giovedì 14 marzo 2013

Blu

Quella mattina m’ero svegliato presto, era una domenica, dovevo andare a casa dei miei genitori che mi avevano preparato una bella torta di compleanno perché era il sette di febbraio e io diventavo per la prima volta trentunenne. Tutto contento, mi son fatto una doccia, mi sono vestito, ho detto alla mia signora «Dai, che andiamo, che siamo sempre in ritardo» e, mentre lo dicevo, m’è arrivata una lama tipo coltello di Rambo nel fianco sinistro.
Mi sono piegato in due sul pavimento.

Dopo due ore ero passato dal pavimento al letto, con questa fitta persistente, non sinusoidale come gli altri dolori a cui ero più o meno abituato, che rischiava di farmi perdere la ragione. La guardia medica, prontamente telefonata dalla mia signora allarmata, mi aveva detto che forse era mal di stomaco (mal di stomaco nel fianco sinistro?) e mi aveva consigliato di imbottirmi di Buscopan. Imbottito di Buscopan stavo lì sul letto con le lacrime agli occhi, a urlare il mio dolore al mondo e alla guardia medica.
«Devi portarmi al Pronto Soccorso, Cate» ho detto rantolando alla mia signora. «Oddio, vaccaboia, sul serio?» ha risposto lei, che aveva una settimana di patente sulle spalle e guidare aveva guidato solo con l’istruttore e con me, pochino pochino, e comunque senza mai trovarsi nella situazione di dover prendere delle decisioni in quel magma d’asfalto e lamiere che è la vita della strada. Ha preso fiato, si è fatta coraggio e «Va bene, dai, andiamo,» mi ha detto. Così, pian pianino, un passo alla volta, abbiamo fatto le cinque rampe di scale verso il portone e i cinquecento metri verso la macchina parcheggiata.

Io non lo so, cosa succede in queste situazioni, ma quando dicono che le persone in situazioni di pericolo hanno delle reazioni spettacolari, come le mamme che sollevano le automobili a mani nude perché sotto ci è rimasto il figlio e cose così, io ci credevo fino a un certo punto. Adesso invece ci credo davvero, ci credo da quando ho visto la mia signora, con una settimana timorosa di patente sulle spalle, diventare una specie di pirata della strada, bruciare i semafori col clacson pigiato, prendere le rotonde senza toccare il freno e imprecando contro gli altri automobilisti aventi diritto di precedenza, poi parcheggiare in linea sulla sinistra nello spazio esatto a meno di qualche millimetro per una Punto tra altre due macchine, con una manovra da manuale dopo essersi fermata quattro secondi in mezzo alla strada e aver detto guardando Dio cose come «Un parcheggio a sinistra, cazzo, non l’ho mai fatto… Vaffanculo, male che vada, gli vado addosso.»

Eccoci quindi al Pronto Soccorso. Entriamo d’urgenza, codice rosso, la dottoressa tira fuori un ago gigante (sono un agofobico, puoi mettermi una tarantola viva in mano che non faccio una piega, ma se vedo un ago mi metto a correre fortissimo nella direzione opposta alla persona che lo brandisce), me lo mette davanti agli occhi e mi dice «Devo prenderti del sangue.» Le rispondo a gesti, tirando su la manica sinistra e porgendogli il braccio con un «Faccia presto, la prego.» Poi piscio in un bicchiere di carta e la dottoressa ci mette dentro una specie di reagente, agita un pochino e sentenzia: «Colica renale.»
E subito dopo: «Fa male, vero? È uno dei dolori più forti che ci siano. Pensa, Marco, sei fortunato, hai il privilegio, da uomo, di sperimentare i dolori del parto.»
Giuro. Ha detto così. Grazie tante dell'informazione, avrei voluto dirle, ma ero troppo tramortito per mandarla a cagare. Volevo solo che m’infilasse nel braccio un altro ago, quello della flebo di soluzione salina che, mi assicurava la dottoressa, mi avrebbe fatto passare tutto in mezz’ora abbondante.
E così è stato. E, questa volta con tutta la calma del mondo, siamo tornati verso casa.

Prima di tornare a casa, però, mi avevano anche fatto un’ecografia. C’è un simpaticissimo calcolo di quattro millimetri nel rene sinistro. «Troppo grande per uscire da solo per il condotto urinario; troppo piccolo per un’operazione o un bombardamento.»
«Te lo devi tenere,» dice la dottoressa del Pronto Soccorso che ormai venero religiosamente.
E niente, deglutisco e me lo tengo.

Il giorno dopo, vado dal mio medico di base e lui mi prescrive del Toradol per i futuri attacchi. «Non più di dieci gocce quando inizia l’attacco, non meno. Quattro volte al giorno al massimo. Ti prescriverei della Morfina, che è meno tossica per l’organismo, ma poi ci sarebbero altri problemi e, insomma, fai il bravo,» mi dice il dottore, «mi raccomando.»
Mentre la mia signora mi riporta a casa (prendendo anche una multa per aver parcheggiato in divieto di sosta) leggo il bugiardino del Toradol a voce alta. Così a prima vista, sembra uno script del giovane Tarantino.

