giovedì 26 maggio 2011

Cicatrici: Il buco

(Posizione)
Indefinita.

(Cause)
Ti si vedono le costole.
Eh.
Davvero: ti si vedono le costole.
Eh.
Ma non ti sembra troppo?
Troppo?
Troppo poco.
Eh.
È che davvero, fai impressione: ti si vedono le costole.
Allora non mi guardare, pensavo, non mi toccare, no? Non mettermi un dito addosso come fossi San Tommaso, non c’è nessuna comunione da onorare, sai?

Invece dicevo solo: Eh.
A 14 anni ero magrissima.
Mi pesavo ogni mattina prima di far finta di fare colazione: scarsi 42 chili nei giorni in cui mangiavo un po' di più e 40 di norma, che norma poi non era. I miei ossi ben in vista non si sono mai frantumati. Nemmeno una botta, nemmeno una cicatrice, nemmeno una tintura di iodio, mai una caduta, mai fatta male. Non ho avuto nemmeno un'indigestione o un'influenza, a 14 anni.
Il pericolo peggiore era svenire sotto al sole delle 3 di pomeriggio, lo scongiuravano tutti, mi avvisavano in continuazione, invece no: funzionavo benissimo. Passavo il tempo tra scuola, libri, biblioteca, un numero di ore di attività fisica che variava dalle 3 alle 6 al giorno. Le femmine della mia classe mi dicevano strana, mi guardavano come un vestito mal cucito e i maschi cominciavano a notarmi come un essere movente e attraente, nonostante il peso, mi guardavano parecchio, anche timidamente, ma erano pruriginosi; eppure non stavo mai completamente da sola. Mi preoccupavo di distanziare chiunque, non riuscendoci mai fino in fondo. Ho pensato qualche volta che ci provassero gusto a tenersi così vicini, a vedere cosa c’era di morboso da curare e vestire, ma soprattutto toccare.
Guardandomi da fuori, che è una pratica strana, mi ci sono abituata un po’ per volta come se avessi iniziato a gestire un superpotere, analizzavo ogni millimetro del mio corpo per conto suo. La visione sintetica d’insieme, quella che ti accompagna mentre provi i vestiti o passi di sfuggita davanti a una vetrina e ti specchi, quella che hai in mente quando qualcuno parla di come ti sta una cosa o come sei fatto, quella vanità finita e armonica che si ha verso il proprio corpo io non l’avevo mai provata.
Ero un chirurgo della mia immagine allo specchio: ossessivamente, annotavo ogni giorno di quanti millimetri il mio corpo sforava da un lato, su una giuntura, su un angolo di articolazione; quando mi vestivo, riuscivo a pensarne ogni centimetro e ricalcarlo con la mente, lo rifacevo ogni mattina come si fa una statua, lavorando il marmo freddo e sperando di sporcarmi le mani il meno possibile.

Le ossessioni non accettano i buchi, gli spiragli, le smussature, l’accondiscendenza. Le ossessioni hanno sempre una punta, uno spigolo e un buco da rattoppare che mia madre sperava di vedere, prima o poi. Dal mio uscivano diverse cose: la passione per gli altri, la curiosità, le buone maniere, il cibo sì ovvio, la voglia di fare le cose e quella di andarmele a cercare e una cicatrice ancora sfilacciata che lo rimarginasse.
Il corpo, credo, fa di tutto per farsi bello, siamo noi che cadiamo, ci imbronciamo, lo nascondiamo, ci trucchiamo troppo. Di suo tende ad essere perfetto. Il mio a un certo punto si è cicatrizzato contro ogni controllo: a modo suo, un modo storto e scellerato, si è curato, aggiustato.

Ogni tanto dico di essere cresciuta un giorno preciso, a un’ora precisa, a 20 anni, dentro un camerino di un negozio a Bologna. Compravo un vestito di seta, mi serviva per un matrimonio, ero all'università da otto mesi, era maggio e in camerino ho notato per la prima volta un principio di cicatrice: verticale, asimmetrica, sui miei capelli di nuovo lunghi, sui fianchi morbidi e sul seno. Vedevo il buco tutto intero, mi sembrava enorme e senza fondo, come il pozzo in cui cado nell’incubo peggiore e nello stesso istante questa cicatrice iniziava a richiuderlo, quel buco.
Una cicatrice lunga, la più brutta che io potessi immaginare, chirurgica, di colore più chiaro del normale della mia pelle, raggrinzita nel mezzo e tonda, morbida sugli estremi, accogliente come il corpo di una donna. Si sarebbe vista tutta la vita, mi avrebbe seguito come il più fedele dei cani.

(Conseguenze)
L’impiccio.

Impiccio da dire è fastidioso perché c'è "im" e mi viene spesso da dire "in" se sto parlando o scrivendo da un po', mi succede sempre, e poi fa rima con capriccio.
Ecco: è una cicatrice impicciona, questa, ogni tanto la gratto e se sanguina devo occuparmi per forza di lei, non posso farne a meno, come di un bambino capriccioso. Mi fa perdere tempo.
È l'unico difetto che ha, in fondo, farmi perdere tempo.

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