazzato. «Non saprei,» mi ha detto.
Ma alla fine l’ho spuntata io, e lui ha diligentemente riempito l’aria della Scighera per tutta la durata delle letture. Due ore abbondanti.

Ero molto contento, e anche il pubblico lo era. Io, di Chettimar, il 10-10-10, non conoscevo ancora né il nome né il cognome, l’avrei scoperto qualche giorno dopo. Ma intanto lo sentivo suonare, nella sala buia, con la luce del palco che lo illuminava, e veniva da incantarsi. E se non lo avete mai sentito suonare, Chettimar, dovreste sentirlo, prima o poi, soprattutto quando fa Chopin.
Non oggi però, oggi vi tocca ascoltare la mia voce, ché Chettimar adesso è qui davanti a me ed è occupato a sposarsi, una cosa che sarà non priva di conseguenze, per lui.

Tornando a quella sera della Scighera, ricordo che l’elena lesse quattro o cinque racconti accompagnata da Chettimar al pianoforte, e dopo le letture si sono presentati e hanno scambiato qualche parola. Quelle prime parole smangiucchiate, tra una birra e un Negroni in località Bovisa, a Milano, a quanto pare, non sono state prive di conseguenze, per loro.

Ma insomma, così ho conosciuto l’Elena Marinelli e così ho conosciuto Simone Marchetti, e in tre anni di giri e letture su e giù per l’Italia e una volta anche all’estero (siamo stati a Parigi), in tre anni di chiacchiere, bevute, risate, birre, Negroni, sacchi a pelo, divani, bei momenti, brutti momenti, eccetera, ma forse anche già da subito, queste due persone qui che mi stanno davanti sono diventati miei amici, e io sono diventato amico loro. Quando ci pensiamo, delle volte, ci sembra che amici lo siamo da sempre.

Adesso, se mi sono spiegato bene, se avete portato pazienza, e scusate se sono stato un po’ lungo – ma tanto non scappate, volenti o nolenti, che mi han detto di tenervi qui finché i camerieri non han finito di preparare gli aperitivi – adesso dovreste aver capito il motivo per cui noi tre ci troviamo qui a celebrare un matrimonio, e loro due a farsi delle promesse, a prendere degli impegni, degli impegni importanti che non saranno privi di conseguenze, da oggi in poi.

Quindi, per riassumere, è successo che io una volta ho pubblicato un libro dal nome Schegge di Liberazione, dentro a quel libro c’era un racconto di Elena Marinelli, e quel libro l’abbiamo letto in pubblico una volta con l’accompagnamento di Simone Marchetti al pianoforte.
Insomma, mi è capitata una cosa, una volta, in questa vita, una cosa che non capita mica a tutti: mi è capitato di fare qualcosa che ha cambiato la vita a due persone. Non dico che senza di me non si sarebbero potuti conoscere e innamorare, avevano già degli amici in comune, vivevano nella stessa città, frequentavano gli stessi posti dell’internet, ma, insomma, la storia è andata così, è andata che dovevo essere io quello che doveva muovere il primo tassello del domino che ruzzolando per la storia li ha portati qui oggi.
Sono stato fortunato. Ho fatto una cosa che ha cambiato la vita a delle persone. Se ci penso, mi scoppia la testa.

E adesso è anche venuto il momento di sbrigare le formalità del caso, quelle già citate formalità non prive di conseguenze. Ma se pazientate ancora un attimo – che tanto dovete aspettare lo stesso, così mi han detto – ci sono un paio di persone che mi hanno chiesto di poter dire due parole per l’Elena e Simone.
La prima è Francesca, che vi leggerà una cosa che ha scelto apposta per gli sposi…

(Francesca Gentile – testimone della sposa – ha letto La promessa di Nicolò Fabi)
Il giorno in cui sei arrivata si è aperta una porta su un mondo che non conoscevo
hai portato con te una parte di me
che adesso è il mio vanto
mi hai trovato abbracciato a un ricordo
seduto e annoiato davanti a uno specchio
ho sentito di avere il permesso
di chiudere gli occhi e aprire le braccia
ora è possibile spingerci insieme
oltre i confini del tempo
come certe idee come le maree
come le promesse
è possibile andare lontano senza avere paura
come certe idee come le maree
come le promesse che si fanno