Nei quattro giorni successivi va tutto a gonfie vele, non ho mai più di quattro attacchi al dì e quindi sono in linea col numero di goccine di Toradol prescritte, gli attacchi diminuiscono via via d’intensità e io riprendo a sorridere alla vita. Dopo ogni dose di Toradol, tempo dieci minuti e cado nel più profondo e pacifico dei sonni. Faccio tantissimi sogni e sono tutti coloratissimi, avventure all’inizio degli arcobaleni, piccoli mini pony della felicità prima del risveglio, qualche ora dopo, senza più l'ombra del dolore. Una resurrezione, ogni volta.
Tutto molto bene, insomma.
Tutto molto bene fino al pomeriggio del quarto giorno… quando… eccolo. L’attacco. L’attacco supremo. L'onda d'urto degli attacchi precedenti. Il coltello di Rambo infilato nel fianco che gira e rigira nella carne. Le urla, il delirium. Urla che vengono ascoltate soltanto da una gatta e da un cagnetto di piccola taglia perché, orrore e panico, la mia signora non c’è, sta lavorando, non può darmi le goccine di Toradol e farmi tante coccole mentre m'addormento e l’attacco sparisce. Non so cosa fare. Chiedo aiuto agli animali domestici che mi guardano disarmati.

Mi faccio forza e procedo gattoni fino alla cucina dove riempio un bicchiere con dell’acqua del rubinetto. Poi striscio per casa e raggiungo l’armadietto dei medicinali, tiro fuori il Toradol, rileggo il bugiardino per sicurezza, riempio la pompetta attaccata al tappo e la metto in verticale sul bicchiere.
Prima goccina, seconda goccina, terza goccina, quarta goccina.
Chiudo gli occhi per il dolore, quinta goccina, faccio un gridolino, sesta goccina, settima goccina.
Il cagnetto di piccola taglia, impietosito, viene a leccarmi il viso e…
A quante goccine ero?
Vacca d'un cane. Quante goccine mancano?
Tre? Quattro? Due?
Mentre sto cercando di ricomporre un pensiero cosciente, le dita stringono la pompetta e tutto il liquido tossico che c’era dentro finisce nel bicchiere.
Subito penso di buttar via tutto, riempire di nuovo il bicchiere e riprovare, ma sto troppo male, troppo. E senza accorgermene, sto già bevendo. Poi…

Poi, niente. Il dolore sparisce, così, all’improvviso.
Mi rialzo e rido come un matto. Esulto. Decido che sto così bene che voglio portare a spasso il cane, allora mi metto il cappotto, attacco il guinzaglio e via, vieni Raskolnikov (si chiama così), andiamo fuori a fare un giro, che la vita è bella. Alé.
Scendo in Corso Alberto Pio e la gente è tutta cordiale, mi saluta il barista del mio bar e io gli sorrido, mi salutano gli altri padroni degli altri cani, e io lascio che i nostri animaletti s’annusino festanti i deretani, vado verso Piazza Martiri e c’è un bel sole, i vecchietti sulla panchina stanno giocando a scacchi, le biciclette zigzagano contente, Raskolnikov fa le sue pisciatine sui pali e sui piloni e tutto è tranquillo, tutto è perfetto.

Tutto perfetto a parte un piccolo particolare: è tutto BLU.
La gente, è blu. I cani, son blu. Le case, blu. Le strade, il barista, i vecchietti che giocano a scacchi, la piazza. Tutto blu. Di un bel blu elettrico e acceso tipo Windows XP.
Le mie mani sono blu. Raskolnikov ha il pelo blu e piscia su dei piloni blu con della pipì blu.
Veh che strano, mi viene subito da pensare. Chissà com'è che è tutto blu.

Mi risveglio quattro ore dopo e sono sul letto in posizione fetale. Un filo di bava mi scende dall'angolo della bocca affondata nel cuscino. La gatta mi dorme ai piedi e il cane di fianco. Sento che la porta si apre ed è la mia signora che torna dal lavoro.
Accendo la luce e le cose hanno il colore che devono avere le cose, e solo le cose normalmente blu adesso sono blu. Respiro.
Da quel giorno non ho più avuto altri attacchi. Nessun coltello di Rambo è più venuto a rigirarmisi nel fianco. E la vita è ricominciata, coi suoi alti e i suoi bassi, proprio come me la ricordavo.

E questa è la storia delle mie coliche renali.
Oggi è la Giornata Mondiale del Rene e io la festeggio con due litri abbondanti di acqua del rubinetto.

***

(Per il resto, è andata a finire che il calcolo di quattro millimetri è rimasto fermo lì nel rene sinistro per un anno e mezzo, poi un bel mattino ha deciso autonomamente di uscire passando per il pistolino, insieme a dell’urina e a qualche schizzo di sangue, ma niente di preoccupante, a parte la sensazione strana di pisciare un sasso e sentirne il “ting!” sulla parete dello water macchiata di rosso; dal giorno dell'attacco e del Grande Sogno Blu bevo sempre tanta acqua e faccio sempre tanta plin-plin, che fa bene alla salute anche in generale; il Toradol ho dovuto nasconderlo per evitare che la mia signora ne facesse un uso sconsiderato una volta al mese quando è in preda alla sua cara amica dismenorrea; adesso sono fortunato perché conosco i dolori del parto e per questo se avremo mai un figlio, sarà la mia signora a dirmi quando vuole averlo, sarà lei a dirmi «sono pronta, via!» e io procederò di conseguenza e sarò sempre al suo servizio, visto che sarà lei a dover patire da sola il dolore dei dolori; la mia signora, tra l’altro, adesso, guida che è uno spettacolo.)

2 commenti:

  1. Un racconto dell'orrore! Il Toradol sta via via sostituendo il famigerato Demerol (che ricorderai se hai letto Infinite Jest, come credo tu abbia).

    RispondiElimina
    Risposte
    1. eggià. e il toradol è addirittura più tossico (anche se non è oppiaceo).

      Elimina