giovedì 28 luglio 2011

Gli antieroi: Gabrielle Andersen Schiess

In Svizzera ci sono le montagne. È pieno. L'inverno svizzero è rigido, e anche l'estate non scherza. Quante volte, passando sotto il San Gottardo, che è la galleria più grande d'Europa proprio perché ci sono un casino di montagne, avete visto che il tempo cambiava completamente? Se all'imbocco c'era il sole, dall'altra parte pioveva o c'erano dei mega nuvoloni. Ecco, Gabrielle Andersen Schiess è nata in Svizzera, nel 1945. E infatti fa l'istruttrice di sci. Sono forti gli Svizzeri, nello sci. Gabrielle però ha anche un'altra passione. Gabrielle corre. Corre molto. Diventa brava a correre le lunghe distanze.

È da tanto che il comitato olimpico parla di inserire la maratona femminile nelle gare alle olimpiadi, ma in molti dicono che le donne non sono in grado di correrla, una maratona. Il dibattito si prolunga per anni, fino a quando si decide che nel 1984, alle olimpiadi di Los Angeles, si correrà la prima maratona olimpica femminile. E Gabrielle la maratona la vuole proprio correre, perché è forte. Ne corre una l'anno prima, nel 1983, proprio a Los Angeles. Poi un'altra a Minneapolis, sempre nel 1983. Le vince tutte e due.

L'anno dopo, alla non più verde età di 39 anni, Gabrielle Andersen Schiess si trova a correre la maratona olimpica. Il destino vuole che ci sia un'umidità assurda, visto che in California il 5 di agosto non può che fare un caldo infernale. La gara, inoltre, si tiene all'orario peggiore: sono le ore più calde della giornata, ma la televisione vuole così, alla faccia dell'importante è partecipare.

Vince un'atleta di casa, la Benoit, che dopo pochi minuti parte in fuga. Terza la mitica Rosa Mota, una fuoriclasse che negli anni saprà imporsi come tale. Gabrielle è indietro ma non importa. L'importante spesso, nelle maratone, è l'impresa. Il gusto di arrivare alla fine.

Gabrielle salta l'ultimo rifornimento, non si sa se per una decisione azzardata o per distrazione. La cosa si rivela micidiale. Dopo venti minuti dall'arrivo della Benoit Gabrielle entra nello stadio completamente disidratata. Il busto non riesce a restare dritto, le gambe sono bloccate e Gabrielle cammina, a volte sballottata a destra e a sinistra, l'impressione è che stia per accasciarsi al suolo distrutta. I giudici le vanno vicino per sorreggerla e lei, Dorando Pietri in gonnella, con ampi gesti delle mani intima loro di andarsene. Vuole finire da sola, costi quel che costi. Per quel giro di pista Gabrielle impiega QUATTRO MINUTI E CINQUANTACINQUE SECONDI. Roba che se li fate andando carponi ci mettete di meno. Un tempo interminabile, durante il quale lo stadio ammutolisce in preda all'ansia più incredibile che riusciate a immaginare.

Alla fine Gabrielle taglia il traguardo e finalmente può essere soccorsa e portata in ospedale, dal quale verrà peraltro dimessa dopo appena (si fa per dire) due ore. Trentasettesima, per la cronaca. Ma la vera tragedia forse è quella di Joan Benoit, la statunitense. Vince una medaglia d'oro alle olimpiadi e a distanza di tempo si dimenticano tutti di lei. La memoria collettiva ricorda, di quell'edizione, un'istruttrice di sci delle alpi svizzere che fece battere il cuore al mondo intero per quasi cinque interminabili minuti.

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