martedì 30 marzo 2010

Biografie essenziali (speciale scienziati)

Un lettore appassionato dice che purtroppo nelle nostre biografie essenziali non c'è mai uno scienziato. Allora ne ha scritte alcune lui. Lui è Peppe Liberti, e noi barabbisti gli vogliamo un bene dell'anima e lo ringraziamo da qui alla fine dei tempi - la quale potrebbe essere più vicina di quanto immaginate, dato che hanno appena acceso l'LHC.

Le biografie essenziali di Peppe, che parlano di Ludwig Boltzmann, Georg Cantor, Ettore Majorana e Alan Turing, le trovate qui.

Ancora grazie, Peppe. Boom.

Biografie essenziali (23)

Miguel de Cervantes Saavedra perse l'uso della mano sinistra nella battaglia di Lepanto. Fortunatamente non era mancino.

lunedì 29 marzo 2010

Finché non finiscono i binari del treno

Mia bisnonna, Galavotti Angiolina, detta Bionda, detta Scelba, era una comunista doc, di quelle con la tessera del ’22 perché, sosteneva, nel ’21 non le avevano stampate. Quando c’era da andare a votare, la Bionda voleva tenere colloqui privati con ognuno dei fratelli, figli, nipoti e pronipoti. Diceva loro – a noi – sempre la stessa frase, tutti gli anni: dove vedi una falce e un martello, te mettici una croce, mi raccomando. Te la diceva in privato e noi non abbiamo mai capito il perché. Però oggi, così, a pensarci dopo tanti anni che lei non c’è più, oggi mi sembra una cosa di una nobiltà eccezionale. E che potere di suggestione, cavoli.

Fino a qualche tempo fa pensavo che la Bionda avesse avuto solo dei fratelli. Invece mi hanno raccontato che esisteva una sorella, ma era talmente tanto tempo che nessuno aveva sue notizie che ci si era scordati perfino del nome. La sorella della Bionda, mi raccontano, era una che votava comunista non tanto per indole, ma perché la Bionda, in quei suoi colloqui privati prima delle elezioni, aveva un potere di suggestione tale che quando ti trovavi nella cabina la mano faceva la croce da sola. Però la sorella della Bionda, anche se diceva di esserlo, nessuno ha mai capito se fosse comunista davvero. Una cosa era certa: era povera, ma povera un bel po’.

Talmente povera che una volta un prete le ha dato dei soldi. C’erano le elezioni di lì a poco e il prete le ha detto se per favore poteva dare un voto alla Democrazia Cristiana, che i preti quando hai bisogno di soldi te li danno sempre, i comunisti, invece, vogliono qualcosa in cambio e questo qualcosa è la tua anima e l’anima è solo di Dio, quindi se non voti Democrazia Cristiana non solo vai all’inferno, ma può anche darsi che non ti diamo i soldi.

La sorella della Bionda, immagino, sarà stata preoccupatissima. Poi sarà stata male, di un male fisico e mentale, quando ha fatto il colloquio con la Bionda prima delle elezioni.

Insomma, alla fine ha votato DC. Però una volta la gente era più sincera e con una certa dignità, quindi, col cuore in mano, è andata dalla Bionda a dirle la verità. Veh Bionda, le ha detto, lo sai che sono povera, mi ha dato dei soldi un prete, io stavolta il voto l’ho dato alla Democrazia Cristiana anche se sono comunista come te, ma come faccio? Lo sai che mi servivano, quei soldi lì.

La Bionda è rimasta seria. Ci ha pensato dieci minuti e poi ha risposto: At ghe d’andér luntàn finché an finisen i binarii dal treno. Devi andare lontano, lontano da qui, finché non finiscono i binari del treno. Che voleva dire più vai in là e meglio è.

E non era mica un’invettiva: era un ordine ben preciso. Così la sorella della Bionda è partita, dicono che è finita a Bergamo. Bergamo era abbastanza lontano da rappresentare la fine dei binari: la Bionda quando le han detto che sua sorella era a Bergamo ha risposto che lei Bergamo non sapeva neanche dove fosse.

E così è finita. Una volta la sorella della Bionda ha scritto una lettera. La Bionda, quella lettera, penso che l’abbia buttata nel pattume senza aprirla. Non si sono più sentite. Non sappiamo neanche come si chiama o come si chiamava, la sorella della Bionda. Chissà poi, negli anni, cosa avrà votato, a Bergamo.

domenica 28 marzo 2010

Pensieri in apnea: favoletta subacquea

Undicesima puntata


Renato Pavirelli si chiamava così perché appena uscito era subito scomparso dalla sala parto. Dopo ore di ricerche febbrili venne ritrovato in un campo di cavoli. Era stato portato lì da una suora che voleva convincere i suoi giovani ed impertinenti catecumeni sull'origine della specie.

A parte quest'episodio, l'infanzia, l'adolescenza e la giovinezza di Renato furono, come si dice, nella norma. Come tutti odiava i clown, adorava le bigbabol alla cocacola, tifava per l'albinoleffe e usava i righelli come spade. La sua prima parola fu "lampione" e il suo primo pianto di dolore fu per un barboncino di marzapane e cioccolato che non voleva mangiare, perché altrimenti l'avrebbe ucciso. Adorava le birre rosse corrette col gin e con l'andare del tempo aveva assunto la forma dei tanti boccali bavaresi che collezionava.

A 37 anni Renato era quindi felicemente separato, senza figli, lontano dalla famiglia e dagli amici di paese. Alcuni riterrebbero questa situazione sufficiente per un malinconico e solitario suicidio, ma Renato no. Credeva in una corresponsione limpida tra la propria indole bonaria e quella divina. La stessa intima convinzione nutriva il suo unico ed innocuo vezzo: l'esibizione timida ma sincera di una centoventisette verde oliva del 1973, ereditata da uno zio bracconiere.

Ma Renato custodiva un segreto e lo custodiva così bene da esserne all'oscuro egli stesso. Fin dall'età di sette anni Mamma e Papà Pavirelli spedirono Renato a seguire tutti i corsi di nuoto possibili, costringendolo a qualificarsi in tutte le categorie immaginabili, da stella marina a caimano, da delfino a serpente degli abissi. La speranza dei coniugi Pavirelli era di ingannare il corredo genetico bottiforme trasmesso al figlio grazie alla tecnica e allo sforzo umano ma la Natura non si lasciava buggerare così facilmente e reagiva di rappresaglia attraverso il metabolismo, colpendo inesorabilmente le piccole golosità del ragazzino: ogni gianduiotto equivaleva a una scatola da 29 , il gelato estivo diventava una torta nuziale a tre strati, l'uovo di Pasqua la sagra milka del brufolo...ma non era questo il segreto, il suo segreto era che nelle sue inconsapevoli nuotate mattutine, con la piscina deserta e in pieno risveglio del mondo, la sua diciannovesima vasca consecutiva a rana era perfetta, impeccabile; sempre, ogni volta. La torsione del collo, lo scivolo della schiena, il colpo a martello dei talloni, il movimento circolare e un po' parrocchiale delle mani, persino l'espressione stupita sul pelo dell'acqua e da tortellino ripieno sotto, tutto in lui era stilisticamente incantevole, da manuale di nuoto, da danza marina, se mai qualcuno si fosse fermato a osservarlo; ma niente, nessuno l'aveva mai notato e questa sublime sequenza, questo climax, questa vetta artistica rimase a lungo sconosciuta ai più e al fautore stesso.

