lunedì 25 febbraio 2013

Come (prodromi di "Cuba al año siguiente")


Ci sono dei momenti che quando li ripensi, ti ci ritrovi completamente dentro, e ti chiedi come hai fatto a uscirne vivo. Anche perché la risposta a queste domande può sempre tornarti utile.
L'anno scorso, esattamente un anno fa eravamo appena tornati da Cuba.
Un giorno te lo racconterò tutto il viaggio, giurin giuretto, ma adesso è qualcos'altro che volevo raccontare.

Dopo i primi giorni a L'Avana (solo la descrizione degli spostamenti meriterebbe un capitolo a parte) scendiamo in direzione sud-ovest, a Viñales, piccolo paesino situato nel cuore della zona "montuosa" dell'isola, verso l'estremità che guarda al Messico. Il paesaggio qui ha poco di quel caraibico classico, anzi, è tutto verde, umido e boscoso. Viñales è circondata da Mogotes, montagne di formazione calcarea non molto alte ma certamente impervie, e da campi di tabacco a perdita d'occhio. Non c'è molto altro (anche se pure le piante di tabacco, dopo che le hai accarezzate, meriterebbero un poeta come García Lorca).

Dopo il primo giorno che, grazie a un meraviglioso bus a due piani scoperchiato, passerai guardando il paesino carino, con la piazzetta e la chiesetta carina (praticamente abbandonata), la strada che taglia in due la città e le varie attrazioni turistiche nei dintorni, come il murales più grande del mondo (è qui, sìsì, controllate pure, lo dice pure l'unesco, e ci sono pure i dinosauri dipinti sopra, che non avete idea le feste dei bimbi quando svoltato l'angolo, compariva il fianco della montagna e dentro la montagna, i dinosauri. In realtà dico così perché l'ho fatta io la faccia stupita, da o minuscola quando ho visto i colli giganteschi dei prontosauri spuntare da dietro uno spuntone di roccia), il secondo giorno sei già pronto per l'escursione nei dintorni, che è il vero piatto forte.

L'escursione. La persona che vi ospita, perché un'altra cosa bella di Cuba, non so se lo sapete, è andare a casa di gente che ha l'autorizzazione a ospitarvi, si chiamano casas particulares e vi ospiteranno facendovi conoscere il posto dove siete un po' più da insider (ma a volte è un rischio), con tipica (e abbondantissima) cucina cubane e cortesia infinita, vi chiederà quasi subito se siete intenzionati a fare un giretto nei paraggi di quattro- cinque, anche otto ore. La guida, gentiluomo fidatissimo del tuo oste, una volta concordato l'orario passerà a prendervi.
La seconda domanda del gentilissimo ospitante è: come vuoi fare l'escursione? la puoi fare a cavallo o a piedi.
A piedi costa meno e probabilmente non rischi di dover spiegare in uno spagnolo confuso che sei caduto da cavallo ma il piede s'è incastrato nella staffa e ti sei raschiato la faccia su qualche miglio di sterrato rosso.
Oltretutto camminare fa bene. Apprezzi meglio il paesaggio. Ti soffermi sulle piccole meraviglie. Respiri a pieni polmoni. Saluti e dici tre parole tre con i contadini, che lì la meccanizzazione ancora non ce l'hanno tanto, e quindi sono lì a zappare sotto il sole giaguaro (lì davvero giaguaro) dall'alba al tramonto. E poi c'è pure un ponticello di corde da attraversare per arrivare alla grotta con la cascata e le stalagmiti, e lì col cavallo non ci puoi mica andare. E nella grotta ci si poteva fare il bagno ma nessuno di noi aveva il costume e allora nisba, ci allontaniamo, mentre l'eco di tutti quei - plim! - delle gocce che cadono alle tue spalle sembrano sconsolati addii in risposta al tuo sicuro Tanto ritorno e la prossima volta ci faccio il bagno, ci faccio.
Ora stiamo prendendo la via del ritorno, ma per farvi vedere un albero bellissimo, maestoso e leggendario, la Ceiba, abbiamo preso una strada nuova e tocca fare una scorciatoia.
Tradotto: si esce dal sentiero e tocca passare per le piantagioni e per i prati.
Su un prato leggermente scosceso, mentre stiamo salendo sotto il sole che, ve lo ricordo, qui è giallo cedro, superata una piccola boscaglia, lo vedrete all'ultimo momento: il toro più grosso che abbia mai visto.
Nero, nerissimo. Come deve essere.
Grosso e grande, come non te lo ricordavi dalla Spagna o dagli allevamenti che hai visitato durante le gite nelle aziende alle superiori e nemmeno come te lo ha raccontato Hemingway in tutte le sue corride.
Per darti un'idea più precisa, sono alto quasi un metro e ottanta e gli arrivavo alla spalla, ma sopra la sua spalla c'era praticamente una nuvola di muscoli e il suo occhio era grosso come il mio pugno.
Tutti ammutoliti.
Fermi.
Respiriamo, ma solo perché i polmoni sono muscoli lisci.
Solo la guida, alla quale germoglia una piccola ruga in mezzo alla fronte, strappa uno stecco, inizia a ondeggiarlo come Zorro verso l'agglomerato di simmental non ancora lavorato e comincia a fare quei tipici versi e schioccamenti di bocca che faresti al tuo gatto quando vuoi dirgli di non pisciare dentro il vaso dei gerani.
Il toro ha pacificamente registrato la nostra presenza.
Ha sollevato la testa e tra i muscoli a forma di tubi da grondaia che si ritrova sul deltoide spunta una corda, che finisce alle sue spalle.
Vagamente rincuorati, azzardiamo qualche passo per aggirarlo, mentre la guida continua a sbuffare come se quel monolite di bovino fosse solo un cane che potrebbe scodinzolargli incontro e saltargli addosso per fargli le feste, scocciandolo e sporcandogli i pantaloni della domenica.
Nel piccolo tragitto per superarlo nessuno di noi stranieri guarda direttamente verso il novello Zeus dell'America latina ma non posso fare a meno di sbirciare dove finisce la corda che lo tiene al suo posto, nostro estremo baluardo.
La corda, già tesa quanto basta a una lavandaia per buttarci sopra i panni, è legata a una pertica, un bastoncino, più piccolo del polso di una ballerina. Che ondeggia, impercettibilmente. Anche se il toro è immobile, di pietra. Basta il vento a smuoverla.
E in quel momento, in un lampo, ho realizzato che l'unico di tutti e cinque che eravamo lì, ma forse anche di tutti quelli che abbiamo incontrato quel giorno, l'unico con la maglietta rossa, ero io.

Non c'entra molto, è passato un anno e chissà dov'è andato a finire il toro, la guida, i simpaticissimi compagni di viaggio e tutte le persone che abbiamo conosciuto, ma in questo periodo, facendo una analogia, io, con la mia vita, sono nella stessa situazione.

1 commento:

  1. "Respiriamo, ma solo perché i polmoni sono muscoli lisci." ahahah genio

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