Adesso siamo compagni di vita
di vita sognata e di sopravvivenza
la nostra casa è arredata con i tuoi colori
e con le mie parole
i nostri libri mescolati insieme intrecciano
e fondono le nostre storie
ma i segreti nascosti in ogni rapporto
quelli non si raccontano
il nostro amore si sporca le mani
ogni giorno nel fango
più di certe idee più delle maree
più delle certezze
il nostro amore è sospeso nel vuoto
ma con i piedi per terra
più di certe idee più delle maree
più delle certezze che si hanno

Tu sei la luce e la pace
la comprensione della sofferenza
io sono la voce e la direzione
le spalle e la malinconia
così abbiamo unito anche il sangue
per coltivare il nostro giardino
e per quanto saremo capaci di farlo
noi lo custodiremo
se potessimo spingerci insieme oltre
i confini del tempo
come certe idee come le maree
come le promesse
se potessimo andare lontano
senza avere paura
come certe idee come le maree
questa è la promessa che ti faccio
E poi c'è Fabrizio, che ha scritto un sermoncino per l’occasione e adesso ve lo leggerà col suo accento caratteristico del centr’Italia.

(Fabrizio Gabrielli – testimone della sposa – ha poi letto il suo sermoncino)
Buonasera,
ora dovrei leggere un discorso, una ròba preparata, scritta a mente fredda - che poi ma come si fa, ad averci la mente fredda, poi? - già da un pezzo, una ròba che conoscono il cerimoniere, i musici, un sacco di gente, mancan solo quasi gli sposi, in effetti, e voi.
Se c'è qualcosa che mi sembra sia il caso di rispolverare, di riportare in auge, è la pregnanza di una tecnica spesso demonizzata: l'improvvisazione.
Perché vedete: a voi oggi sembra - perché lo è - tutto così meravigliosamente organizzato, incastrato, in una parola perfetto, che vi verrebbe quasi da andarglielo a sussurrare in un orecchio, agli sposi, alla chetichella: psss, guardate che non sarà sempre così! pssss, vedrete: cambierà tutto.
Certo, ci vorrà una buona dose di improvvisazione: ma con un po' di dimestichezza col freestyle e la creatività - doti che ai nostri amici non mancano - ecco, la fertile vallata di serendipitù continuerà a stenderglisi verdeggiante ai piedi.
Non esistono parole, davvero, per spiegare agli sposi quanta gratitudine ho per loro, che mi hanno voluto come testimone. Per sdebitarmi, però, una cosa posso farla: testimoniare. Perché io questo turbiglione qua l'ho già provato, e badate: non cambia davvero niente.
Se solo sarete bravi ad allineare l'improvvisazione alle aspettative.

E adesso leggo la parte preparata, che si intitola "Non è forse amarsi mordersi e appiccare il fuoco?".

Guardateli, guardateci: siam venuti tutto qua per cosa? Per il bianco. Che è l'infinitamente possibile, come diceva Barthes. Una corona di fiamme dietro il capo, come tra i cardi la rosa appare Elena oggi agli occhi di Simone. E come il melo nella boscaglia lui a lei. Bianca è la pagina di quaderno che gli si para innanzi, e che s'apprestano a scrivere, con lettere ricamate, vergate in bella calligrafia.
Quando tra poco avranno attraversato la riva del Giordano, quando avranno lambito l'altra sponda, ci diranno - con gli occhi come colombe lei, con la serenità della vigna che si stende sui clivi lui - che si son scelti perché l'incastro era, è e sarà per sempre perfetto; e perché chiamarsi l'un l'altra ha per loro

la dolcezza del vino
che sulle labbra degli assopiti
dov'è colato
muove parole.

Parole, parole ce ne sono molte per cantare l'amore, ma le più belle secondo me le ha scritte Salomone quando? millemila anni fa?, in un libro che si chiama Verso dei Versi, Canto dei Canti, e la cui essenza è tutta nella semplicità grezza di un verso, che è piede e vetta dell'amore quello maiuscolo, il verso che fa

mi stravolgi la mente
sorella mia e sposa (vale anche fratello mio e sposo)
mi stravolgi la mente

la cui essenza è tutta nella pirotennìa di un attacco

Mi abbeveri di baci la tua bocca
perché il tuo amore inebria più del vino

che come fai, con quest'attacco, a non pensare ai nostri amici, a un cerchio di fiamme e a un alone di sangiovese semitico che abbevera e brucia?