Finché un giorno accadde qualcosa d'inspiegabile. Come al solito Renato aveva concluso il suo turno notturno (era tornitore specializzato, talmente specializzato che la ditta lo prestava a mo' di campione a tutte le imprese d'Italia) e stava nuotando nella piscina municipale di Sermide (MN) quando, terminata la solita e impeccabile diciannovesima vasca consecutiva a rana, salta la luce. Tutto rimane buio per qualche secondo. Nessun segno di vita da fuori, niente pigro risveglio del mondo, niente vento, nessun rumore, solo lo sciabordio lento e prudente di Renato che guardandosi intorno raggiunge a tentoni il bordo vasca. Tre lampi, tre interruttori che scattano per poi saltare nuovamente e infine la piscina s'illumina di luci rosse d'emergenza, ma qualcosa è comparso nel buio. Immenso, veloce e mostruoso. Frastaglia l'acqua come un bambino pestifero sulla spiaggia, con diciassette lunghissime braccia. Un polipo gigante. Il tetto vetrato della struttura lo trattiene a stento ma lui non sembra intenzionato ad uscire e fuori il cielo è cupo, nero come nello spazio profondo. Renato rabbrividisce e nel suo stupore annota altre due follie: il polipo è un assemblaggio di una miriade infinita di braccioli gonfiabili e gonfiati fino al limite; uno dei tentacoli cinge quella che lui battezza lì per lì Sirena a rovescio, dal tronco in su trota, dal bacino in giù gambe femminee lunghissime. Renato contempla per la prima volta una depilazione alla brasiliana. Il verso atavico e stridente del polipo (ma che verso fa? - tipo quello dei mostri cattivi di godzilla, tipo pterodattilo, skreeeeek! - ah, ok) riporta Renato alla realtà, confusa e pericolosa, che sta vivendo. Intanto la sirena a rovescio inizia a a gridare, con voce roca e sensuale: "Aiutooooo! Salvamiiiii!!! " Sembra Valeria Golino. Renato, con agile scatto felino, rotola fuori dalla piscina, s'avvicina al carrello degli attrezzi e con precisione millimetrica scaglia tutte le tavolette (cinquantasette) che trova, recidendo il polipo in più punti e tramutandolo in un ammasso informe di aria e plastica. Le urla diventano rantoli. Renato impugna la pertica per principianti e la scaglia nel centro di ciò che resta. La sirena Golino è finalmente salva.

Si chiama Wanda e con Renato vive in questa piccola dimensione parallela abitata dai (pochi) appassionati di nuoto sincronizzato e numeri primi. Vi chiederete come faccio a sapere tutto questo. Me l'hanno raccontato loro, stamattina, dopo la mia vasca a dorso consecutiva preferita, la centosessantasettesima.

giovedì 25 marzo 2010

Schegge di Liberazione: la divisa del Balilla

Quando gli hanno spedito a casa la divisa del Balilla, mio nonno Corrado, che era nato nel 1925 e faceva le scuole elementari nei primi anni ’30, dato che aveva un vestito solo perché soldi ce n’erano pochi e quello che aveva gli toccava metterlo anche al pomeriggio, perché al ritorno da scuola doveva andare ad aiutare la famiglia nei campi, appena gli hanno spedito a casa la divisa del Balilla, mio nonno Corrado era molto contento. Mio bisnonno Archimede, suo padre, invece, mica tanto.

Al mattino Corrado, con la divisa del Balilla, andava a scuola. Al pomeriggio tornava a casa a piedi, con le scarpe in mano per non rovinarle, si metteva il vestito sgualcito e lavorava nei campi con suo padre Archimede fino a sera, poi a letto presto e il giorno dopo uguale. Tutti i giorni funzionava così. C’era della povertà e c’era da lavorare, perché non erano tanti in famiglia, non si capiva perché erano nati solo due figli da Archimede e dalla Bionda quando nelle altre famiglie di contadini erano in dieci o addirittura quindici. Non si capiva. Allora c’era da lavorare e lavorare sodo. A scuola bisognava andarci, ma al pomeriggio nei campi, che i compiti faceva lo stesso.

Un giorno il vestito che serviva per lavorare nei campi si è strappato. Strappato per il lungo, che non lo si poteva mica usare e ci voleva un giorno o due per ripararlo dato che le cose da fare erano tante. Allora la Bionda, mia bisnonna, ha detto a suo figlio Veh, Corrado, vai mo’ a lavorare con la divisa del Balilla, che non è mica festa, oggi. Mio nonno Corrado, che aveva un po' timore di quella burbera di sua madre, non ha avuto il coraggio di ribattere ed è andato nei campi vestito da piccolo fascista. Archimede non era mica tanto contento di lavorare con suo figlio che aveva indosso quella brutta divisa lì, ma non era un giorno di festa, c’era da lavorare: arare, zappare, vangare e insozzarsi.

Il giorno dopo la divisa del Balilla, come potete immaginare, era sporca. Mio nonno però non poteva rimanere a casa da scuola, quindi, con le scarpe in mano e la divisa lurida, pian piano s’è incamminato verso il paese. Quando è arrivato a scuola si è seduto al banco e tutti lo guardavano. Cosa volete? diceva agli altri, L’ho dovuta usare per lavorare. E così avrà detto anche al maestro, ma questi gli ha dato una bella frustata sulle dita e l’ha spedito dal preside, su nella torretta: la presidenza stava su una torre della scuola, in alto al quarto piano.

Il preside, appena vista la divisa del Balilla tutta sporca, ha urlato con le mani sui fianchi Corrado, ma non ti vergogni, cosa direbbe il nostro Duce se ti vedesse così? Non ci pensi al decoro della nostra Scuola Elementare di Novi di Modena? Poi, senza aspettare la risposta, gli ha dato un gran ceffone. Ma un ceffone che mio nonno se lo ricorda ancora oggi. Un ceffone che quando da piccolo mi raccontava come sono i ceffoni usava sempre quell'esempio lì.

Corrado, appena arrivato a casa, con le scarpe in mano e la guancia rossa, è andato a mettersi il vestito strappato e ha raggiunto Archimede nei campi. Com’è che c’hai il vestito rotto, oggi? gli ha chiesto suo padre. Eh, Babbo, ha risposto mio nonno, Il preside mi ha dato un gran ceffone perché la divisa del Balilla era sporca, guarda qua, c’ho ancora il segno, diobon che gran ceffone.

Archimede è rimasto zitto. Ma non era mica tanto contento. Il giorno seguente, tutti e due con le scarpe in mano, sono andati a scuola insieme.

Corrado è andato in classe, Archimede invece è salito sulla torretta, lassù in alto al quarto piano. Ha bussato garbatamente, poi ha stretto la mano al preside e gli ha detto Buongiorno, son qui per sapere cos’è successo ieri. Il preside gliel’ha spiegato, e forse non notava che nelle braccia di mio bisnonno Archimede si stavano formando delle vene grosse come dei tubi di ferro. Forse ve l’ho già detto: Archimede era l’uomo più forte del paese, una volta ha afferrato un toro per le corna. Questa volta, invece, ha preso il preside per il collo dall’altra parte della scrivania, l’ha tirato su e tranquillamente l’ha messo fuori dalla finestra, al quarto piano. Se tocchi ancora mio figlio, gli ha detto, Se lo tocchi ancora, se solo ci provi ancora io la prossima volta ti lascio cadere giù.

Deve avere capito bene l’antifona, il preside della Scuola Elementare di Novi di Modena, perché il giorno dopo mio nonno Corrado aveva un’altra divisa del Balilla, tutta nuova. E quindi eran due, una la poteva mettere pulita quando andava a scuola, l’altra, quella sporca, la usava nei campi, ed era molto contento. Mio bisnonno Archimede, suo padre, invece, mica tanto.

mercoledì 24 marzo 2010

Schegge di Liberazione: esempi d'autore - 8 Settembre 1943

Spero che anche altri fossero disorientati, in Italia, a questa vigliaccata che faceva il regime di uscire dal ring senza neanche aspettare non dico il primo pugno, ma almeno che qualcuno s'infilasse i guantoni. Certo noi eravamo disorientati: il regime si squagliava come i rifiuti superficiali di un letamaio sotto l'acquazzone, e ciò che contava era la confusione in cui restavamo, la guerra, gli alleati-nemici, i nemici-alleati.
Io e Lelio andammo nella bibliotechina di Tarquinia a cambiare i libri. C'era un ritratto del re Imperatore sul muro, a sinistra un ritratto di D'Annunzio, dall'altra parte un riquadro sbiancato, nel posto dov'era stato il Duce. Lelio montò su una sedia, tirò giù il Re Imperatore e lo appoggiò al muro, per terra; poi allungo le mani per prendere D'Annunzio. La signora bibliotecaria arrossì violentemente e disse: "Eh no, perbacco, quello no: quello è D'Annunzio!". Lelio disse: "Appunto", e lo mise al muro vicino al suo Re. La bibliotecaria stava per mettersi a piangere, mormorava: "Ma è il poeta della terza Italia", o quarta che fosse; ma noi inflessibilmente li passammo tutti e due per le scarpe. Lelio si mise a guardare il crocifisso che era restato solo sopra ai tre riquadri sbiancati. La bibliotecaria si sbiancò anche lei. Dopo un po' Lelio distolse lo sguardo dal crocifisso, e la bibliotecaria ridiventò rossa, e ci cambiò i libri. Mancava il verde.

Luigi Meneghello - I piccoli maestri - Bur, Milano, pp. 21-22.

Mancano 22 giorni per inviare una poesia, un disegno, un racconto sulla Resistenza che comparirà sull'e-book no-profit Barabba dice 26X1 [inviare a marcomncrd chiocciola gmail punto com]

martedì 23 marzo 2010

Andata e ritorno

"Mi chiamo Paolo De Guidi, venivo da Terni e stavo andando a piedi a Cambridge dove sono arrivato il 17 marzo 2010 dopo 97 giorni di marcia e 2036 kilometri. Ovviamente non sono più la stessa persona."
Ho riletto tutta la francigena contromano, dall'inizio, in pausa pranzo. Poi è scoccata l'ora lavorativa: sono tornato l'impiegatucolo terziario di sempre.

lunedì 22 marzo 2010

Biografie essenziali (22)

Molière morì in scena recitando, una morte incredibile e commovente. Un tipo di decesso che spesso tutti augurano ad altri attori, specie in concomitanza con le festività.

Biografie essenziali (21)

Edgar Allan Poe, già malaticcio, fu trascinato a votare per entrambi i partiti U.S.A. e poi abbandonato in strada dove morì assiderato. Poi uno parla di Par Condicio...

Biografie essenziali (20)

Carlo Pisacane voleva fare la rivoluzione e si fidava della gente. Si fidava da morire.

venerdì 19 marzo 2010

Due minuti d'odio (3)

Piuttosto che. Le mail dai titoli incomprensibili, i numeri progressivi, gli ID. Mecciare, foruardare. L'intercalare del capo: sostanzialmente, capito?, in sostanza. Chi legge le mail ad alta voce, chi dice controlcì-controlvù mentre lo fa, chi mugola. Piuttosto che. Le risposte standard dei manager a lavoro ultimato, tipo Ottimo. Il come stai? del mattino, il buon weekend del venerdì sera, il mancato saluto nel corridoio, la fila alla macchinetta del caffè. Quando mancano i Twix nel distributore automatico. Piuttosto che. La misteriosa sparizione degli articoli: settimana prossima, settimana scorsa. Requisito, sistema, sottosistema. Mandatorio. Come tu mi insegni, come ben sapete. Piuttosto che.

giovedì 18 marzo 2010

Gli antieroi: Antonio Elia Acerbis

Antonio Elia Acerbis nasce a Milano il 31 Gennaio 1960. Fin da piccolo adora il pallone, come tutti i ragazzini della sua età, ed è forte, molto forte. Talmente forte che le giovanili del Varese se ne accorgono e lui non si tira indietro. Si fa notare anche lì per la sua abilità finendo, a 17 anni, a esordire in serie B.

Un giorno, dopo una partita particolarmente brillante, gli si avvicina un amico che fa il giornalista. “Ti faccio qualche domanda”. Acerbis acconsente e risponde. Visto che si è tra amici, Antonio confida anche alcune cose che chiede all’amico di non scrivere. “Va bene, figurati” gli fa l’amico.

L’indomani Acerbis compra il giornale e ritrova le sue confidenze spiattellate ai quattro venti, ci rimane male. Anzi, si incazza proprio e decide che non parlerà mai più con i giornalisti.

Cominciano gli anni 80, l’era delle immagini, delle trasmissioni televisive sul calcio dove di calcio non se ne vede quasi, ma in compenso si sente e si vede gente litigare in salotti televisivi sempre più simili a un bar. Il calcio diventa più violento, anche sugli spalti.

Ma Antonio Elia Acerbis nel calcio ci è dentro. Passa all’Udinese dove esordisce in serie A e segna pure un gol, ma dura poco. Ritorna nell’inferno delle serie minori con Monza, Bari e Pescara. Dopo ogni partita, mentre i suoi compagni fanno a gara per finire davanti a una telecamera, lui sta già facendo la doccia e poi si riveste e torna a casa.

Eugenio Fascetti, tecnico esperto di serie B, lo nota e lo prende nella Lazio. La squadra è in serie B per una brutta storia, di quelle che il calcio è pieno, e deve partire da -9 (e la vittoria vale ancora due punti). Acerbis è uno degli eroi di quella stagione, dove si arriva a una salvezza strappata con i denti che per i laziali di lungo corso è una delle annate più belle della storia. Acerbis diventa un eroe per mezza Roma. Tanto che radio, tv e giornali ogni tanto ci provano. Ma lui ha sempre la stessa risposta: “non ho niente da dirvi”.

Arriva anche la serie A, con la Lazio. Il grande circo. I giornali ancora alla carica, le tv idem, di tanto in tanto. “Non ho niente da dirvi”.

Alla fine del 1988 Rocca, ct della nazionale Olimpica, lo vuole per le Olimpiadi di Seul. Lui ringrazia, ma niente da fare. “sto a casa”.

Antonio Elia Acerbis dalla Lazio passa al Verona, dove gioca due stagioni ad alto livello e poi va al Giulianova. Chiude la sua carriera professionistica nel 1992 per andare a giocare nei dilettanti.

***

Alcune voci danno Antonio Elia Acerbis alle Seychelles, titolare di un’agenzia di autonoleggio. Altre lo vogliono residente a Milano, sua città natale, attivo in un Lazio Club della città. Lui sull’argomento non avrebbe probabilmente nulla da dire.

mercoledì 17 marzo 2010

Schegge di Liberazione: in presa diretta

“Quando dalla Sicilia sono venuta a Carpi, facevo…avevo con me il lasciapassare dell’istituto Tommaso Cannizzaro per andare a scuola e fare la prima magistrale superiore. Allora era diverso il sistema…però mi sono accorta che non avevo il palettò, avevo la...come palettò, sebbene era marzo, avevo la mantella da piccola italiana, allora, quella lì. E mi sembrava che andare…a questi istituti a Modena, che il magistrale era solo a Modena…con delle ragazze che avevano delle famiglie bene di Carpi non mi sarei trovata bene. Fra l’altro c’era da prendere la corriera di Valenti, perché allora…oppure il treno, ci voleva dei soldi e noi avevamo il sussidio da sfollati, quindi non è che potevo dire e fare…allora ho promesso a mia madre che dopo la guerra avrei…ripreso a studiare, e allora c’era una legge fascista, se vuoi, che c’erano le madrine di guerra oppure uno poteva andare a lavorare a…a fare qualcosa per…per la patria, diciam così; allora io sono andata, non mi ricordo come si chiama, c’era una parola, precisa... feci domanda alla stazione di Carpi, la stazione di Carpi mi prese, andai a Mantova, un mese, a imparare a fare i biglietti e poi…venni assunta…alla stazione di Carpi, fino a settembre. Nel settembre del 43, quando c’è stato il, quel, quell’armistizio, insomma che sembrava che la guerra fosse finita, invece non era niente finita; era andato giù il fascismo ma, la guerra era tornata a incominciare con i tedeschi, e si vedeva già i tedeschi in stazione, e passare i treni, eh!, ma allora…non si capiva bene…e siccome allora mia madre non ha voluto che io tornassi a andare a lavorare, io sono arrivata a casa ma nessuno mi è venuto a prendere…per tornare a lavorare, io sono stata a casa…dalla stazione così.” (D.A. classe 1926)

Mancano 29 giorni: un racconto, un disegno, una poesia sulla Resistenza - Barabba dice 26X1


lunedì 15 marzo 2010

Biografie essenziali (19)

Mario de Sa-Carneiro aveva pensato di sfracellarsi contro la métro di Parigi. Poi optò per un frac, una flute e della stricnina. Plus chic.