Che poi, non è forse questo, amarsi?
Mordersi e appiccare il fuoco?
E infine, portate ancora un attimo di pazienza, è arrivato il momento della benedizione. E chi meglio dell’anziano del gruppo cui affidare un compito del genere?
Prego SirSquonk di avvicinarsi e dire quello che deve dire…

(SirSquonk, il grande vecchio, ha benedetto)
Fratelli e sorelle, buonasera.
Non ho ben capito cosa sto facendo qui, ma so di avere tra i cinque e i sette minuti a disposizione per farlo, quindi rassegnatevi e magari siate così gentili da far partire un cronometro e farmi dei segni quando arrivo al sesto minuto. Il fatto è che, su mio incauto suggerimento e per la perfidia dell’officiante, io dovrei raccontarvi una storia: che è il compito degli anziani, come si sa.
L’altro fatto è che non si dovrebbe mai rovinare una buona storia raccontando la verità, ma al tempo stesso bisognerebbe avere abbastanza fantasia da riuscire a inventarsela, la storia buona: e questa è una dote che non posseggo. Quindi sarò costretto a dirvi la verità.

La verità è che io non mi ricordo come ho conosciuto Simone. Né quando. Ne ho una vaga idea, diciamo. Parliamo di dieci anni fa, e perdendo tempo su Internet mi imbattei in un blog, che – per inciso – me ne fece perdere ancora di più, ma questa è un’altra storia. Ora, lo smarrimento dipinto sulla maggior parte dei vostri volti mi fa capire che non sappiate cosa sia un blog; se io fossi un anziano come si deve roteerei le pupille, sospirerei profondamente, mormorerei “o tempora o mores” e poi vi tirerei un pippone agghiacciante (mi perdonino le signore per l’aggettivo poco delicato) a base di “ai miei tempi”. Siccome sono pigro, facciamo che andate a scoprirlo su Wikipedia cos’è un blog (detto tra noi, in breve: un coso che serve a gente tipo il sottoscritto, e lo sposo, e qualcun altro tra i presenti, gente che ha dei problemi).
Quel blog aveva un nome, e fu quello a farmelo notare: si chiamava The Blog Lies Down On Broadway, e quella era una citazione, la citazione di un disco famoso di un gruppo più vecchio di quasi tutti noi. Forse fu questo il motivo della mia sorpresa quando conobbi Simone di persona, e mi resi conto che doveva aver finito la quarta elementare la settimana prima. Ciò nonostante mi dissi che ci doveva essere del buono in quel ragazzo, se ascoltava quella musica, e fu così che, senza rendermene conto, diventai suo amico. Che è un po’ quel che dicono i cocainomani, adesso che ci penso.
Vabeh.
Qualche anno, molte birre e una piadina formaggio e nutella dopo, una sera ci muovemmo alla volta di Roma per andare al concerto di quel gruppo (cosa che ripetemmo in seguito, per andare a una manifestazione del PD: a noi le cose, se non sono fuori moda non ci piacciono mica). Ci andammo in compagnia di un signore che, dall’alto della sua autorevolezza, ci convinse che al Circo Massimo avremmo trovato quattro gatti e non c’era bisogno di affrettarsi; e in effetti i romani erano ancora tutti a casa, ma intanto altre duecentocinquantamila persone avevano pensato bene di prendere i posti migliori. Di quella notte ci rimane il tenero ricordo di quest’uomo che fende la folla come Mosè ritornando a noi con una pannocchia in mano, e il pensiero che quello fu il loro ultimo concerto.

Ecco, fratelli e sorelle, avevo questi due ricordi e cercavo un modo per metterli insieme e dar loro un senso. Ed è stato in quel momento che mi sono ricordato che nel lontano luglio del 2004 io feci un’intervista allo sposo, un’intervista che pubblicai sul mio blog (sì, sì, va bene: c’era un solo motivo al mondo per cui dovessi intervistare Simone? No. Il che mi pare un ottimo motivo, a ben vedere). E mi sono ricordato di una domanda, e di una risposta, che vado a leggervi:

SMS - E infine, le viene concessa la facoltà di esprimere un desiderio da inoltrare a Babbo Natale. C'è tempo, è vero, ma è meglio portarsi avanti col lavoro.
PCI - Il suo acume mi stupisce, o intervistatore. Mi verrebbe quasi da dire che è nel ramo marketing.
"Stimato Commendator Natale,
In quanto rappresentante legale dell'Ordine dei Single Patetici, ti chiederei di portarmi, magari anticipatamente, una persona che mi sopporti, che sappia capire il caos esponenziale della mia mente e che, nei ritagli di tempo, dimostri della stima e - perché no? - dell'affetto nei miei confronti.


Ora, se in questo preciso momento non vi siete sciolti in un mare di lacrime siete il fratello cattivo di Charles Bronson e la vostra durezza di cuore non dovrebbe essere giustificata dal sapere che la risposta continuava dicendo “Ma, se non ce l'hai, va benissimo anche un milione di euro in banconote di piccolo taglio e un'autobotte di gelato alla menta."

Il fatto è che adesso le cose si tenevano insieme: il nome di quel blog, questa risposta, quel concerto. Perché vedete, quel gruppo, che si chiamava Genesis, scrisse una canzone. Che io e Simone e milioni di altri abbiamo ascoltato milioni di volte. Si chiama The Cinema Show, parla di un ragazzo e di una ragazza, e a noi oggi piace pensare che parli di Simone, e di Elena. Ci sono sei righe in quella canzone, che sono una delle più belle dichiarazioni d’amore che noi abbiamo avuto la fortuna di sentire. E che adesso, se vi va, leggiamo a loro, e per loro.
(SirSquonk – in inglese – e grushenka – in italiano – hanno letto una canzone dei Genesis)
Take a little trip back with Father Tiresias,
Listen to the old one speak of all he has lived through.
Fai un piccolo viaggio indietro nel tempo con Padre Tiresia
Ascolta il vecchio raccontare tutto ciò che ha vissuto


I have crossed between the poles, for me there’s no mystery.
Ho attraversato la terra da un polo all’altro, per me non ci sono misteri.

Once a man, like the sea I raged,
Once a woman, like the earth I gave.
But there is in fact more earth than sea.
Quando ero un uomo, mi infuriavo come fa il mare
Quando ero una donna, donavo come fa la terra
Ma, alla fine, c’è più terra che mare.
Ecco fatto. Siamo quasi arrivati. Ora, come impone la legge, procederemo con le promesse e gli impegni, cioè dando lettura dei diritti che gli sposi acquisiscono e dei doveri che si assumono unendosi in matrimonio, cose importantissime e non prive di conseguenze come, per esempio, l’assistenza carceraria, l’assistenza ospedaliera e la pensione di reversibilità.

Quindi LEGGO AGLI SPOSI LE PRINCIPALI DISPOSIZIONI DEL CODICE CIVILE CHE RIGUARDANO I DIRITTI E I DOVERI DEI CONIUGI FRA LORO.

Articolo 143 – Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.

Articolo 144 – I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita famigliare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa.
A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato.

Articolo 147 – Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.

Dichiara il signor Simone Marchetti di voler prendere in moglie la qui presente signora Elena Marinelli?

(Ha risposto di sì.)

Dichiara la signora Elena Marinelli di voler prendere in marito il qui presente signor Simone Marchetti?

(Anche lei ha risposto di sì.)

Io, Marco Manicardi, delegato dal Sindaco alle funzioni di Ufficiale dello Stato Civile, pronuncio in nome della legge che:
il Signor Simone Marchetti
e
la Signora Elena Marinelli
qui presenti
sono uniti in matrimonio.

Lo sposo può baciare la sposa (questo non c’era scritto ma ci tenevo da matti a dirlo).

Grazie a tutti.
Abbiamo finito.
Andate in pace.

5 commenti:

  1. Anonimo10:10 PM

    Mi è piaciuto un sacco leggere la trascrizione della tua giornata.
    Ciò non sarà privo di conseguenze.
    Tornerò a leggerti.
    Ciao!

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  2. È un matrimonio, non un funerale.
    Non si può andare in pace :-D
    Saluti,
    Mauro.

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  3. Proprio un matrimonio «moderno». Speriamo che duri!

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  4. Maledetti che mi fate piangere in ufficio, non si fa!

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  5. Beh caspita sono senza parole davvero, ho letto tutto d'un fiato e mi sono venuti i brividi, sliding door si dice di solito no... apri un blog, crei un evento e via due persone di conoscono e si innamorano.
    Ed è davvero bello, nel vero senso della parola...
    grazie

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