Biografie essenziali (18)

Paul Jackson Pollock era solito sgocciolare nel bicchiere e schizzare con la macchina. La combinazione delle due cose l'ha ucciso.

Biografie essenziali (17)

Charles Bukowski ha scritto di sbronze e abbruttimento, puttane marce e stracci umani. Credo che ci abbia marciato anche un po'. Solo che è morto prima che potessi dirglielo.

domenica 14 marzo 2010

Ieri

Ieri ho scoperto che su internet dimostro quarant'anni e dal vivo ne dimostro venti. Trentuno mi sembra una buona media.

Ieri ho scoperto che ci sono ancora dei posti, in Emilia, dove ti servono il carrello dei bolliti. Mi sono mangiato la lingua e non ho provato dolore.

Ieri ho scoperto che esiste gente bellissima, con la quale, magari, ci si può salvare il mondo. Son sicuro che è possibile. Bisogna provare.

Ieri ho scoperto che ci son delle giornate indimenticabili anche se in fondo non hai fatto niente. Tipo ieri.

sabato 13 marzo 2010

Pensieri in apnea: Usi e costumi

Decima (e approfondita) puntata


Proseguendo nell'indefessa indagine antropologica e sociologica di quel particolare micro habitat che è la piscina, ho scoperto in prima persona che, all'interno di ogni corsia, vigono le medesime forme di galateo e regole d'ingaggio della cavalleria medievale.

Come già accennato, rarissimi sono i momenti di dialogo, d'interazione, tutti accennanti particelle minimali di regole di cortesia: "posso? vada pure - permette? si figuri, prima lei - no, prima lei ecc ecc... Anche senza parlare la mimica dei gesti e dei visi (coperti da cuffie e occhialini), forse tipicamente italica, consente una libera e quieta circolazione anche nelle corsie più affollate.

Ma come ogni autoregolamentazione umana, anche la piscina ha i propri veti, le proprie censure, o quantomeno azioni vivamente sconsigliate. In ordine crescentemente disdicevole ecco il decalogo delle azioni nefaste nel mondo acqueo-clorato:
1) Stazionare lungo i bordi della corsia senza concedere al nuotatore in arrivo l'ebrezza di toccare i mattoni e poter concludere i suoi test interiori
2) Colpire accidentalmente il nuotatore che incrocia l'latro lato della corsia in modo da fargli perdere il ritmo e la serenità
3) Indossare pinne da sub o maschere col boccaglio
4) Bere, perdere il ritmo e inchiodare la fila che ti si è creata alle spalle
5) Inseguire e raggiungere un nuotatore che non s'aspetta di essere "la lepre" o "il velocista" della corsia. Può capitare involontariamente ma l'onta sul raggiunto è così forte che non vi guarderà più in volto. Al momento di ripartire, volterà la testa in direzione opposta alla vostra e starà fermo, obbligandovi a sorpassarlo come una statua di sale a bordo vasca.
6) Fare bolle, ma non dalla bocca...
7) Sorpassare arrogantemente i nuotatori più inesperti o con disabilità evidenti e conclamate
8) Non riuscire nel suddetto sorpasso e provocare ingorghi in corsia
9) Nuotare a delfino in una corsia con più di tre persone, rischiando di rifilare pugni in faccia agli altri
10) Nuotando a rana mettersi in scia dietro una ragazza anch'essa moventesi a rana. Voyeurismo imbarazzante. Si prega il nuotatore di lasciare almeno dieci metri di distanza.

Le regole d'ingaggio per le sfide invece sono pienamente cavalleresche.
Al principio ci si distanzia di una vasca, ovvero uno a un bordo della piscina e uno dall'altro, come a voler garantire a sé e all'altro tutta la libertà di movimento, la serenità, la tranquillità, l'agio di poter nuotare senza pressioni. Poi però alla seconda o terza vasca, valutate reciprocamente le doti e le capacità dei contendenti, se nessuno si ritira, comincia la sfida. La linea centrale che divide in larghezza la piscina sott'acqua è la zona di confine e l'unità di misura della vittoria: quanto prima la si raggiunge e la si supera, tanto più abili e forti saremo rispetto all'avversario. Così, per dieci quindici, anche venti minuti, ci si tramuta in cavalieri da torneo che continuano a sfiorarsi, lance in resta, e a scambiarsi di posto, senza premi o baci di fanciulle in palio.
Infine, conclusa la sfida per abbandono del meno resistente, la soddisfazione sarà tutta interiore. Il perdente infatti non accennerà mai, con alcun verbo, gesto o espressione, alla sconfitta. La vostra sarà una pura e inutile vittoria silenziosa, di cui ovviamente non farete parola con nessuno.

Parlando di vestiario e di "armature", dopo le consuete ricerche e test, posso abbastanza sicuramente confermare (a) che se ti dimentichi gli occhialini sei condannato al dorso perché il cloro è talmente concentrato da bruciare anche dopo ore; (b) che è lecito e consentito indossare strani gadget come pinne da pesca subacquea, palette plasticose e pinze per chiudere il naso ma tale pratica è disdegnata dai veterani; (c) che le donne uniformemente cinte da costume olimpionico sembrano tutte garbate e gentili come nei cori del teatro greco mentre (d) gli uomini si dividono aspramente in magri e/o muscolosi pseudo atleti muniti di slip e semplici amatori tendenti alla pancetta forniti di boxer (si danno eccezioni che ovviamente confermano la regola). Questa netta divisione tra bellatores (slippisti) e laboratores (boxeristi) deve essere cominciata a Sparta e ancora oggi si mantiene in tutte le piscine del mondo. La questione ancora oggi tocca profondamente il mio ego.
flashback - 1989 - Iesolo (Ve) - piscina di un hotel
Gara di nuoto per ragazzini, ho dieci anni, un istinto puro per il nuoto senza aver seguito corsi, ma indosso un boxer di ricambio, l'altro, quello della mia taglia è a lavare. La gara comincia. Anche se legato strettissimo il boxer si gonfia e scivola giù ogni tre quattro bracciate, obbligandomi a interrompere la nuotata. Finisco ultimo. Adesso immaginate la rabbia esplosiva di un tranquillo e pacioso bambino di dieci anni. La vergogna fu cocente ma comunque rimasi fedele al boxer, considerando lo slip un indumento troppo effemminato.
Questa settimana un altro episodio mi ha riconfermato nella scelta di parte: negli spogliatoi ho visto un tipo togliersi camicia, scarpe e calze, maglia, jeans e voilà! grazie al magico slippino, come un supereroe, era già pronto a balzare in acqua. Son cose che lasciano allibiti...

giovedì 11 marzo 2010

Gli antieroi: Jan Jongbloed

Il 10 Maggio 1940 la Germania nazista invase l’Olanda e in cinque giorni di combattimenti i Paesi Bassi divennero parte del Terzo Reich. Iniziava un periodo nero per la storia del paese che durò fino alla liberazione del 1945, grazie alla tenace resistenza olandese e agli eserciti liberatori, in particolare i canadesi e i polacchi.

Nel Novembre di quell’anno, il giorno 25, in un clima di guerra totale e incertezza, veniva dato alla luce in quel di Amsterdam un certo Jan Jongbloed. Il ragazzo crebbe come tanti altri e l’unica cosa che si poteva notare era la sua incredibile altezza, oltre il metro e novanta. Come gli altri ragazzini olandesi, Jan era appassionato di calcio e data la statura veniva spesso impiegato in porta, seppur non disdegnasse altri ruoli. Giocava bene. Talmente bene che si accasò presso la squadra della DWS di Amsterdam. Giocava in porta e si faceva notare, ma aveva un contratto da semi-professionista perché il calcio è un bel gioco ma non si sa mai. Molto meglio un lavoro sicuro.

Jan iniziò a gestire una tabaccheria. Negli anni 60 fumavano tutti, gli eroi del cinema fumavano e tutti volevano fumare. Non c’erano le leggi sul fumo che abbiamo oggi, si fumava nei locali, c’era persino la pubblicità delle sigarette. E comunque non era facile fare il professionista in Olanda, anche se giocavi in serie A. Non era mica detto che guadagnavi abbastanza per vivere bene. E poi, stando alle cronache, Jan aveva una passione ancora più forte del calcio. Jan era un pescatore.

Però giocava bene, talmente bene che si ritrovò a fare la riserva in nazionale. Non che l’Olanda fosse la patria del calcio mondiale, ma il 26 Settembre 1962, alla tenera età di 22 anni, Jan Jongbloed subentrò negli ultimi minuti di gioco al titolare Piet Lagarde. Lo stadio era quello di Copenaghen e i danesi stavano vincendo 3-1. Il giovane Jan riesce, nonostante il poco tempo a disposizione, a subire un gol e la partita si chiude 4-1 per i danesi. La cosa non deve essere piaciuta all’allenatore e all’Olanda intera, tanto che Jongbloed vide chiuse le porte della nazionale a tempo indeterminato.

Poco male. Una cosa da raccontare ai figli e ai nipoti. Si riprende il tran tran in tabaccheria. La tabaccheria va bene, il pesce non manca in Olanda e soprattutto d’estate. Quando in inverno i canali e i fiumi sono ghiacciati si gioca a calcio e si arrotonda. Una carriera un po' monotona nella DWS, la squadra sfigata di Amsterdam.

Ma poi in Olanda, anno dopo anno, il calcio sta diventando una cosa seria. Il Feyenoord di Rotterdam e l’Ajax di Amsterdam stanno andando alla grande e si stanno facendo valere anche in campo europeo. Più che altro sta emergendo un nuovo modo di interpretare il gioco del pallone. Non più ruoli e giocatori fissi e immobili nella propria casellina di campo, ma gente che riesce a giocare in quasi ogni ruolo. Non più marcatori fissi, ma difensori che presidiano una zona di campo, indipendentemente da chi ci si presenta. E poi terzini che avanzano, che tanto, se avanzano, il mediano si può fermare un attimo. Giocatori che possano spaziare sulla fascia destra e sulla fascia sinistra. E poi il pressing. Vale a dire non mettersi lì ad aspettare che gli avversari arrivino e poi fallita la loro azione di gioco impostare la propria. No. Anche quando gli altri hanno la palla, andargli addosso attaccando. Un “attaccare senza palla” lo chiamerà qualcuno. Poi il “fuorigioco”. Quando l’azione riparte tutti i difensori avanzano, se si perde palla un passaggio agli attaccanti diventa una punizione a favore, mentre questi ultimi si guardano inebetiti chiedendosi “Come ho fatto a finire oltre a tutti i difensori?”. Oggi sembra accademia, ma alla fine degli anni '60 era fantascienza, una cosa inconcepibile. Lo chiamarono “Calcio totale”.

Talmente inconcepibile che qualche saputello la riteneva una moda passeggera che avrebbe portato pochi frutti, al di là dell’innovazione stilistica, soprattutto dopo che l’Ajax arrivò in finale di coppa dei campioni ma venne distrutto dal Milan di Pierino Prati.

L’anno seguente tocca però al Feyenoord di Rotterdam vincere la coppa dei campioni. E dopo arriva l’Ajax di Johan Cruijff che ne vince tre di fila.

Tutto questo Jan lo vede dalla sua tabaccheria e dalla porta della DWS.

Un giorno, visto che ci sono liti intestine, infortuni vari e un poco di culo nella vita non guasta, l’Olanda si trova a non capire chi chiamare nel ruolo di portiere. Arie Haan, stella del centrocampo tulipano, è dovuto arretrare al ruolo di difensore centrale per indisponibilità di altri nel ruolo. La difesa è scoperta, servirebbe uno in grado di giocare da “libero aggiunto”, abile anche con i piedi all’occorrenza. Rinus Michels, il ct, si ricorda di un ex ragazzo con la passione della pesca e, tra la sorpresa generale, chiama in Jan nazionale per un'amichevole.

L’amichevole contro l’Argentina finisce 4-1 per gli orange. Jan è un tipo placido e non crea problemi tra alcune primedonne dello spogliatoio. Riesce a stare nell’ombra e in porta non è male. Con i piedi forse è meglio che con le mani. Ma per il “calcio totale” forse è meglio, no?

E così Jan si trova, all’età di 34 (TRENTAQUATTRO) anni a vestire per la seconda volta la maglia della nazionale. Questa volta il 4-1 è per l’Olanda, perché l’Olanda si è già qualificata per i Mondiali che si saranno in Germania in estate. È la prima volta che succede nella storia del paese, ma ci sono grandi aspettative, in patria. Jan sogna. Vuoi mai dire che si finisca a giocare in un mondiale? A trentaquattro anni?

Figuriamoci, la successiva amichevole è contro la Romania e Jan non gioca, il portiere è un altro, uno dei tanti. La seconda chiamata di Jan in nazionale a 12 anni dalla prima viene presa come una stravaganza. L’Olanda è un paese eccentrico, abituato a tollerare ben altro.

Poi escono le convocazioni per i mondiali e… SORPRESA. Jan è nei 22. La tabaccheria dovrà, per qualche settimana, trovare un sostituto. Quell’estate i pesci dovranno aspettare.

Neanche per sogno, visto che la leggenda narra del nostro Jan che si porta canne (da pesca, è bene specificare visto che siamo in Olanda) e mulinelli nella valigia. Anche perché sarà anche bravo con i piedi, Jan, ma ci sono due giovani molto bravi davanti a lui e si aspetta di esser stato chiamato come terzo portiere, quasi come un papà da utilizzare per fare spogliatoio. Un’altra cosa da raccontare ai figli e ai nipoti. “Sai che ho giocato a calcio? Ho addirittura partecipato a un mondiale!”

L’Olanda ha una stella che si chiama Johann Cruijff. Lui esige e ottiene. Esige che la tripla banda dell’Adidas sulle maniche della maglia diventi una doppia banda SOLO SULLA SUA, perché lui ha come sponsor la PUMA. Lo otterrà. Vuole il numero 14, suo portafortuna. E manco a dirlo, lo ottiene. Tutti gli altri giocatori non si sceglieranno il numero. Verrà assegnato in ordine alfabetico. Punto e basta.

Il giorno dell’esordio contro l’Uruguay si diramano le formazioni. Jan è titolare. Titolare? Pazzesco. Anzi, strano. Strano ma vero.

Jan scende in campo, possiamo solo immaginare con che stato d’animo. Si presenta in porta, con la maglia gialla e con il numero… OTTO.

Cosa? 8? Ma è un portiere! Ma non si può.
Invece sì. È solo strano.

Tutto il mondo ride del giocatore dal fisico tarchiato e del suo numero. Si ride anche delle sue uscite spericolate, del suo esser più abile con i piedi che con le mani. In Olanda ridono forse meno, forse hanno paura, ma in realtà sembrano tutti tranquillissimi, a sentir le cronache. Jan quella porta la difenderà tutto il mondiale. E, nonostante le stranezze e la condotta poco ortodossa, mica si comporta male. Arriva in finale dopo aver subito soltanto un gol. E per giunta a fargli gol è stato uno della sua squadra, Ruud Krol, per sbaglio.

Insomma, nessuno di nessuna altra squadra è riuscito a fargli un gol, a quel dannato tabaccaio di Amsterdam.

La finale è allo stadio Olimpico di Monaco di Baviera. Monaco è sinonimo di strage da due anni, per i tedeschi una macchia indelebile durante le olimpiadi. La Germania Ovest, che si oppone all’Olanda, oltre a giocare in casa ha da ribaltare una storia recente fatta di delusioni e di occasioni perdute per rifarsi un’immagine. L’arbitro Taylor fischia l’avvio. L’Olanda batte il calcio di inizio e i suoi giocatori si passano il pallone per un minuto fin quando Cruijff affonda e viene falciato in area da Hoeness. Rigore.

Batte Neskeens e gol.

Nessun giocatore della Germania Ovest ha ancora toccato la palla e l’Olanda è già in vantaggio.

I tedeschi reagiscono, attaccano come forsennati, sbagliano; Jan si dimostra portiere con le palle quadre, altro che tabaccaio o pescatore. Ma le storie degli antieroi non possono finire troppo bene e così la Germania va al riposo dopo aver segnato due volte nella porta di Jongbloed. Il risultato rimarrà quello. Germania Ovest campione del mondo e Olanda seconda.

Per segnare a Jan c'è voluto un certo Paul Breitner (detto “Il Maoista” per la sua fede politica) che segna su rigore e che, per inciso, nella sua carriera di rigori non ne sbaglierà mai. Il gol decisivo invece lo segna Gerd Mueller, che proprio con quel gol diventerà il giocatore che ha segnato più gol nel corso dei campionati mondiali. Troppo per un tabaccaio. Pesci troppo grossi per un pescatore solo.

Jan torna in Olanda e si accorge che il calcio può diventare un mestiere. Continua a giocare, cambia un sacco di squadre, diventa professionista e cresce il suo ingaggio. Ogni tanto gioca in nazionale, ogni tanto no. Partecipa alla sfortunata spedizione Jugoslava degli Europei del 1976 e poi nel 1978 arriva ai mondiali in Argentina.

Questa volta Mueller non c’è, si è ritirato. Questa volta Breitner non c’è, perché in Argentina c’è la dittatura militare del generale Videla e allora Breitner non vuole averci niente a che fare. Per lo stesso motivo (anche se si dice per soldi o per liti intestine) non c’è nemmeno Johann Cruijff. L’Olanda non è più quella squadra spumeggiante di quattro anni prima. Gioca malino, batte l’Iran ma non ci vuole niente, e poi due gol sono su rigore. Pareggia contro il Perù. Passa per differenza reti e per il rotto della cuffia dopo una sconfitta contro la Scozia per 3 a 2, e Jan non è esente da colpe. Tanto che in porta va Schrjivers, che è meglio, lo dicon tutti. Ma cosa ci fa un tabaccaio di 38 anni in porta?

Nel gironcino di semifinale gli Orange cambiano passo e Jan guarda dalla panchina i propri compagni massacrare l’Austria (5-1), tener testa ai campioni del mondo in carica della Germania Ovest (2-2), e per arrivare alla finalissima manca soltanto una partita. Basterebbe anche un pareggio contro la sorpresa del torneo, l’Italia di Enzo Bearzot.

Dopo venti minuti però, l’Italia va in vantaggio. Un autogol, perché la storia procede per cicli. Questa volta è un certo Brandts che, per anticipare Bettega, butta la palla nella propria porta. Ma non solo. Rovina sul proprio portiere Schrjivers e gli spacca letteralmente la faccia. Schrijvers è sanguinante e infortunato e non può continuare. Jan sa che la storia raramente offre una seconda opportunità, ma non fa una piega. Si scalda e torna in campo.

L’Olanda nel secondo tempo pareggia. Con Brandts, perché una seconda opportunità era nell’aria. Poi, mentre l’Italia cerca la vittoria che le servirebbe, colpisce con un tiro da 40 metri di Arie Haan. 2-1. Finisce così e si va alla finalissima.

Jan è di nuovo il titolare, in una finale del Campionato del Mondo di calcio. È un mondiale strano, l’Argentina ha palesemente violato il regolamento per andare in finale. Gli argentini vogliono una vittoria, devono averla. Il paese deve essere distratto da quello che succede. Panem et Circences, da sempre i tiranni fanno così.

Un gol di Kempes porta in vantaggio l’Argentina. Sembra fatta, ma a 9 minuti dalla fine il neo entrato Nanninga, con un gol di testa, pareggia. Nel recupero Rob Rensenbrink si trova sul piede la palla della vittoria. Il pallone supera Fillol, il portiere argentino, ma va sul palo.

Sul fatto che quel palo ha condannato a morte tante vite umane innocenti si sono scritte pagine e pagine, non ne parliamo qui.

Nei supplementari l’Argentina dilaga. Ancora Kempes e poi Bertoni. 3-1.

L’avventura con la nazionale è definitivamente conclusa. Si torna a casa. Jongbloed è di nuovo secondo.

***

Jan Jongbloed continuerà a giocare fino a 45 anni, quando durante un allenamento verrà colpito da infarto. Si salverà ma dovrà chiudere con lo sport agonistico. Un anno prima aveva dovuto affrontare il dramma della morte del figlio, calciatore, clamorosamente colpito da un fulmine durante una partita.

mercoledì 10 marzo 2010

Il nome del padre

Mio padre si chiama Iules, ma non si è mica sempre chiamato così. Prima era Jules, con una certa ambiguità nella prima lettera. Fino a quarant'anni su alcuni documenti c'era la I, su altri la J. All'anagrafe dicevano che c'era la I ma poi si grattavano la testa e rispondevano che non erano mica tanto sicuri neanche loro, perché una volta le schede le compilavano a mano e proprio sotto la I c'era uno sbavo e non si capiva se fosse inchiostro sputato dalla penna, forse non era una biro, una penna a sfera, perché chissà quando è arrivata in un paesino di poche migliaia di anime la penna a sfera, la biro, anche se è stata inventata nel 1938 e le prime le vendevano nel 1945; e forse era inchiostro sputato dalla penna, forse uno sbavo intenzionale, perché nel 1953 la J non era una lettera tanto in voga, c'era gente che non la conosceva, e l'impiegato dell'epoca, nel dubbio, magari ha messo lo sbavo.

Mia nonna, sua madre, gli ha dato nome Jules perché leggeva i fotoromanzi su Grandhotel e c'era questo Jules che era un gran figo. Poi quando mio nonno è corso all'anagrafe per registrare suo figlio, su un bigliettino aveva scritto Jules con una calligrafia tremolante e mica si immaginava che Jules si leggeva alla francese. Lui all'impiegato dell'anagrafe gli ha detto iules, poi gli ha fatto vedere il bigliettino e l'impiegato ha compilato la scheda con lo sbavo.

Mio padre fino a quarant'anni si è firmato con una I che sembrava una J, era contento così, faceva un bel ricciolo sotto la I, una cosa quasi artistica, una felicità ogni volta che doveva firmare un assegno o un voto sul mio diario o una giustificazione per la scuola. Lo guardavo sempre con ammirazione ogni volta che firmava. Gli dicevo Babbo ma che bella firma, ma che bel nome.

Poi a quarant'anni gli arriva una lettera dallo Stato. Volevano chiudere la questione perché non erano mica sicuri che gli fossero arrivate tutte le bollette. Gli han detto Sig. Iules o Jules, si decida, le mandiamo un modulo da compilare e lei sceglie il suo nome una volta per tutte, noi le inviamo dei documenti nuovi di zecca e aggiorniamo tutte le sue pratiche, ma si decida, ché qua non ci capiamo niente. Allora mio padre è stato una settimana col mento appoggiato sul pugno, seduto al tavolo della cucina, per decidere come chiamarsi definitivamente da lì in poi. Una mattina, senza dir niente a nessuno, è andato a spedire il modulo. Quando è tornato a casa si è fatto un caffé, e quando ci siamo svegliati, io e mia sorella, ci ha detto Ragazzi, mi chiamo Iules, con la I.

Ho sempre pensato che decidere il proprio nome a quarant'anni fosse una cosa giusta. Metterei una legge per la quale ognuno, a quarant'anni, o anche prima, se vuole può scrivere una lettera allo Stato dove dice che nel pieno delle facoltà mentali decide di cambiare nome. Anche il cognome. Poi se a uno gli piace il nome che porta lo può anche tenere. Come dovrebbe essere il battesimo, scegliere coscientemente il proprio nome sarebbe una cosa matura, per una persona e per uno Stato. Io, per esempio, non ho dubbi. Io lo so che se potessi mi chiamerei John Laser.

martedì 9 marzo 2010

Doposcolari: saranno italiani

S. ha 15 anni e viene dalla Tunisia. È in Italia da pochi mesi e quando arriva al doposcuola non ha mai compiti da fare. Strano, perché L. invece, che è in classe con lui, ne ha parecchi. S. non me lo sa spiegare e io me lo immagino nel suo banco, a seguire una prof che parla in una lingua che lui ancora non capisce bene affrettandosi al suono della campanella a dare a voce gli esercizi per il giorno dopo senza curarsi se qualcuno fatica a prenderne nota. S. poi ha la sua carta da giocare se non li fa: era al corso di alfabetizzazione del pomeriggio. Corso che esenta (a discrezione dei prof) percentuali variabili sui compiti elargiti. Chiedo a S. di farmi vedere il testo che lo dovrebbe aiutare a capire l'italiano, e quindi a integrarsi a scuola. Lui lo tira fuori e me lo apre su un brano cui seguono delle domande per aiutarlo nella "comprensione". Leggiamo insieme la prima frase: "L'Italia è una penisola a forma di stivale". Mi guarda perplesso. Gli spiego cos'è uno stivale e tiro fuori l'atlante perchè veda la somiglianza. Ride. Non ci aveva mai pensato. Per me invece, mi dice, l'Italia somiglia a un gatto che salta. Accidenti, ha ragione.

Pensieri in apnea: automatismi

Nona (micro e in ritardo) puntata

Da una settimana mi son tagliato i capelli, circa. Ho i capelli corti ora, non mi escono più dalla cuffia. Ma continuo imperterrito, in ogni acquisto che faccio, a tenere da parte le monetine per il phon a gettone.

lunedì 8 marzo 2010

Biografie essenziali (16)

Malcom Lowry aveva un cattolicissimo senso di colpa e un protestantissimo bisogno di predestinazione. Morì alcolizzato.

Biografie essenziali (15)

Guy de Maupassant fu il padre del racconto moderno. Morì dopo diciotto mesi di delirio. Non sopportava la vista della Torre Eiffel.

Biografie essenziali (14)

Giacomo Leopardi era pessimista, ma andava ghiotto di dolci. Una volta era a Napoli e, dicono, per colpa dei gelati è morto.

Ciao mamma, sono arrivato uno

L’impensabile si è avverato: Carlo Dulinizo ha vinto. Più che impensabile, impensato. Sennò mica andavamo a Milano con una panda. Mica ce lo aspettavamo – un pochino, io, sì; lui, invece, che è una persona brava e onestissima, no – mica ce lo aspettavamo, dicevo, di dover portare a casa una bici così. Solo che han cominciato a ritroso a chiamare i finalisti. E Carlo non era l’ottavo, neanche il settimo, il sesto no, nemmeno il quinto, poi non era il quarto e neppure il terzo, il secondo rullo di tamburi non era il suo, e niente: primo. Pensa te. Mi son girato a guardarlo e rideva isterico sotto barba e baffi, con le spalle che facevano su e giù e la testa scrollava e diceva Ma dài, ma non è vero.

Carlo Dulinizo è stato comunque integerrimo: è salito sul palco, ha ritirato il premio, si è caricato la bici sulle spalle e l’ha parcheggiata a casa di due amici registi che vivono al settimo piano di un palazzone di Milano dall’ascensore angusto e traballante. Scarpinata a piedi dalla FNAC oltre la Darsena, poi i Navigli, eccetera, fino all’ascensore angusto. Però eravamo contenti e dopo abbiamo bevuto delle gran birre.

Non vi racconto com’è andata: ve lo faccio vedere. Nessuno dei due tizi che legge è il Dulinizo. Il filmato della premiazione non è ancora pronto, ma sappiate che, per l’occasione, Carlo Dulinizo ha usato il nome anagrammato con il quale ama spacciarsi nella vita reale. Però non so se posso dirvelo. Ci penserà poi lui.

(update: la premiazione)

sabato 6 marzo 2010

Gli antieroi: Hans Georg Schwarzenbeck

Hans Georg Schwarzenbeck era soprannominato "Katsche". Iniziò a giocare nel Bayern Monaco nel 1966 e non cambiò mai squadra. Giocava stopper. Era anche in nazionale, fisso. Insomma, era un buono stopper ed era uno spilungone di un metro e ottantatre che marcava i centravanti e stava sempre in difesa. Ma Schwarzenbeck non se lo cagava mai nessuno. Quando giochi stopper e il tuo libero si chiama Franz Beckenbauer, non ti caga nessuno. Infatti "Katsche" era stato anche campione d'Europa con la Germania Ovest nel 1972, ma mentre tutto il mondo aveva visto Beckenbauer alzare la coppa, in pochi si erano accorti di lui.

Poi un giorno si trovò in finale di coppa dei Campioni contro l'Atletico Madrid. Lo stadio era l'Heysel di Bruxelles, che poco più di una decina d'anni dopo avrebbe visto l'ultima partita della sua storia e una strage, sempre in finale di Coppa dei Campioni.

I tempi regolamentari erano finiti 0-0 e si era andati ai supplementari, che all'epoca erano l'ultima spiaggia. Perché nel 1974 il calcio era ancora uno sport serio, per certi versi. E infatti non si assegnava una vittoria ai calci di rigore, perché ai rigori si dice sempre che sia una "lotteria" e se dovevi laurearti campione d'Europa non si poteva fare la lotteria.

Al 113' l'Atletico Madrid passa in vantaggio con un gol di Luis e gli spagnoli festeggiavano non poco. Poi tutti dietro in trincea. Sette minuti di resistenza e la prima coppa dei campioni dell'Atletico sarebbe stata realtà. Finalmente potevano rispondere ai cugini del Real, che ne avevano tante da perdere il conto, e che sfottevano di continuo dall'alto del loro Palmares.

Sette minuti di sudore, di fatica, con le unghie e con i denti. Sei minuti. Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno.

60 secondi. Forse meno.

Il pallone è rotondo e sfugge alla natura che di rotondo non ha creato nulla se non i pianeti. Ogni palla è dunque un mondo. Ogni giro una rotazione oppure una rivoluzione.

Il mondo si trovò sui piedi di Katsche, stranamente avanzato verso la tre quarti avversaria. Katsche andò avanti e, con la forza della disperazione, lasciò partire un tiro. La palla schizzò dritta a velocità fotonica e si infilò in rete. La Baviera esplose in un urlo che non si sentiva dalla fine dell'eco sull'ultima nota della prima del Loehengrin di Wagner. Katsche aveva pareggiato. Il tempo di rimettere la palla a centrocampo e l'arbitro dovette dire che un campione d'Europa non c'era ancora.

Si andò a letto, non sappiamo con che stati d'animo. Due giorni dopo la rivincita e questa volta non si poteva sbagliare. Le squadre scesero in campo già stanche e si capì subito che sarebbe stata una gara di resistenza piuttosto che un confronto tattico in punta di fioretto. Verso la fine del primo tempo segnò Uli Hoeness e il Bayern era in vantaggio. Nel secondo tempo gli spagnoli scoppiarono fisicamente e il Bayern dilagò. Prima una doppietta del super bomber Gerd Mueller e poi ancora Uli Hoeness, pedina fondamentale dell'attacco carrarmato dei Bavaresi. 4-0. Mueller e Hoeness eroi nazionali, "Kaiser" Franz Beckenbauer alzò la coppa in Eurovisione.

Più tardi, quell'anno, avrebbe alzato anche quella di Campione del Mondo, con la Germania. E Katsche sarebbe stato lo stopper di quella squadra. Il Bayern avrebbe cominciato un ciclo: tre coppe dei campioni di fila e una coppa intercontinentale nel 1976. Kaiser Franz diventò un eroe, oggi è nel consiglio direttivo della FIFA ed è stato un celebre allenatore, sia del Bayern che della nazionale, poi è stato un dirigente di successo, conosciuto in tutto il mondo.

Hans Georg Schwarzenbeck si è ritirato nel 1981. Ha aperto un'edicola.

venerdì 5 marzo 2010

"ma qualcuno si è avvicinato a De Quincey"

L'opera finalista di Carlo Dulinizo viene citata su il Giornale. Mi ha detto che son soddisfazioni lo stesso, tanto Nori scrive su Libero.

Bacia Milano

Domani i barabbisti vanno in gita a Milano. Il buon Carlo Dulinizo è un finalista di un concorso sulla letteratura rinnovabile, mentre noialtri, Grushenka e il sottoscritto, facciamo da facchini e accompagnatori invidiosi e orgogliosi al tempo stesso.

E niente, dalle 18.00 siamo alla libreria FNAC in via Torino 45 per vedere se il Dulinizo vince qualcosa. Il primo premio è una bicicletta pittata in stile deperiano da degli artisti che non mi ricordo. Male che vada si viene a casa con il premio di consolazione, che è un Devoto Oli edizione duemiladieci; e sappiate che noi barabbisti siam dei fan sfegatati del Devoto Oli, altro che Zingarelli e quelle robe lì da maggioranza silenziosa.

Insomma, ve l'avevo già detto martedì che domani siamo a Milano. Volevo solo un pretesto per usare quel titolo lì.

giovedì 4 marzo 2010

I Giri

Che menata fare i giri!
A voi non rompe un sacco? A me sì. Però quando fai qualsiasi cosa abbia a che fare con qualsiasi rapporto ufficiale e non confidenziale con persone, associazioni o cose, devi “Fare dei giri”. Devi rinnovare la patente? Ci sono dei giri da fare. Devi andare dal medico, fare la visita. E per andare a fare la visita devi andare al Cup e prendere quel cacchio di ricevutona. Quindi devi far dei giri ancora. Devi cambiare residenza? Vuoi uno stato di famiglia? Ti serve una certificazione uso antimafia perché hai aperto un'attività? Devi andare all’anagrafe e poi, dopo che hai preso il numerino, arrivi davanti e ti chiedono se hai la marca da bollo. Tu la marca da bollo non ce l’hai, allora esci e vai in tabaccheria, poi prendi la marca da bollo e torni a prendere il numerino e torni a far la fila.

Per fare i giri devi prendere una mezza giornata di ferie. Delle volte non basta e “mi prendo tutta la giornata che non si sa mai”. E ti incazzi che “al pomeriggio non c'è mai nessuno” però comunque fai i giri. Bisogna. È una menata, ma va fatto.

Anche se ti iscrivi a una corsa podistica. Cominci ad allenarti, vai a fare le visite mediche per essere sicuro che il cuore non ci molli, vai in farmacia a comprare degli integratori perché proprio ci tieni a fare un bel tempo. Ma non ti dimentichi di iscriverti. Altrimenti, quando la mattina del giorno della gara ti presenti, non ti fanno correre, non hai la pettorina. Magari sei uno dei più forti, magari al tuo posto correranno persone con una panciona da gnocco fritto e vino e bambini di 8 anni con i genitori mentre tu, che hai nelle gambe una gara potente e precisa, resterai allo stand del gnocco fritto a mangiare. Non c’è niente da fare, ti dovevi iscrivere. E per iscriverti devi fare dei giri.

Anche se organizzi una partita di calcetto in un campo parrocchiale e siete tu, Platini, Messi, Batistuta. Ma vi scordate di andare a prenotare il campo. Al vostro posto giocheranno 5 dopolavoristi pelati che parlano solo dialetto calabrese, ma che si sono ricordati di chiamare il numero e prenotare il campo. Bisogna fare i giri. C’è poco da fare.

E se i giri sono importanti, vanno fatti per tempo. Se il vostro coniuge muore e volete la pensione di reversibilità, è una cosa importante. Quindi dovete fare i giri mica all’ultimo secondo, ma dovete muovervi per tempo. Una volta passato lo scotto della perdita, quindi, datevi da fare. Lo fate e lo sanno bene tutti coloro che lo hanno dovuto fare.

Se la patente vi scade il 5 Maggio 2010, non vi presentate all’ACI il giorno 5 Maggio. Un paio di mesi prima iniziate a fare qualche telefonata. È una menata, ma è una cosa importante e quindi lo fate. TUTTI. Lo sanno bene i cittadini normali, che i giri li devono fare.

Se lavorate in una ditta e dovete, tanto per fare un esempio a caso, fare una prima spedizione a un cliente arabo importantissimo. È la vostra prima fornitura a quello che può essere un cliente importante e quindi, una volta saputo che bisogna fare i certificati di origine della merce e vistarli in camera di commercio, lo fate PER TEMPO. Se la vostra impiegata va a farlo l’ultimo giorno utile e poi, sempre per fare un esempio a caso, trova traffico e arriva quando l’ufficio è chiuso da dieci minuti, voi dite alla vostra impiegata che è una povera deficiente. Le urlate di tutto. E la roba non la spedite. Fate una figura di merda con il cliente e la vostra collaborazione con lui può essere finita. Punto e basta. E magari la vostra impiegata perde il posto o comunque subisce una sanzione disciplinare. O magari, se siete molto indulgenti, un mega cazziatone ed è finita lì. E non è sbagliato.

Insomma, non c’entra essere di destra o di sinistra. È che siete dei coglioni. E non si può farvi partecipare al gioco, figuriamoci governare. Altrimenti, quando avrò bisogno di rinnovare la licenza di pesca o avrò bisogno di fare il certificato di nascita di mio figlio, non potrò far fare la firma su un documento da un sindaco, un presidente di regione, un qualcuno che NON HA LA MINIMA IDEA SU QUALI SIANO I GIRI DA FARE.

Punto.

martedì 2 marzo 2010

La lezione del giorno

"Lasciate perdere broletti, palazzi del governo e anche le università, ragazzi, pensate alle banche. Intendiamoci, non sono da sconfessare le occupazioni spontanee di questi edifici, e magari anche delle carceri e dei manicomi. Anzi, esse sono da riguardare con simpatia, ma bisogna in ogni caso riconoscerne l'infantilismo rivoluzionario, l'errata valutazione circa la priorità degli obiettivi[...].
L'occupazione delle banche richiederà l'impiego di squadre specializzatissime. Se anche noi possiamo permettere e anzi approvare quei moti spontanei e repentini della piazza, e potremo persino giungere a sollecitarli, per l'azione risolutiva noi avremo bisogno di altissima funzionalità, perfetta scelta di tempo, fulmineità di manovra e risolutissima decisione. E badiamo bene: occupare le banche non significa entrarci dentro e rimanerci, seduti per terra a tenere assemblee, concioni e bambate simili [...]. Le banche non vanno presidiate. Vanno vuotate".

Luciano Bianciardi, Aprire il fuoco, Rizzoli, 1969, pp. 173-174.

And The Winner Is...

È per me un enorme piacere comunicarvi che il nostro Carlo Dulinizo è tra gli otto finalisti del concorso sulla Letteratura Rinnovabile con il brano Confessioni di un titillatore di iPhone, del quale trovate un estratto qui.

E niente, sabato pomeriggio, dalle 18.00, probabilmente saremo tutti a Milano alla libreria FNAC in via Torino 45 sperando nella vittoria. Il bello è che - Carlo, potrai mai perdonarmi? - il buon Dulinizo non ce l'ha nemmeno un iPhone. Quando si dice il mestiere della finzione...

lunedì 1 marzo 2010

Biografie essenziali (13)

William Shakespeare nacque e morì a Stratford-upon-Avon, in Inghilterra. Ma negli "anni perduti" (1585-1592) era a Sorbolo (PR). Cercava di far salire la squadra di calcio locale almeno in 1a divisione. Invano.

Biografie essenziali (12)

Federico García Lorca era uno che cantava la vita, ma i fascisti di Franco gridavano Viva la Morte. Così l'hanno ammazzato.

Biografie essenziali (11)

Cristopher Marlowe era un agente segreto, poi era un poeta e drammaturgo. Morì a 29 anni in una rissa di coltelli, uccidendo il capo dei servizi segreti di Sua Maestà. Un tipo tranquillo...

Biografie essenziali (10)

John Reed era uno sempre sul pezzo. Sapeva bene da che parte stare. È morto di tifo abbastanza giovane.